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Impero Americano

di Romolo Gobbi - 25/07/2007



Toni Negri nei suoi libri parla di un Impero, che domina il mondo attuale, ma si rifiuta di identificare gli USA come l’unico e vero impero. In un’intervista rilasciata al Giornale il 29 gennaio del 2006, egli si giustifica: “smettiamola con queste inutili polemiche pro e contro l’America, io non sono contro l’America, considero stupido il becero antimecanismo, sia di destra, sia di sinistra. Io mi sono sempre considerato legato alla cultura americana, considero quello un grande paese, una grande democrazia con una grande Costituzione [...]. Sono però nemico di certe politiche americane: ieri quella in Vietnam, per esempio, oggi quella di George Bush”.
Il nostro si è dimenticato di altre politiche di altri presidenti americani, da Reagan a Bush padre, prima guerra contro l’Iraq, a Clinton e la guerra contro la Serbia; dunque non vuol capire che la democrazia americana, e proprio con la scusa di voler esportare la democrazia, continua a fare guerre, mentendo al proprio popolo (armi di distruzione di massa, terrorismo) e, poiché domina il mondo delle informazioni, ingannando anche tutti noi. Ma poi cosa si intende per “grande democrazia”, quando in america vota solo il 50% degli aventi diritto e il presidente di turno viene eletto dal 25% con uno scarto di voti minimo, asseganto con manovre non esattamene democratiche? Poiché quest’ultimo fenomeno si è verificato anche durante le ultime elezioni politiche italiane, e in Germania si è registrata una quasi parità tra i due massimi partiti, serebbe ora che si mettesse in discussione lo stesso concetto di democrazia. Certamente non è democratico dare del terrorista a chi vince le elezioni democraticamente (FIS in Algreria 1991, Hamas in Palestina 2007) oppure ostacolare l’elezione alla presidenza della Turchia di un membro del partito di maggioranza filo-islamico.
Dopo l’11 settembre, e la dichiarazione di guerra contro il terrorismo islamico, in pratica, gli USA si sono garantiti la possibilità di intervenire in qualsiasi parte del mondo essi dichiarino esistere una minaccia terroristica. Di fatto, gli Stati Uniti sono continuamente in guerra da quasi settanta anni, dalla seconda guerra mondiale e dalla guerra di Corea sino ai giorni nostri. In tutti i paesi vinti hanno lasciato delle basi militari, e altre ne hanno messe in paesi alleati-sudditi: in totale le basi americane all’estero sono più di 700, disseminate in tutte le parti del mondo, con circa 200.000 militari stanziati permanentemente, senza contare i soldati americani presenti in Afganistan e in Iran, dove, tra l’altro, sono state costruite una quindicina di nuove basi permanenti. D’altra parte, le spese militari degli USA ammontano a circa quattrocento miliardi di dollari, il 3,8% del prodotto interno lordo, e sono superiori alle spese militari di tutti gli altri paesi messi assieme. I militari americani sono circa 1.800.000, ai quali vanno aggiunti 400.000 dipendenti del Dipartimento della Difesa.
Le industrie che producono per le forze armate americane, il cosiddetto Complesso Militare Industriale, formano una potentissima lobby, in grado di condizionare quasi tutti i membri del Congresso, perché in ogni Stato esiste una qualche azienda connessa con gli armamenti. Già il presidente Eisenhower, ex comandante degli alleati durante la Seconda Guerra Mondiale, e poi comandante supremo della NATO, nel suo discorso di commiato dalla presidenza USA nel 1960 avvertì i successori del pericolo per la democrazia americana, rappresentato da Complesso Militare Industriale. Il pericolo è ancor più reale dopo l’11 settembre, quando è stato approvato il Patriot Act, che limita la privacy e le libertà del cittadino, ulteriormente aggravato dal Congresso, in una nuova versione del 7 marzo 2006, che ha conferito alla polizia e al FBI nuovi poteri di indagini e di repressione. Toni Negri commenta: “L’11 settembre ha schiacciato i no global, li ha messi in crisi, perché l’Impero si è riorganizzato e ha fatto quadrato dinnanzi allo spettro di un nuovo nemico esterno” (il Giornale, 16 luglio 2007). Ma, a pagare questo “quadrato” sono stati anche i 300.000 civili iracheni ammazzati dalla guerra dichiarata da Bush, con il potere conferitogli dal Congresso, più le migliaia di vittime del terrorismo scatenato dall’occupazione americana e gli stessi soldati americani morti sinora in quella impresa (più di tremila?). Sono morti anche soldati appartenenti ai contingenti della forza multinazionale dell’ONU, e tra questi anche alcuni carabinieri italiani. Nonostante tutto, l’impresa irachena non vede una soluzione prossima, mentre si possono immaginare altre imprese contro qualche “stato canaglia”; ad esempio, tre portaerei americane sono attualmente presenti nel golfo persico, dispiegamento di forze mai verificatosi prima. Dunque, il Complesso Militare Industriale ha trasformato la politica estera americana in un potenziale stato di guerra permanente.
Mentre Negri discute ancora sulla natura essenzialmente imperiale degli USA, Cullen Murphy, giornalista americano, ha pubblicato il libro “Are we Rome”, che paragona gli Stati uniti all’Impero Romano: “Washington condivide con Roma il fatto di considerarsi senza rivali, l’imponenza arrogante dell’apparato militare, la dilagante corruzione del potere politico da parte dei privati, la presunzione di poter ignorare cosa avviene altrove nel mondo, la difficoltà di gestire i propri confini, l’impossibilità oggettiva di gestire un potere enorme” (La Stampa, 20 luglio 2007). Oltre a questi aspetti politici, per altro non nuovi, anche dal punto di vista militare esistono forti analogie tra la strategia di Bush e quella dei Cesari Romani: “Logistica e addestramento consentono di prevalere su ogni nemico, le terre lontane ( com’era il limes ed è oggi l’Afganistan), vengono gestite con isolati avamposti militari [...] e appena possibile si ricorre ai mercenari per far fronte alla carenza di soldati (gli USA in Iraq, i Romani in Pannonia).” (La Stampa). Il libro sta suscitando forti discussioni fra storici e politici americani, che, pur non contestando le similitudini, non sono d’accordo sulla possibile “caduta” del nuovo impero. Mentre alcuni (Chalmers Johnson e Paul Kennedy) ritengono inesorabile il declino dell’impero americano, altri, tra cui lo stesso Murphy, pensano che le infinite risorse tecniche e industrualli degli USA possano evitargli questa fine.
Non sappiamo cosa succederà, né possiamo abbandonarci alle speranze, certamente esistono i presupposti reali per un nuovo “grande crollo”. Innanzitutto, dopo anni di superiorità nella produzione industriale (dopo la Seconda Guerra Mondiale l’industria americana da sola rappresentava i 52% di quella mondiale), è sempre più grave il disavanzo della bilancia commerciale e, conseguentemente, il debito estero è arrivato a 2400 miliardi di dollari, pari al 22%& del PIL americano. Solo la complicità degli altri paesi può consentire agli USA di non dover pagare questo enorme debito e, d’altra parte, gli interessi economici americani sono fortemente intrecciati con quelli dei paesi creditori. Ma l’elemento di crisi più evidente è dato dalla crescita vertiginosa dei due “grandi paesi” dell’Asia, la Cina e l’India, che, insieme, rappresentano un terzo dell’umanità, 2.300.000.000, mentre gli americani sono poco più di 300.000.000. Già i soli numeri dovrebbero essere decisivi a far capire l’insostenibile pesantezza delle conseguenze derivanti dallo sviluppo dei due colossi asiatici sulle riserve energetiche mondiali e sull’inquinamento globale: gli USA da soli inquinano più degli altri due messi insieme ora. Cosa succederà quando Cina e India avranno raggiunto lo stesso sviluppo degli USA? Ma è possibile un tale livello di sviluppo?!