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Pablo Benito: L'arca della creazione: il motivo del Markab nel sufismo (recensione)

di Alberto De Luca - 05/02/2007

Pablo Beneito: L’ARCA DELLA CREAZIONE: IL MOTIVO DEL MARKAB NEL SUFISMO

Edizioni Simmetria, 2005, pp. 61

 

 

Il libro è sostanzialmente la traduzione in italiano di un intervento tenuto da Pablo Beneito ad una conferenza tenutasi a Siviglia nel corso del 2004. Esso sorprende per l’universalità della tematica affrontata da Ibn cArabî, che è stata così sapientemente scelta dallo stesso Beneito come oggetto del suo intervento.

La tematica dell’Arca, quale veicolo di avvicinamento a Dio, assume i connotati della punta di una spada che taglia dei veli di seta: essa è comune ed insieme particolare, proprio come la stessa spada che ha tagliato tutti i veli in uno stesso punto, il quale però è particolare a ciascuno di essi. L’immagine testé evocata richiama subito il concetto di «Unità trascendente delle tradizioni». Un’ottica che in passato spesso è stata accettata acriticamente, complice una certa arretratezza e ritrosia nell’approfondimento critico delle forme religiose, ma che ora va maggiormente problematizzata, proprio mentre ci si muove oltre esclusivismi o inclusivismi da annullare affrettatamente.

Ne deriva, secondo chi scrive, la necessità di realizzare pienamente tutta la portata delle riflessioni dello stesso Guénon, ad esempio, che cita sapientemente Dante: “O voi che avete
gl’intelletti sani, /mirate la dottrina che s’asconde/ sotto il velame delli
versi strani” (Inferno IX, 61-63). Questo non equivale, infatti, a tralasciare il «velame» per mirare solo a «la dottrina che s’asconde». Tutt’altro. Indica la necessità di compiere (“seguire”) il velame, per poi, sorretti dalla Grazia divina, ritrovarsi in quella dottrina che non è più imbrigliata dallo schematismo delle forme. Per arrivarvi, però, non si può partire dall’alto, pena il pericolo di adesioni intellettualistiche, che il più delle volte è un’arcata che converge in vie gnostiche e non in vie di gnosi. Tutto viene invece fatto in salita, con un continuo crescendo, fintanto che le forze lo permettono.

Per rendere il senso di tutto e per evitare di impantanarsi in futili disquisizioni, piace sottotitolare l’immagine della spada sopra proposta, come del resto lo stesso studio sull’Arca, con la parola uni-totalità.

In questa direzione va anche intesa la stessa preziosa citazione del lavoro di Corbin sui diagrammi di Amolî. Essa fa certamente ricordare anche la grande “tolleranza” di Ibn cArabî, che non va letta come un certo contemporaneo indifferentismo, bensì come la convinzione che qualsiasi “casella del diagramma” - ogni “punto del cerchio”, come si vedrà nel seguito – è un’Arca in potenza e che come tale, se si vuole veramente, nel proprio cuore, raggiungere il Centro unico ed unificante, non è “obbligatorio” passare da una “casella” ad un’altra, bensì è necessario raggiungere il Centro da quella “casella” dove si è, visto che è proprio il Centro a fornire la verità all’insieme e ad ognuna delle parti di quest’ultimo.

Quindi, paradossalmente, il viaggio non è un viaggio, o meglio esso non inizia mai, perché in realtà ci si sposta solo metafisicamente.

 

Ogni tradizione anela dunque al proprio Centro, ma l’aggettivo “proprio” rischia di essere un velo per chi creda che esista, in assoluto, solo il suo Centro. Quest’ultimo, invece, è simile ad un Prisma ed in quanto tale è avulso da qualsiasi tentativo che tenda a defirnirLo solo da una certa angolatura, la sua. All’opposto di questo conato, si muove la via apofatica, che è bene ricordare essere sempre e solo un mezzo e mai il fine del sentiero verso il Centro («Non abbiamo mezzi per considerare che cosa è Dio, ma piuttosto cosa non è» - S. Tommaso, Sum. Theol., I.3.1).

Con queste premesse si ritiene che non sia obbligatorio “convertirsi” oppure “abbracciare” altre tradizioni per poter raggiungere il Centro-Prisma. 

“Arrivare o essere nel Centro” significa cogliere la verità di tutte le tradizioni, o meglio essere per quest’ultime “l’arca della salvezza”. Del resto lo stesso Profetta Muhammad ebbe a dire che «Le vie verso Dio sono numerose quanto i respiri delle creature». Le vie, in questo caso, non hanno nulla a che spartire con quelle vie definite dai precetti legali; esse sono piuttosto quelle vie proprie a ciascun essere in forza della sua peculiare norma interiore, visto che è proprio quest’ultima la «diritta via ontologica».

Ma queste stesse «vie ontologiche» implicano quelle contraddistinte dalle obbligazioni legali.

Non pare, pertanto, pleonastico ricordare che la ricerca del Centro sia la sola a fornire un significato al mondo finito in cui l’uomo sulla terra viene a trovarsi. La Sua ricerca permane quanto l’esistenza umana, dato che l’uomo non può rimanere tale senza cercarLo e senza volersi trascendere. Il Sufismo, nome convenzionale per indicare la via mystica islamica, è quindi uno dei colori della «tunica multicolore» del Centro ed è essenzialmente unito alle vie attuative dello Spirito delle altre tradizioni, ma nell’aspetto formale ha i caratteri dell’Islâm. Quanto detto non ha intenzione alcuna di proporre equivalenze inter-tradizionali, bensì individuare un referente trans-tradizionale, di cui rispettare le doverose differenze.

Il mondo è, pertanto, la diafania di Dio, ma non per Egli stesso. Quale bisogno avrebbe, infatti, Dio?

All’opposto, il mondo è la modalità in base alla quale Dio è naturalmente trasparente all’uomo.