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Una guida di Hebron:il tour guidato più strano del mondo mette a nudo gli abusi contro i palestinesi

di Donald MacIntyre - 13/02/2008




Il nostro tour inizia in Shuhada Street, che corre lungo quella che è ora la “security zone” dei coloni, una fila di negozi palestinesi vuoti e case dalle persiane sigillate, molte con la stella di David, che serve a far vedere chi controlla questa zona. Gli unici veicoli che possono circolare sono quelli dei coloni e dei militari israeliani.
Shaul cerca di dimostrare ai suoi visitatori che le colonie e l’incredibile apparato militare che le protegge hanno violato i diritti umani dei palestinesi che vivono – o che a poco a poco non vivono più - in quello che una volta era l’affollatissimo centro della città.

Ma ogni suo passo è seguito da un altro religioso ebreo che porta avanti un monologo ininterrotto concepito per distogliere i visitatori dalle spiegazioni di Shaul. “Yehuda Shaul vuole aiutare gli arabi”, dice ai turisti Baruch Marzel, prima di spiegare loro qual è il suo punto di vista sull’accordo di pace basato sui due stati separati voluto dal primo ministro Olmert, dal presidente americano Bush e dalla maggioranza del pubblico israeliano.  “Pensate che se si dovesse raggiungere un accordo potreste ancora pregare a questa tomba? In realtà potete visitare questo luogo sacro perché è abitato dagli ebrei. Shaul non vi sta raccontando dei quaranta attacchi suicidi contro gli abitanti di questa zona. Potete visitare il nostro centro di Hebron e apprendere la verità su questa città, non le menzogne di cui vi sta riempiendo Yehuda Shaul”.

Marzel, americano di nascita, un uomo al quale fa poca giustizia il termine “estremista di destra”, ha aspettato il nostro bus vicino alla tomba del colono Baruch Goldstein, che nel 1994 è entrato in moschea con un fucile automatico freddando 29 palestinesi che stavano pregando. Marzel, nella cui fedina penale risultano attacchi contro palestinesi, era un esponente di spicco del gruppo Kach, definito come organizzazione “terroristica” sia da Israele che dagli Stati Uniti in seguito all’elogio fatto da questo gruppo al massacro di Goldstein.

Sette anni fa Marzel ha organizzato una macabra commemorazione sulla tomba di Goldstein, linciato dai sopravvissuti inferociti di quel massacro. “È stata una bella festa” ci dice Marzel, riferendosi all’anniversario della morte di Goldstein “assassinato dagli arabi”, facendoci un resoconto sommario di quel giorno.

Shaul combatte ogni giorno contro il rumoroso ostruzionismo di Marzel. Ad un certo punto si rivolge ad un poliziotto che sta a guardare la scena chiedendogli di far allontanare Marzel. L’ufficiale gli risponde che può “continuare indisturbato il tour. Marzel non ti sta impedendo di continuare”. Quando Shaul si volta verso Marzel e tranquillo gli chiede di allontanarsi, Marzel gli risponde a tono: “Assolutamente no. Questa è casa mia.”

Questa piccola scena di tensione sottolinea, in miniatura, gli ostacoli che minacciano le attuali trattative israelo-palestinesi sulla scia della visita del presidente Bush questo mese. È impossibile immaginare un qualsiasi accordo di pace finale che non metta Hebron - 12 miglia ad est della “linea verde”, città che marcava il confine est dello Stato di Israele fino alla Guerra dei Sei Giorni e contemporaneamente una delle prime colonie in terra palestinese dopo quella vittoria - nel cuore dello Stato palestinese. Quando Marzel dice “questa è la mia casa” è un modo raffinato ma efficace per ricordare che i coloni di Hebron farebbero di tutto per mandar via gli arabi dalla Cisgiordania.

Ma Marzel non è il solo a inseguire e braccare Shaul. A condividere con lui questo passatempo c’è Ofer Ohanna, ufficiale delle forze dell’ordine della colonia, che in una visita precedente aveva pungolato Shaul su un recente taglio di capelli. Notando che Shaul (eterosessuale) aveva tagliato la coda di cavallo, la barba, togliendo la kippah di velluto nero e i consueti sandali (che lo rendevano il colono più hippy), Ohanna gli aveva detto che lo aveva fatto perché il suo “fidanzatino glielo aveva imposto”.

Oggi, un altro colono di spicco, Moshe ben Batat, si avvicina a Shaul e chi chiede in modo raccapricciante la data del giorno di “memoria di sua madre” perché “tua madre ti ha cacciato di casa e si è suicidata”. Questo è vero solo in parte: la madre di Shaul si è effettivamente suicidata ma durante una depressione post-parto e all’epoca Shaul aveva soli 4 anni. Più tardi a questo rumoroso gruppetto di inseguitori si aggiunge David Wilder, il portavoce dei coloni di Hebron, nato in America. David sostiene che i tour di Shaul sono “molto pericolosi” perché “Shaul alimenta i nemici e gioca nelle loro mani” criticando i coloni. Definisce così Shaul: “Hamas con una kippah in testa”.

L’uomo che attrae così tanto odio dai coloni di Hebron alla tenera età di 24 anni aveva già condotto una vita densa di avvenimenti. Shaul è stato infatti descritto dal famoso scrittore peruviano Mario Vergas Llosa, al quale ha fatto fare questo tour due anni fa, come “uno degli uomini retti di questo paese”. Shaul ha fondato “Breaking the Silence”, il crescente gruppo di ex-soldati dissidenti - la maggior parte dei quali hanno combattuto ad Hebron all’apice dell’Intifada - che hanno testimoniato contro gli abusi continui dei militari israeliani durante la guerra.

Collocato a Betlemme le ultime settimane di servizio militare Shaul aveva avuto “un momento illuminante” nel quale aveva iniziato a capire ciò che il gruppo avrebbe più tardi definito “il terribile prezzo della morale” pagato dai giovani soldati in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Poi, nel tempo a seguire, Shaul iniziò a trovarsi in situazioni “terribili, dove non c’è giustificazione per circa il 90 per cento delle azioni alle quali prendi parte”.

Da quel momento Shaul è diventato guida politica e attivista in quella parte di Hebron che era una volta il centro commerciale e culturale arabo, ma che è ora invece sopraffatto dalla presenza di ottocento coloni ebrei. Ha organizzato e guidato più di duecento tour di israeliani, inclusi turisti, scuole e studenti universitari che si apprestano a fare il servizio militare. Lo scorso ottobre Shaul e un altro ex soldato israeliano, Avichai Sharon, hanno fornito informazioni a Tony Blair sui scoraggianti problemi del centro storico di Hebron.

Per capire cosa ha spinto Shaul a questa inusuale vocazione, è necessario scalare con Shaul fino ad un punto in cui è possibile vedere la città palestinese vicino al vecchio cimitero ebraico. Mentre le voci dei muezzin si diffondono dai minareti delle moschee, Shaul indica una casa dal tetto rosso dove si erano appostati i cecchini della sua unità dopo aver dato alla famiglia di palestinesi che ci vivevano solo un’ora e mezza per andarsene. All’apice dell’Intifada nel 2002-2003 i palestinesi usavano principalmente fucili per sparare verso le colonie, mentre i soldati israeliani rispondevano sparando granate dalle mitraglie.

“Una granata non è un proiettile” ci spiega Shaul “colpisce qualcosa poi esplode, uccidendo chiunque si trovi all’interno di un raggio di otto metri e ferisce in un raggio di 16. Inoltre una mitragliatrice non è un’arma di precisione. Miri un po’ a destra un po’ a sinistra, se sei uno bravo probabilmente colpisci il bersaglio alla quinta volta che provi”.

Informato all’inizio dal comandante del suo plotone su ciò che doveva fare, Shaul dice che era “spaventato a morte. Hai un senso della missione, o bianco o nero e io mi chiedevo, che succede? Devo sparare granate dentro ad una città dove vivono delle persone? La prima notte miri alla zona del bersaglio, premi il grilletto il più presto che puoi e preghi dentro di te che la mitraglia abbia sparato il minor numero di granate possibili  perché se premi il grilletto per un minuto spari circa 60 granate”. Poi, passata una settimana, quello diventava “il momento più eccitante della giornata. Sei annoiato. Sei bloccato in questa casa, non puoi uscire. Lo fai come se stessi giocando ad un videogame, con un joy-stick sopra una città - boom, boom, boom”.

Shaul non ha prove evidenti di feriti causati dalle raffiche da lui sparate- “la cosa peggiore che ho mai fatto”- ma Shaul è convinto che ci siano stati dei feriti. E’ qualcosa “al quale preferiresti non pensare”. E, sì, è vero, i cecchini palestinesi effettivamente hanno rivendicato l’uccisione di coloni ebrei, in totale cinque dal 2000. Ma Shaul ci dice che il fuoco al quale i soldati rispondevano normalmente non riusciva neanche a raggiungere le colonie.

I soldati israeliani hanno impiegato misure draconiane a Hebron durante l’apice dell’Intifada per proteggere i coloni, il cui diritto di vivere nella città non è riconosciuto dalla legge internazionale. Queste misure includevano l’imposizione di un coprifuoco nel centro della città (377 giorni nei primi 3 anni di Intifada), i checkpoint (le Nazioni Unite ne hanno contati più di 100 nel settore della città controllato da Israele nel 2005), perquisizioni accurate durante le quali le famiglie palestinesi a volte venivano chiuse in una stanza mentre i soldati facevano un pisolino e il rifiuto da parte dei soldati di intervenire quando i coloni attaccavano i palestinesi o gettavano loro delle pietre.

Secondo un rapporto stilato quest’anno dalle due organizzazioni israeliane principali per i diritti umani, B’Tselem e Association of Civil Rights in Israel (Acri), “violenze, perquisizioni arbitrarie, confische di abitazioni, umiliazioni, detenzioni di passanti e molestie fanno ormai parte della realtà quotidiana dei palestinesi, costringendoli a trasferirsi in luoghi più sicuri”. E mentre la violenza armata è drasticamente diminuita all’interno della città, molte restrizioni all’interno delle colonie sono rimaste in vigore. Shaul mette a paragone questa città con altre della Cisgiordania. “L’Idf (Israeli Defence Force) ha avamposti dentro la città di Nablus tutto il tempo? No. E a Gerico? Neanche. A Hebron? Sì. Perché? Perché qui ci sono le colonie. H1 (la zona più esterna di Hebron) è uguale al resto delle città palestinesi e H2 (il centro) è una città fantasma, come se non esistesse”.

Dopo 13 anni di chiusure e segregazioni iniziate ironicamente con l’attacco di Goldstein alla moschea, protrattesi durante l’Intifada, oggi ad Hebron ci sono 304 negozi e magazzini chiusi -218 dei quali sono stati chiusi per ordine militare. L’intera “zona sterile” che protegge  le colonie è chiusa ai veicoli palestinesi. La sezione centrale di Shuhada Street è chiusa ai pedoni palestinesi, fatta eccezione per quattro famiglie che continuano a vivere in questa arteria ormai deserta. Il termine usato da B’Tselem e Acri per il costante spopolamento palestinese di questa zona è “sfratto coatto”. Jan Kristiansen, un ex-capo del Temporary International Presence a Hebron, lo descriveva come “pulizia etnica”.

Un rapporto interno del 2003 redatto dall’amministrazione dell’Idf citava una lunga serie di violazioni legali – principalmente danni, irruzioni, confische di possedimenti palestinesi - da parte di coloni ebrei che “costantemente e sistematicamente” lavoravano per “fondare e espandere” il proprio insediamento. “La leadership sceglie un obiettivo e lo trasmette in vari modi. I giovani/teenager svaligiano il palazzo e anche se all’inizio sono costretti ad andarsene alla fine riescono ad impadronirsene. Svuotano il palazzo, bruciano tutto ciò che c’è dentro… Entrano attraverso un passaggio comune tra due proprietà senza essere notati e iniziano a stabilirvisi.”

A dicembre 2006, Acri ha sfidato il divieto di accesso dei pedoni a Shuhada Street, mettendo in luce il fatto che tale restrizione non era supportata da un ordine militare scritto. L’esercito israeliano ha riconosciuto l’errore e ha emesso una direttiva per cancellare questo divieto. Alcuni palestinesi di spicco della zona hanno potuto camminare su Shuhada Street dopo essere stati messi in carcere, perquisiti e accompagnati da una scorta di militari. Una settimana dopo i palestinesi non potevano già più usare questa strada.

“Qui abbiamo un centinaio di coloni” ci dice Shaul. “È una cosa che non mettiamo neanche in discussione. Sono cittadini israeliani che meritano protezione, come gli abitanti di Tel Aviv. Per proteggerli prendiamo un sacco di cose in considerazione – la geografia, il budget, il numero di soldati - ma c’è un unica cosa che non prenderemo mai in considerazione, ovvero i 166 mila palestinesi che vivono qui. Questo è un problema di Hebron. Solo in questo modo si può chiudere quella che è stata per 60 anni la strada principale, dire che è stato un errore e continuare a commetterlo”.

Ma per Shaul Hebron è una sorta di paradigma per la situazione di tutta la Cisgiordania, di cui quasi il 40 per cento è ora riservato ai coloni, insieme all’apparato militare e le strade - in molti casi proibite ai palestinesi. “Se allarghiamo l’inquadratura e guardiamo alla segregazione, ai metodi, alle tattiche, Hebron è come un laboratorio dove si sperimentano le cose che verranno poi utilizzate al di fuori di questa città”.

Un’altra pietra miliare che ha portato Shaul a questo punto è stata all’inizio del servizio militare. Shaul ci spiega che l’evento storico più importante nell’educazione di ogni colono è il massacro del 1929, avvenuto durante le rivolte contro l’immigrazione ebrea in Palestina, quando 67 ebrei furono massacrati in un giorno solo e 435 sopravvissero grazie alla protezione data loro dai vicini arabi. Poi ci racconta di aver visto un’anziana palestinese scendere giù dalla collina e ricorda di come venne salutata dai bambini coloni che le tiravano delle pietre. “Chiesi ad un bambino di circa 10 anni, che cosa stai facendo? Mi rispose: sai cosa ha fatto questa donna nel 1929?”.

Stiamo ora camminando lungo Shuhada Street – un privilegio riservato a israeliani e stranieri - passati i banchi abbandonati nella zona dell’ex mercato, occupata abusivamente da 8 famiglie di coloni di Avram Avinu, dopo che un cecchino palestinese nel 2001 uccise un bambino israeliano di 10 mesi. I coloni furono alla fine espulsi nel gennaio del 2006- acconsentirono di lasciare la zona in modo non coatto dopo un insolito accordo con l’esercito, grazie al quale si stabiliva che sarebbero potuti tornare nella zona dopo pochi mesi. L’accordo venne in seguito invalidato dal Procuratore generale israeliano Manachem  Mazuz.

Proseguiamo, lasciando alla nostra destra un checkpoint israeliano, arriviamo al viottolo surreale nel quale vivono 2 famiglie palestinesi in mezzo ad una dozzina di famiglie di coloni. Oltrepassiamo la casa di Abu Ayesha, circondata da una rete che serve a proteggerla dalle pietre e dall’immondizia gettata frequentemente dai coloni. Contro questa rete una colona, Yifat Alkobi, ha schiacciato la sua faccia sibilando a ripetizione “sharamuta” – puttana - alla sua vicina palestinese che si era sposata da poco. Questa scena è stata registrata in un video in seguito inviato a B’Tselem, un video che ha scioccato molti spettatori israeliani quando è stato trasmesso in televisione lo scorso gennaio. Tommy Lapid, ex ministro della Giustizia israeliano, che ha perso molti membri della famiglia nell’Olocausto, ha scritto a tale proposito: “Negli anni che precedettero l’Olocausto, dietro le finestre serrate si nascondevano donne ebree terrorizzate, esattamente come la donna della famiglia di Abu Ayesha a Hebron”. Inoltre, secondo la testimonianza resa da Taysir Abu Ayesha, Baruch Marzel è entrato nella loro casa con altri 10 coloni nell’inverno del 2002, lo ha colpito e ha cercato di trascinarlo in strada prima che venisse liberato dal padre, intervenuto brandendo un bastone.

Arriviamo così alla fine della strada, alla casa di Hani Abu Heikel, la cui famiglia fu tra quelle che aiutarono più di 400 ebrei sopravvissuti al massacro del 1929. Ci racconta che i coloni della vicina casa di Al Bakri li hanno attaccati con degli idranti durante la notte, che la sua macchina è stata colpita e incendiata ben quattro volte e che lo scorso giugno è stata incendiata buona parte degli ulivi che crescono vicino a casa sua. Quando suo figlio ha suggerito ai militari - alcuni dei quali in quell’occasione avevano aiutato ad estinguere l’incendio - di identificare i colpevoli attraverso le telecamere disseminate su tutta la zona, gli è stato risposto che le telecamere servono per questioni di “sicurezza”, ovvero per la sicurezza dei coloni. La famiglia di Abu Heikel, tappa fissa del tour di Yehuda Shaul, è felicissima di vederlo, un po’ meno lo sono i coloni. “Yehuda, Yehuda” grida eccitato un bambino di circa due anni e mezzo di nome Yara. Il fatto che Yehuda porti degli israeliani in casa, ci dice Abu Heikel, è un fatto di grande importanza per i bambini. “Voglio che sappiano che gli israeliani non sono solo i coloni. Voglio mostrar loro che esistono ebrei che non sono in conflitto con noi.”

Un giro per il centro della città con un vecchio ufficiale israeliano ci dà un’immagine differente di Hebron. L’ufficiale, che ha insistito per restare anonimo, sostiene che mentre i palestinesi sono confinati nel 3 per cento della città, gli israeliani sono bloccati o confinati nel restante 97 per cento. Acri e B’Tselem sostengono che un residente della città vecchia per attraversare Shuhada Street deve fare il giro di tutta la città e passare attraverso numerosi checkpoint, mentre secondo l’esercito le restrizioni sui pedoni in città sono “minime”. Per i veicoli, l’esercito sostiene che coloro che portano materiali per le costruzioni sono autorizzati a passare con un’autorizzazione precedente e che le deviazioni necessarie aggiungono solo 10 minuti al tragitto dei palestinesi. L’ufficiale sottolinea il fatto che le chiusure sono indispensabili per questioni di sicurezza e insiste “sono responsabile per le vita sia dei palestinesi che degli israeliani.”

Questo va quindi al cuore della questione: chi veramente porta il fardello di proteggere i coloni? Nel rapporto Acri/B’Tselem si legge: “le autorità israeliane e le forze di sicurezza hanno fatto pagare all’intera popolazione palestinese il prezzo della protezione delle colonie israeliane nella città”. Questo ha causato “il collasso economico del centro di Hebron e ha costretto molti palestinesi ad andarsene”. L’esercito continua giustamente a ripetere che “ il diritto dei cittadini israeliani di vivere nella città è legittimato dalle decisioni del governo israeliano”. L’ufficiale ci dice inoltre che dal massacro di Goldstein, che lui stesso definisce come “una cosa orribile” che “getta vergogna sugli ebrei di tutto il mondo”, i principali obiettivi di violenza non sono stati i palestinesi ma gli israeliani. “Dal 1994 gli israeliani sono sul mirino di tutte le organizzazioni terroristiche”, conclude.

Di sicuro, dall’inizio dell’Intifada, i militanti palestinesi hanno ucciso 17 membri delle forze di sicurezza e 5 civili, compreso il bambino di 10 mesi, ucciso da un cecchino palestinese nel 2001. Nel complesso ad Hebron, secondo il rapporto Acri/B’Tselem, le forze di sicurezza hanno ucciso 88 palestinesi nello stesso periodo “di cui almeno 46 (compresi 9 minori) non avevano preso parte ai conflitti nel periodo in cui vennero uccisi”. Inoltre due palestinesi sono stati uccisi dai coloni, tra cui la quattordicenne Nasseem Jamjoum, uccisa mentre era a casa nel 2003, durante uno scontro dopo che un soldato/colono era stato ucciso fuori dalla città. Non si seppe mai chi sparò.

L’ufficiale ci dice che poiché “il potere di Hamas è forte” in questa zona, i militari israeliani appartengono “alle unità migliori dell’esercito israeliano”, necessariamente addestrate per sconfiggere i militanti piuttosto che per mantenere la pace tra la popolazione civile. Nonostante i gruppi per i diritti umani abbiano ben documentato il fatto che i soldati più volte non sono intervenuti quando un israeliano attacca un palestinese o la sua proprietà, l’esercito sostiene che i militari hanno ricevuto l’ordine di comportarsi così. In generale, incidenti violenti tra palestinesi e israeliani sono diminuiti del 50 per cento dal 2003-04 al 2006-07.

L’ufficiale insiste, giustamente, sul fatto che la decisione di permettere ai coloni di stabilirsi ad Hebron è ad appannaggio dei politici non dell’esercito. Ma è anche molto comprensivo verso il fatto che dopo la guerra dei Sei Giorni gli ebrei avessero il diritto di reclamare terre che storicamente appartenevano loro. Riguardo alla progressiva acquisizione delle terre arabe a partire dal 1967, l’ufficiale più volte fa una distinzione –non riconosciuta dalla legge internazionale- tra terre che storicamente erano ebree e terre che non lo erano. Ci porta come esempio la colonia di Beit Hadassah (occupata dai coloni nel 1979 nonostante lo stesso  Manachem Begin, Primo ministro del Likud all’epoca, si fosse opposto a tale occupazione). “Questo era un ospedale che serviva tutto il vicinato, musulmani ed ebrei, fino a quando la maggior parte dello staff è stato ucciso nel massacro del 1929. Quando la Germania ha restituito la maggior parte dei beni confiscati agli ebrei, le persone in Israele erano molto fiere. Se non ci fosse stata la guerra del 1967 l’emozione di recuperare le terre di Hebron sarebbe stata la stessa”.

Per Yehuda Shaul, comunque, la questione che ci fossero sempre stati ebrei ad Hebron in passato non è differente da quella del “diritto al ritorno” in Israele rivendicato dalle famiglie di rifugiati palestinesi del 1948, una rivendicazione categoricamente rifiutata da Israele e dalla comunità internazionale. E la questione dei tragitti alternativi, comunque stancanti, è plausibile come se “si dicesse alle persone di Gerusalemme Est che non possono più usare Mahane Yehuda (il principale mercato ebraico della città), ma devono per forza girarci intorno”.

Shaul, in quanto ebreo non è neanche impressionato dalla questione della preghiera sulla Tomba dei Patriarchi. Mentre anche alcuni palestinesi hanno dichiarato che nell’ipotesi della creazione di uno Stato palestinese verrà garantito “un passaggio sicuro”per gli ebrei che vogliono andare a pregare alla Tomba, Shaul dubita che possa essere fattibile poiché prima dell’occupazione non esisteva questo permesso. Il prezzo da pagare per controllare solo “la città dei Patriarchi” sarebbe troppo alto , anche solo per far accedere alla Tomba il numero esiguo di ebrei che la visitano ora. “Tutto questo è stato fatto sulle spalle di migliaia di palestinesi che sono stati più o meno espulsi dalle loro vite. Io sono israeliano, sono ebreo e mi preoccupo di come appare la mia società e il mio paese. C’è un chiaro piano che mira all’espulsione della popolazione araba dal centro di Hebron”.

Shaul non nega mai le minacce ai soldati e ai coloni “Non mi dovete insegnare niente sui problemi di sicurezza. Hebron era un posto molto pericoloso, dove molti israeliani sono stati uccisi. Ma ciò che vogliamo fare con questo tour è chiederci: quali sono le linee rosse che non possiamo attraversare?”. David Wilder gli risponde per le rime: “La sua linea rossa è che non dovremmo essere qui”.

Molti, forse la maggior parte, degli israeliani  sarebbero alla fine concordi nell’affermare che non ci dovrebbero essere le colonie ad Hebron. Dopo il massacro di Goldstein, Yitzhak Rabin voleva espellere i coloni da Hebron, ma gli venne consigliato di non farlo, in quanto politicamente impossibile. Shaul non usa i suoi tour per sostenere il ritiro delle colonie da Hebron. Al contrario “chiediamo semplicemente loro: cosa pensate? Avete visto il prezzo da pagare in termini di diritti umani, di morale, di mancanza di legge, il prezzo che i palestinesi pagano per ottocento coloni che vivono nel cuore della città. Avete visto il prezzo che paga il regime israeliano e quello pagato dalla società israeliana che vuole comandare questo posto. Ora che avete visto tutto questo potete giudicare da soli.”

The Independent

(Traduzione di Daniela Bernardini per Osservatorio Iraq)

L’articolo in lingua originale