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Cannabis. Come perdere la testa…

di Stenio Solinas - 24/07/2007

La risposta al problema delle droghe non è nella scelta fra repressione o legalizzazione,

ma nell’educazione culturale in grado di rovesciare la mistica positiva dello spinello.

Se io fossi ministro della Pubblica

Istruzione (lo è l’onorevole

Fioroni, lo sono stati

Letizia Moratti e Riccardo

Misasi, perché non io?...)

farei adottare come libro di

testo nei licei Cannabis.

Come perdere la testa e a volte la vita di

Claudio Risè (San Paolo editore, 207 pagine,

12,50 euri). È la prima volta che mi capita di

leggere uno studio così ancorato ai dati

scientifici e così privo di enfasi sociale pro o

contro l’oggetto studiato, così al passo con

gli studi e le analisi della comunità medica

internazionale e così consapevole che la

risposta al problema delle droghe non sta

nella scelta fra repressione o legalizzazione,

ma in uno sforzo di educazione culturale in

grado di rovesciare come un guanto la mistica

positiva dello spinello che da un trentennio

prospera in Italia.

Che da noi il problema della droga sia un

problema serio, lo dimostrano alcuni dati

della Relazione annuale sullo stato delle tossicodipendenze

presentata nei giorni scorsi,

in Parlamento, dal ministro della Solidarietà

sociale Paolo Ferrero. Da esso si evince che

il consumo di marijuana o hashish è aumentato

del 45 per cento rispetto a quattro anni

fa, che quello della cocaina negli under 35

vede un aumento addirittura del 62 per cento

e del 50 per cento fra le femmine under 24.

Il 70 per cento degli studenti sa dove procurarsi

uno spinello, il 44 per cento lo trova

tranquillamente nella propria scuola, il 24,5

per cento ha tirato lo scorso anno per la prima

volta... Ultimo dato significativo, mentre

il costo di cocaina ed eroina è andato diminuendo

negli ultimi cinque anni, allo stesso

modo è diminuita, sempre in quell’arco di

tempo, la percezione del rischio correlato

all’uso di cannabis: all’inizio del Duemila,

cinque milioni di italiani ne erano consapevoli,

oggi non lo ritengono significativo. In

sostanza, la diminuzione del prezzo, l’aumento

della quantità distribuita grazie alla

legge del libero mercato, la diffusione sempre

più capillare grazie anche a un’imponente

crescita degli immigrati, il raddoppio della

quantità personale ammessa per legge, disegnano

i contorni di un Paese schizofrenico e

pressapochista, dove si piangono le morti

giovani del sabato sera, ma non ci si interessa

mai veramente su cosa le provochi e perché.

Dietro questi numeri, osserva Risè, «c’è un

intero popolo che viene tenuto da politici e

media all’oscuro dei pericoli che l’uso di

questa sostanza porta con sé. Mancano le

informazioni sul mercato illegale che si

arricchisce con i soldi del popolo della cannabis

». Nessun giornale italiano ha avuto il

coraggio di comportarsi come il quotidiano

britannico The Independent che, nel marzo

scorso, è uscito con in copertina il titolo

Cannabis: an apology, Cannabis: scusateci,

in cui rivedeva le posizioni che, un decennio

prima, lo avevano spinto a una campagna

per la sua liberalizzazione e il suo declassamento

fra le droghe cosiddette leggere e non

punibili. Un cambiamento dovuto al fatto

che, come ha spiegato Colin Blakemore,

responsabile del Medical Research Council,

«il legame tra cannabis e psicosi adesso è

chiaro, mentre non lo era dieci anni fa».

Mentre in tutti i Paesi occidentali le conoscenze

degli effetti del THC (il delta 9-tetraidrocannabinolo,

il più potente dei 61 cannabinoidi

contenuti nella cannabis) sul cervello

e sul corpo umano sono diventate più precise,

hanno consentito ai governi di mettere in

relazione alla assunzione di cannabis una

serie di comportamenti individualmente e

socialmente distruttivi, e ne hanno quindi

mutato le politiche al riguardo, da noi continua

a risuonare la vecchia musica frikkettona

della “droga buona”, la leggenda rosa che

“non è neppure una droga, al più un eccitante”,

e comunque non fa male a nessuno, rende

più liberi e più felici... Provinciali anche

in questo, continuiamo a baloccarci in un

eterno passato senza tempo.

Secondo il World Drug Report 2006, “i trafficanti

hanno notevolmente investito negli

ultimi anni per aumentare la potenza - e con

ciò la capacità attrattiva sul mercato - della

cannabis. Il risultato è stato devastante: oggi

le sue caratteristiche non sono molto diverse

da quelle delle altre droghe vegetali come

eroina e cocaina”. In sostanza, abbiamo a

che fare con nuovi tipi di cannabis sempre

più potenti. I più noti sono, per ora, lo skulk,

il new skulk e la sansimiglia, la pianta non

impollinata, senza semi, e rappresentano un

mercato, e pericoli, completamente nuovi di

cui i vecchi fans della cannabis non posseggono

informazioni attendibili. La

sansimiglia, per fare un solo esempio, può

raggiungere una concentrazione di THC pari

al 35 per cento, laddove, ancora negli anni

Sessanta, una concentrazione tra l’uno e il

sei per cento era già considerata altissima...

È, insomma, cambiato tutto, ma in Italia si

continua a far finta che non sia successo

niente. Se la Francia stanzia 110 milioni di

euri per una campagna di informazione e

prevenzione (sinergie con la scuola, opuscoli,

punti di ascolto, apertura di un numero di

telefono azzurro...), da noi non esiste una

campagna di comunicazione globale e si

pensa che il pericolo più grande per i nostri

studenti siano le merendine... Siamo l’unica

nazione europea a non aver detto chiaramente

che lo spinello fa male. Molto male.

Eppure, nota Risè, qualche riflessione fra ciò

che, come la cannabis, mina l’attenzione, la

memoria, la volontà, la capacità di approfondimento

degli studenti, e lo stato generale

della scuola italiana andrebbe pur fatta. Ogni

anno, in media, centomila alunni abbandonano

i banchi a scuola appena iniziata, e

300mila vengono bocciati a giugno, un universitario

su cinque non rinnova l’iscrizione

al secondo anno, il 40 per cento è fuori corso,

il 64 per cento si laurea fuori corso. Siamo

tra i primi quanto a tassi di abbandono.

Eppure, qualche riflessione sul rapporto cannabis-

aggressività e sulle sempre crescenti

forme di violenza e delinquenza giovanili,

con gravi costi individuali per la comunità,

andrebbe pur fatta. Ci si chiede per quale

motivo, come impazziti, ci siano ragazzi che

strappano i lavandini negli stadi e li usano

come corpi contundenti, si esibiscono sessualmente

in classe, ma non sembra mai

venire in mente a nessuno che questi comportamenti

innaturali si moltiplicano in situazioni,

scuole, stadi, discoteche, dove il commercio,

lo spaccio e l’utilizzo di stupefacenti

è la regola...

Certo, è tutta la società italiana in affanno.

Famiglie scollate, famiglie scoppiate, padri

assenti, madri in carriera, legislazioni schizofreniche,

nessuna certezza della pena e molta

impunità, ma alla base resta un elemento culturale

diffuso, quello di una generazione di

cinquanta-sessantenni che confonde il proprio

passato con il presente dei figli, che è

rimasto indietro quanto a conoscenze e che

ha fatto di un generico permissivismo e

ribellismo la sua filosofia di vita. La cultura

della droga in Italia non ha mai assunto quella

forma luciferina, faustiana quasi, che fu di

un’élite intellettuale fra Otto e Novecento, i

paradisi artificiali dove mettersi alla prova,

l’allargamento delle esperienze, la volontà di

oltrepassare le barriere, l’individualismo che

paga per ciò che rischia ma nel rischio trova

il suo giusto prezzo... Da Baudelaire a Jünger,

c’è stato anche questo percorso, ma da

noi ha sempre e comunque prevalso quello

della fuga, del “non contate su di noi” dello

sballo fine a se stesso, del rifiuto della

responsabilità, del disprezzo verso l’altro

inteso come istituzioni, comunità, una sorta

di pensiero minimo velleitario e inconcludente.

Trent’anni dopo, quando, appunto,

intanto è cambiato tutto, continua a riproporsi

come insegnamento, come strizzata d’occhio

complice, il non vietare perché è il conflitto

che va bandito, è il punire il grande

nemico. Fin quando, culturalmente, non si

rovescerà questo schema, non ne usciremo.

Se i nostri figli se la caveranno, non per questo

ci ringrazieranno.