Otto note sulla guerra Israele-Iran
di Enrico Tomaselli - 21/06/2025
Fonte: Giubbe rosse
LA TRATTATIVA
La questione della trattativa avviata dagli USA con l’Iran, che precede l’avvio del conflitto, è alquanto controversa, e secondo molti analisti – soprattutto dell’area dell’informazione alternativa – si sarebbe trattato di una mossa coordinata tra Washington e Tel Aviv, finalizzata ad ingannare Teheran. Sappiamo che, in effetti, ha almeno in parte ottenuto questo risultato – anche se ciò non dimostra che fosse questa l’intenzione. In effetti, il Maggiore Generale dell’IRGC Mohsen Rezaei ha recentemente dichiarato che “fin da marzo, eravamo certi che ci sarebbe stata una guerra con Israele. Ci eravamo preparati in modo esaustivo a questo scenario. Tuttavia, non ce lo aspettavamo prima della fine dei negoziati; è stata una sorpresa”.
Contrariamente a quella che sembra essere la lettura di area, sono portato a ritenere che l’avvio del negoziato con l’Iran fosse – coerentemente con la linea politica pacificatrice di Trump – finalizzata a prevenire la situazione conflittuale (poi invece concretizzatasi), ma che sia stata vanificata, già prima che dall’attacco israeliano, dalla confusione con cui è stata affrontata.
Il punto di partenza, necessario, è che tutti – letteralmente – sapevano e sanno che l’Iran non ha armi nucleari, non è sul punto di realizzarle e, cosa non da poco, non ha intenzione di farlo (almeno sino ad oggi). La decisione di non dotarsi di armamento nucleare può, ovviamente, essere criticabile – anche con validissimi argomenti – ma ciò nonostante è indubbio che è stata presa, e che l’Iran vi si sia attenuto strettamente. Il fatto stesso che sia stata emessa una fatwa in merito (cioè una sorta di ordinanza giuridico-religiosa) attesta che il dibattito interno relativo abbia ad un certo punto richiesto di essere risolto definitivamente, al massimo livello.
Dunque sia Washington che Tel Aviv sanno perfettamente che la minaccia nucleare iraniana è pura fuffa, una totale invenzione propagandistica occidentale – che oltretutto viene pedissequamente riciclata da almeno trent’anni. Tenendo in mente questo elemento, appare chiaro che il negoziato aveva come oggetto reale non tanto la capacità iraniana di dotarsi della bomba, quanto una sostanziale sottomissione dell’Iran ai diktat statunitensi.
Ed è proprio la vaghezza degli obiettivi perseguiti da Washington, oltre alla inaspettata fermezza iraniana, che hanno aperto la strada a quella continua oscillazione delle proposte statunitensi, e che a sua volta ha impantanato la trattativa, aprendo di fatto lo spiraglio in cui si è precipitato Netanyahu, mandando tutto all’aria. Questo va peraltro inquadrato nel clima di incertezza, se non di vero e proprio caos, che sta caratterizzando l’amministrazione Trump nell’ultimo periodo, e che nasce dall’indebolimento dell’autorevolezza personale del presidente, e quindi della sua posizione politica.
LE DIVISIONI NELL’ESTABLISHMENT USA
La sostanziale ambiguità della politica USA relativamente al Medio Oriente, caratterizzata da un continuo oscillare tra lo schiacciamento sulle posizioni oltranziste di Netanyahu e le prese di distanza anche inaspettate, nasce fondamentalmente dal fatto che l’amministrazione Trump non ha una vera e propria visione strategica globale e regionale, sulla quale poi convergono tutte le varie anime che la compongono, e ciò porta inevitabilmente alla continua ricerca di ciascuna di far prevalere il proprio punto di vista sulle altre.
Fondamentalmente, la linea trumpiana ha incontrato due ostacoli – entrambe riconducibili al medesimo approccio. Il sostanziale fallimento del negoziato per porre fine al conflitto in Ucraina (ormai praticamente scomparso dai radar), e lo scontro sulla questione dei dazi. Sia nell’uno che nell’altro caso, hanno pesato sia l’irruente faciloneria del presidente, sia l’evidente incomprensione dei relativi contesti – e quindi, tanto per cominciare, dei propri punti di forza e debolezza, così come di quelli della controparte.
Per quanto riguarda l’Ucraina, la disponibilità formale della Russia, unita alla sua fermezza sostanziale sui fondamentali, hanno incanalato i negoziati in una direzione che, inevitabilmente, ha finito per mettere in luce gli enormi limiti politici dell’amministrazione Trump. La quale, infatti, si è rivelata incapace di imporre il proprio disegno strategico (ammesso ne avesse uno…) sia al governo di Kiev, benché totalmente dipendente dagli aiuti statunitensi, sia agli alleati europei, il cui accordo era fondamentale per affrontare la questione al cuore del conflitto, ovvero la sicurezza reciproca in Europa. In breve tempo, quindi, Washington si è resa conto di avere pochissime carte in mano, ed ha preferito sfilarsi silenziosamente. Ma questo fallimento ha ovviamente minato la posizione di Trump, che ha visto evaporare la sua millantata capacità negoziale, e soprattutto ha messo in discussione la validità della sua linea politica, improntata appunto alla ricerca di soluzioni negoziali.
Ugualmente, la questione daziaria si è a sua volta impantanata nella posizione cinese, assai simile a quella russa sull’Ucraina, e soprattutto ha aperto una crepa col mondo dell’iper-finanza (Blackrock & co), che ha mostrato di non gradire le politiche economiche trumpiane.
La sostanziale debolezza del progetto politico di Trump, unita alle varie defaillance che ha accumulato nel suo primo semestre, hanno di fatto reso il presidente un’anatra zoppa, soggetta alle proprie variazioni d’umore assai più che all’analisi lucida della situazione; di conseguenza, il suo entourage ha cominciato a sfaldarsi e dividersi, e ciascuna componente ha cercato di far prevalere il proprio punto di vista.
In particolare, l’area più legata al mondo neocon (e genericamente più reazionaria) si è coagulata intorno al segretario di stato Rubio, che infatti è diventato di fatto l’esponente più attivo e visibile dell’amministrazione, mentre altri (Musk, Vance) abbandonavano la barca o si chiudevano in silenzio.
Da ultimo, e proprio sulla questione mediorientale, la clamorosa spaccatura all’interno della comunità dell’intelligence. Mentre solo pochi giorni fa la Gabbard presentava una relazione in cui si smentiva l’intenzione iraniana di costruire la bomba, nelle ultime ore il capo della CIA, John Ratcliffe, la scavalcava presentando direttamente a Trump un report in cui si sostiene l’esatto contrario. Ne è conseguita una (apparente) emarginazione della Gabbard stessa, ma soprattutto ciò ha svelato uno scenario di guerra interna estremamente preoccupante (delle tre l’una: o Ratcliffe ha mentito alla Gabbard, inducendola a riferire al presidente sulla inconsistenza della minaccia iraniana, o a mentire è stata la Gabbard stessa, oppure il mendace è Ratcliffe).
Questa situazione conflittuale all’interno dell’amministrazione, che si aggiunge a quella interna al paese (che Trump stesso sta esacerbando), per non parlare della crescente criticità con cui la base elettorale del presidente, e molti suoi autorevoli supporters, guardano alle ultime scelte politiche, non fa ovviamente che indebolire la presidenza, e quindi rendere imprevedibili i suoi comportamenti.
L’ATTACCO
Nel vuoto politico dell’incertezza statunitense, Israele ha avuto facile gioco ad infilarsi, ponendo fine a qualsiasi ipotesi di negoziato. L’obiettivo di Tel Aviv – a parte quello di Netanyahu, di assicurare la propria sopravvivenza politica e la propria libertà – non ha ovviamente nulla a che fare con il nucleare iraniano. Anche loro sanno perfettamente come stanno le cose, e comunque Israele ha una soverchiante capacità nucleare – e nessuno scrupolo ad utilizzarla, se necessario.L’obiettivo è piuttosto il regime change, o quanto meno la completa destabilizzazione dell’Iran. La valutazione fatta dai vertici sionisti, per quanto possa apparire una manifestazione di sicurezza, è stata probabilmente viziata dall’urgenza di sbloccare una situazione di stallo militare (e di isolamento politico), nonché da una errata valutazione della situazione. Andare all’all-in, infatti, è per definizione un rischio, che lascia fuori qualsiasi posizione intermedia: o si vince o si perde.
L’elemento che meglio dimostra l’avventatezza della scelta è rappresentato dal fatto che, per aumentare l’impatto del first strike, i servizi segreti israeliani hanno mobilitato tutta la rete (costruita in anni e anni di lavoro) di infiltrati; rete che adesso gli iraniani stanno smantellando con arresti quotidiani, che inevitabilmente porteranno alla completa distruzione della stessa. Netanyahu ha deciso di giocarsi il tutto per tutto, probabilmente contando su una sopravvalutazione degli effetti dell’attacco, e sottovalutando la capacità di reazione di Teheran. Di sicuro ha messo nel conto che, avendo bruciato la carta del negoziato USA-Iran, tirare dentro Trump sarebbe stato assai più facile – e probabilmente l’unica scelta per Washington.
Ma questa mossa viene vista come pericolosissima, per gli interessi strategici statunitensi, da una parte non irrilevante dell’amministrazione, e della sua area di riferimento. Il mondo M.A.G.A. sta lanciando segnali molto espliciti in tal senso.
LA SCELTA
Essendosi fatto mandare all’aria il piano negoziale, anche per la propria incapacità di gestirlo, le opzioni disponibili per Trump si restringono drammaticamente, ed il suo (prevedibile) modo confuso di affrontare gli avvenimenti non fa che incastrarlo ulteriormente.
Ovviamente sapeva che sarebbe scattato l’attacco israeliano; se così non fosse, vorrebbe dire che conta meno di zero. Lo sapeva, ma probabilmente pensava di poterlo utilizzare come forma di pressione su Teheran, nella convinzione che il colpo ne avrebbe spinto la leadership ad accettare un accordo più stringente, che gli avrebbe permesso di proclamarsi vincitore e di tirare il freno ad Israele. Ovviamente, aveva fatto i conti senza gli osti. Sia quelli di Teheran che quelli di Tel Aviv.
A questo punto, comunque, tirarsi indietro è difficile, almeno quanto andare avanti. Un ruolo cruciale nella decisione finale, quindi, l‘avrà la correttezza e la completezza della informazioni su cui questa verrà basata – il che non induce all’ottimismo, visto quanto detto in precedenza…
Chiamarsi fuori dal conflitto può avere un costo politico considerevole, indebolirebbe ulteriormente la sua posizione ed inasprirebbe le divisioni interne all’amministrazione – a meno di trovare una scappatoia credibile che ne giustifichi la scelta, che però al momento non si vede quale possa essere. D’altro canto, scegliere di intervenire direttamente nel conflitto non lo rafforzerebbe politicamente (risulterebbe comunque subalterno a Netanyahu), e lo esporrebbe ad una serie di rischi connessi all’andamento della guerra. La sua unica opzione sicura, infatti, sarebbe tentare quel che ha tentato già Israele, fallendo, e cioè assestare un colpo rapido e decisivo, capace di piegare la resistenza iraniana nel giro di pochi giorni. Questo significa massimizzare le perdite nemiche (vere o presunte), e ridurre al minimo le proprie, mostrando piena determinazione a portare sino in fondo l’operazione. Che questo sia realisticamente conseguibile è assai dubbio.
Naturalmente, gli USA sono in grado di colpire pesantemente l’Iran, e di infliggergli danni significativi. Il problema è che sono molto esposti, e che – esattamente come Israele – devono concludere in tempi relativamente brevi un’eventuale offensiva. Quanto più si prolunga la capacità di resistenza iraniana, tanto più significative diventeranno le perdite (gli Stati Uniti hanno moltissime basi nell’area, tutte a portata di missile), diminuiranno le capacità di difesa [1], ed aumenteranno le probabilità di una deflagrazione regionale estesa del conflitto stesso.
L’interesse strategico di Washington non è certo infiammare l’intero Medio Oriente (soprattutto dopo aver concluso accordi di investimento con le petromonarchie). E, sotto questo punto di vista, diverge sostanzialmente da quello israeliano. Mentre Tel Aviv è infatti interessata alla distruzione del potenziale militare iraniano e ad un regime change, sul modello siriano, quest’ultima è una ipotesi poco appetibile per gli USA, poiché aprirebbe scenari imprevedibili; per Washington è molto meglio mantenere l’attuale leadership, magari decapitata delle sue componenti più radicali, ma sostanzialmente sottomessa ai voleri della Casa Bianca. Almeno per il momento.
L’OPZIONE NUCLEARE
Uno dei punti centrali del dibattito interno al governo statunitense, e la capacità o meno di distruggere l’impianto di Fordow, notoriamente sepolto a quasi cento metri sotto una montagna. Ovviamente, alla luce di quanto detto sinora, ciò si inserisce in un quadro falsato del problema, che assume come vero l’obiettivo dichiarato di fermare lo sviluppo nucleare iraniano, e soprattutto tiene presente l’esigenza di una conclusione rapida. La capacità di distruggere Fordow viene pertanto interpretata come un punto di svolta, capace di stroncare la resistenza di Teheran, costringendola ad accettare un accordo capestro. Il che, ovviamente, prescinde totalmente dalla determinazione iraniana.
In ogni caso, il punto è che un eventuale attacco con le bombe MOAB (GBU-43 Massive Ordnance Air Blast), non soltanto richiede un avvicinamento al bersaglio da parte dei bombardieri, ma non assicura l’effettiva distruzione dell’impianto. Potrebbero volerci più di una MOAB, tutte sganciate ripetutamente sullo stesso punto.
L’estrema incertezza di un simile attacco, il cui fallimento sarebbe un duro smacco, ha a sua volta dato vita ad un discussione, soprattutto in ambito controinformazione, sulla possibilità o meno di usare un’arma nucleare tattica. Questa possibilità è da considerare, a mio avviso, pressoché del tutto inattuabile. Sia da parte USA che da parte Israeliana. Per quanto riguarda Tel Aviv, ciò significherebbe innanzitutto non poter più negare di possedere armi nucleari, con tutto ciò che ne conseguirebbe sul piano internazionale, e darebbe comunque il via ad una corsa generalizzata a procurarsele, tanto per cominciare in Arabia Saudita, Egitto e Turchia. Per quanto riguarda invece Washington, il rischio maggiore deriverebbe dallo stabilire un precedente, che diventerebbe un via libera di fatto anche per altri – ad esempio, la Russia in Ucraina. Nell’attuale contesto, quindi, è estremamente improbabile che questa opzione venga seriamente presa in considerazione. Il che, però, lascia aperta la questione circa la distruzione o meno dell’impianto iraniano. Ammesso che possa essere un fattore decisivo.
LA LEZIONE INAPPRESA
Uno degli elementi di maggiore preoccupazione, per chi teme un ulteriore deflagrazione del conflitto, è il fatto che davvero pochi, negli Stati Uniti, sembrano aver veramente appreso la lezione ucraina. E tra questi non si direbbe ci sia anche Trump.
L’avventura politico-militare di scagliare l’Ucraina contro la Russia, pianificata e perseguita ostinatamente per almeno due decenni da una gran parte dell’establishment statunitense, nonostante l’evidente fallimento sembra non aver insegnato molto. L’idea che gli Stati Uniti siano ancora la grande superpotenza militare (e non solo) degli anni d’oro, resiste saldamente nell’immaginario washingtoniano, nonostante ogni evidenza contraria. E ciò costituisce il maggior fattore di rischio, perché una errata valutazione dei rapporti di forza è uno dei classici errori che conducono alla sconfitta militare.
Un presidente volubile, egocentrico e narcisista, sicuramente poco avvezzo alle complessità geopolitiche ed alle questioni belliche, può facilmente essere indirizzato a compiere scelte avventate, se non completamente sbagliate.
Considerare l’Iran una preda facile, o anche soltanto sicuramente possibile da sopraffare, è un’idea che molto probabilmente ha largo spazio all’interno del Pentagono, ed in parte dell’entourage trumpiano. Ad esempio il generale Michael Kurilla, comandante del CENTCOM, molto ascoltato da Trump, è un aperto sostenitore di Israele e dell’intervento USA contro l’Iran – che vede come la sua grande occasione per concludere la carriera con una clamorosa vittoria, capace magari di lanciarlo nell’agone politico.
L’influenza di questi personaggi può essere decisiva nel determinare la scelta finale; anche perché l’amministrazione USA si è praticamente messa da sola su un piano inclinato, che conduce verso l’intervento diretto. E, in assenza di una alternativa percorribile – che allo stato nessuno sta offrendo – rischia di diventare una scelta obbligata.
TWO WEEKS
Fedele al proprio personaggio, al momento Trump ha deciso di non decidere. In un contesto come quello attuale, affermare che la scelta è rinviata di due settimane, è come dire ne parliamo l’anno prossimo. In una sola settimana di attacchi reciproci, il conflitto Israele-Iran ha raggiunto un punto di crisi tale che, appunto, si pone drammaticamente la questione di un intervento o meno da parte degli Stati Uniti. Ammesso che non si tratti di una dichiarazione fatta per confondere le acque rispetto ad una decisione già presa, risulta abbastanza evidente che temporeggiare non porta a nulla di buono; anzi, pone ancor più Washington in balia degli eventi, privandola di una qualsivoglia iniziativa, anche solo tattica, e costringendola a farsi guidare da quanto accade nel teatro di guerra.
Apparentemente, Trump ha deciso di ignorare gli avvertimenti espliciti arrivati da Mosca e da Pechino. Non li ha infatti commentati, preferendo glissare. Ma è comunque improbabile che siano effettivamente non considerati. Ciò che si starà valutando, nell’ambito del Consiglio di Sicurezza Nazionale (presieduto da Rubio…) è piuttosto quale tipo di reazione potrebbe seguire ad un intervento diretto degli Stati Uniti. È evidente che né Mosca né Pechino hanno voglia di essere a loro volta coinvolte direttamente in un conflitto, ma è altrettanto evidente che – per entrambe – l’Iran è un alleato strategico, che non può essere lasciato cadere. La cosa più probabile, quindi, è che Russia e Cina si adopereranno affinché la capacità di resistenza iraniana si mantenga ad un livello tale da non metterne a rischio la stabilità, il che potrebbe essere conseguito in vari modi (sia politici che militari). A meno che Teheran non chieda esplicitamente aiuto – in tal caso, probabilmente alla Russia – non ci saranno grandi trasferimenti di materiale bellico. Mentre un aiuto sul piano dell’intelligence satellitare è più probabile. E naturalmente è possibile che l’aiuto si manifesti sotto forma di una aumentata pressione su altri teatri (Ucraina, Taiwan) [2].
HORMUZ O NON HORMUZ?
La vera arma fine di mondo degli iraniani è, in effetti, lo stretto di Hormuz. L’eventuale blocco sarebbe infatti devastante a livello globale, rischierebbe di mettere ulteriormente in ginocchio l’Europa e di creare grossi problemi alla Cina, costringendola ad intervenire con maggior decisione. Tra l’altro, la chiusura dello stretto intrappolerebbe un pezzo di flotta statunitense, attualmente nel Golfo Persico, per la quale si aprirebbe praticamente una caccia all’anatra. Per non parlare di una parallela chiusura dello stretto di Bab el Mandeeb da parte yemenita. Una faccenda che gli USA hanno già sperimentato, rendendosi conto di quanto sia difficile – al giorno d’oggi – far valere la propria potenza talassocratica.
Se volessimo pertanto azzardare una ipotesi conclusiva, potremmo dire che tutta la ragione strategica spingerebbe per una de-escalation, anche se questa implicherebbe un grande successo politico per l’Iran, e probabilmente finirebbe per costare la poltrona a Netanyahu (cosa peraltro prevedibilmente inevitabile). Sarebbe questo il miglior modo di garantire gli interessi statunitensi nella regione, e quelli globali. Ma, come abbiamo visto, la razionalità politica ha uno spazio d’azione assai limitato, nell’attuale situazione, mentre sembrano prevalere l’emotività, le ambizioni, il narcisismo, insomma tutto tranne ciò che dovrebbe.
Risulta pertanto estremamente difficile prevedere gli sviluppi, anche se – appunto – tutto sembra scivolare verso una escalation senza che nessuno, tranne il gran capo sionista, effettivamente e consapevolmente la voglia. Quasi fosse ineluttabile conseguenza di una serie di scelte, nessuna delle quali intendeva spingersi a tanto.
Ed è questo contesto che ha spinto più d’uno a dire che, oggi, il vero leader dell’occidente è proprio Netanyahu, poiché riesce ad imporre le sue scelte ed a trascinare con sé l’intero baraccone occidentale. È una lettura seducente, che ha anche un apparente fondo di verità, ma che a mio avviso – pur nel suo orrore – scarta rispetto ad una realtà in fin dei conti ben più drammatica. Non è tanto un occidente guidato da un fanatico nazistoide, ricercato per genocidio, quello con cui dobbiamo fare i conti, quanto piuttosto un occidente totalmente privo di una leadership, senza alcuna guida, che procede come un corpo decapitato in preda ad una furia premortem, menando colpi a destra ed a manca, senza neanche sapere più come e perché. La bestia acefala è fuori controllo.
1 – Come rivelato dalla stampa statunitense, Israele è già in una condizione di difficoltà, per quanto riguarda il munizionamento dei sistemi di intercettazione. Difficoltà con cui anche gli Stati Uniti devono fare i conti, considerando che sono tre anni e mezzo che ne forniscono agli ucraini, e quasi due anni agli israeliani.
Questo dato, peraltro, secondo come verrà visto e valutato, potrebbe incidere sulla scelta in modo opposto. Se, infatti, si considerasse soprattutto il rischio che le difese israeliane vengano sopraffatte, potrebbe spingere per l’intervento diretto; se venisse considerato più in prospettiva, potrebbe far concludere che se l’intervento non è velocemente risolutivo il problema si porrebbe anche per le forze USA,. e quindi sconsiglierebbe l’azione…
2 – Proprio oggi Pechino ha schierato una massiccia forza aerea intorno all’isola…