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Il ritorno del fuoco sacro in occidente. Dialogo su Pan

di Alessandro Giuli - 24/02/2008

Passeggiata archeologica fra i resti della città del Sole intitolata a Inuo, dove il pio Enea sbarcò protetto da sua madre Venere.

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In queste due pagine è racchiusa una favola dedicata alla storia
delle origini romane. E’ un’escursione archeologica. Un racconto che
ha trovato asilo sulle spiagge laziali e soltanto lì avrebbe potuto
trovarlo, a dimostrazione di cosa significhi definire Roma la “città
eterna”. E’ in questo eterno presente che la terra si fa mito perché
il mito ha già da sempre scelto la propria terra. L’unicità del tema
esige due voci narranti: in un giorno di festa, un giovane romano
incontra il proprio maestro nel giardino della sua casa. Ne nasce un
dialogo su Enea, sugli Dei, sul Sole.

MMDCCLXI ab Vrbe condita
Ante diem septimum Kal. Mar.
Terminalia


Nella ricorrenza delle feste Terminalia, compiuti i riti della pietra
di confine, celebrate le offerte ai Lari domestici e a quelli dei
campi, Lucio Giulio Glanico s’incammina verso la discesa che dal
Campidoglio piega verso il teatro di Marcello. Giunto di fronte alle
colonne del tempio di Apollo, al termine di un vicolo ombreggiato che
ogni volta gli sembra non essere mai esistito, lo attende una
costruzione isolata con l’ingresso sempre aperto e affacciato su un
giardino nel quale se ne sta un ceppo di marmo alto e stretto tutto
inghirlandato d’alloro e festoni di verbena. Sulla sommità della
pietra c’è frutta secca, e c’è una focaccia cosparsa d’ambra ma in
realtà è miele mescolato al rosso del vino appena sparso.
Lucio – O Pomponio, cercavo l’occasione di vederti e il momento più
favorevole per interrogarti; quindi mi sono giunte opportune le feste
a cui indulge l’ultima parte del mese dedicato alle purificazioni.
Infatti in quasi tutti gli altri giorni di febbraio non si può
trovare neppure un istante in cui tu non curi gli interessi dei tuoi
clienti nel Foro o non ti dedichi al culto.
Giulio Pomponio Leto – E’ così, Lucio, ma dimmi quale urgenza preme
sul cuore tuo, ché una domanda troppo a lungo trattenuta in un corpo
giovane può anche diventare un male dell’animo.
Lucio – Se ti dicessi che ho conosciuto la prima terra calpestata dal
padre Enea sulla spiaggia laziale, se ti dicessi che ho visto il
santuario del Sole Indigete che accolse i Dardanidi sfuggiti all’ira
di Giunone, se ti dicessi che ho passeggiato nel luogo in cui il
figlio di Anchise, per aver ritrovata la Patria, ha ringraziato con
preghiere e offerte sua madre Venere Genitrice; se ti dicessi, Pomponio.
Pomponio – Ti risponderei, Lucio, che hai visitato la vetusta
Lavinium ed è una fortuna alla quale i contemporanei rinunciano con
inspiegabile leggerezza. Giacché non è degno di un romano tenersi per
più di un anno distante dalla città di Enea.
Lucio – Diresti bene, Pomponio, se effettivamente fossi stato a
Lavinium e se nella città fondata dai Teucri io non avessi sostato
già due volte nelle ultime lune. Ma non è così, poiché all’inizio del
mese io ho scoperto ciò che provavo a descriverti, non a Lavinium, ma
in un luogo chiamato Castrum Inui. Ma ora noto che è il tuo sguardo a
farsi interrogativo, quasi che le mie parole abbiano toccato la corda
di una lira protetta da mani indegne di Apollo.
Pomponio – Non curarti del mio sguardo, Lucio, quel che mi
racconterai della tua scoperta varrà di certo ad acquietare ogni mia
curiosità. Ti ascolterò in silenzio. Ma prima lascia che ringrazi il
Nume da te evocato per le parole che mi porterai in dono. E lascia
che io lo faccia con le frasi appropriate ricevute da un poeta nostro
nell’anno 1808 dell’era volgare: “O primo di natura/ Scintillante
ministro, alma del mondo,/ Sole, ascendi ed esulta. A te dal verde/
Suo grande altare invia la terra il sacro/ Vapor de’ monti e delle
valli, e tutte/ Redivive e festose/ Ti rendon grazie le create cose./
Noi del saggio di Samo/ Pacifici seguaci e discendenti/ Ti adoriam
riverenti. E tu rischiara/ De’ tuoi devoti il cor: le vie rivela/
Dell’empio che c’insidia, e il pio proteggi/ Nostro culto che l’alme
accende e move/ Ad amar tutti, e non temer che Giove./ Salve adorato/
Raggio beato!/ Chi può mirarti/ E ricusarti/ Culto e onor?” (Vincenzo
Monti, “I Pittagorici”).
Lucio – Devi sapere, Pomponio, che dopo l’ultimo solstizio d’estate
ho fatto la conoscenza di un uomo valoroso. Viene dal Mezzogiorno
dell’Urbe, viene dall’antica Ardea e ha un nome straniero, Giosuè, ma
somiglia a uno di quei bellicosi Rutuli descritti da Virgilio. Uno di
quei guerrieri latini comandati da Turno e che, travolti anch’essi
nella mente dall’ira della Furia Allecto, scesero dalla rocca di
Ardea per combattere contro il pio Enea. Infatti Enea non deve essere
troppo gradito al valoroso abitante di Ardea, lo considera un
conquistatore inviato dal Fato in obbedienza ai destini inesorabili
di Roma. E comunque Giosuè insegna ai ragazzi miei coetanei e
raccomanda sempre loro di non trascurare lo studio dell’Eneide.
Infatti lui ha fondato una rivista chiamata “Latinità” nella quale
racconta del parco archeologico che ha creato per salvaguardare e far
conoscere ai giovani i luoghi in cui il poeta di Mantova ha ritratto
la storia delle nostre origini. Deve essere devoto a Minerva, non c’è
dubbio, e non mi stupirei di sapere che ha dedicato alla dea Tritonia
la prima paga ricavata dall’insegnamento. Un fuoco ardente lo muove a
proteggere i ricordi sacri dei Latini dal cemento che certi edili
romani, di certo empi e non so se soltanto corrotti nell’animo o
anche corruttori, di certo favoriti da politici sordi al richiamo dei
padri, riversano sulla terra nostra per costruire ovunque case e
centri commerciali. In questo momento il valoroso rutulo sta
raccogliendo delle firme da consegnare all’Unesco perché elegga il
parco dell’Eneide patrimonio dell’umanità. Speriamo siano migliaia di
firme.
Ti dico questo che sembrerà ridondante, Pomponio, perché senza il
milite di Ardea non sarei arrivato facilmente a Castrum Inui. E’
stato nel suo ufficio che ho scoperto, consegnato dalle sue mani, un
libro indispensabile e del quale mi sono giovato per le scoperte di
cui vado parlando. Il libro si chiama “Ardea. La terra dei Rutuli tra
mito e archeologia: alla scoperta della romanità”. E’ inutile che te
lo riassuma, Pomponio, poiché ho intenzione di farti sapere tutto
narrandoti della visita agli scavi fatta da me in compagnia
dell’autore, un generoso archeologo marsicano (è nato ad Avezzano) di
nome Francesco Di Mario. L’ho contattato e, tramite la sua gentile
Soprintendente, Marina Sapelli Ragni, ho avuto l’occasione di recarmi
con Di Mario nel posto più inconsueto che gli Dei mi abbiano finora
concesso di vedere in questo nuovo anno. La scoperta rimonta a un
paio d’anni fa, ma è stata tenuta nascosta “per lavorare tranquilli”.
Ieri a Roma è stata ufficializzata in una conferenza stampa al Museo
Romano.
Ma tu non parli, Pomponio, non incoraggi forse il mio racconto?
Pomponio – Al contrario, Lucio, dopotutto il caso non esiste e forse
era necessario che tu, malgrado la giovane età, t’imbattessi in
questa scoperta talmente elevata da obbligarmi all’ascolto più
rispettoso. Sicché parlerò quando conviene. Prosegui.
Lucio – Ebbene, Pomponio, devo premettere che il luogo di cui ti dico
è orrendamente circondato da una costruzione gigantesca, un ex
albergo se ricordo bene, la quale ne deturpa il silenzio e ha
irrimediabilmente distrutto con le sue fondamenta una parte dell’area
archeologica non ancora indagata. Siamo a pochi piedi dal Tirreno,
circondati dalle dune di una sabbia prodigiosa che, alta venticinque
palmi, ha conservato fino a noi le vestigia antiche. Dalla parte
opposta a Nettuno si scorge la cima del monte Albano, con quella sua
lieve increspatura di crateri secondari che gli stanno intorno come
una corona senza tempo. Qui ogni lembo di terra appartiene a Vulcano,
si cammina sopra lava rappresa in strati di tufo rosso e giallo. A
pochi passi dallo scavo c’è un fosso detto dell’Incastro attraversato
da un corso d’acqua invisibile per via delle canne che lo sovrastano
rischiarando la parte bassa del cielo. Puoi vederlo solcato da
qualche grande uccello acquatico e ti sembra di andare e riandare
indietro nel corso dei secoli per arrestarti all’età in cui si
dormiva dentro capanne di argilla riscaldate dal focolare.
Qui, accanto ai resti di magazzini e terme di età imperiale dai quali
è sbucato uno dei Dioscuri scolpito nel marmo, c’è l’area sacra di
Castrum Inui ed è forse proprio qui che sbarcò il padre Enea dopo
lunghe fatiche, fuggente da Troia in fiamme. Di pochi giorni fa è la
scoperta di un podio monumentale a cuscini tondeggianti e
contrapposti, indizio di un grande tempio arcaico ad ale trasformato
in piazza nell’età augustea. Ma sopra tutto qui potrebbe essere il
sito mitico e anche storico chiamato Aphrodisium in onore della
Venere Genitrice, con accanto gli altari dedicati al Sole Indigete,
cioè all’avo primigenio della stirpe nostra. Qui, Pomponio, più che
non a Lavinium, alcuni archeologi vogliono situare l’approdo troiano
nella selva Laurentina, nel territorio governato dal re Latino. Da
dove lo deducono, mi chiederai. Non dal piccolo sacello di Esculapio
Salvifico, forse, il cui altare qui resiste soltanto nel basamento,
testimonianza della pietas rivolta al figlio di Febo e della ninfa
Coronide quando ai malati era richiesto di salvarsi da sé, con
l’aiuto rivelatore giunto in sogno dal Nume. Sebbene il nostro Ovidio
ci ricordi come la nave che da Epidauro condusse a Roma il dio sotto
forma di serpente avesse lambito la sabbia di Castrum Inui. Ma
probabilmente ci diranno qualcosa di fedele, o Pomponio, i due altari
in peperino posizionati tra il podio di cui ti dicevo e le mura del
Castrum: inclinano l’uno verso Lucifero e l’altro verso Borea. Così
simili alla dodicesima delle are latine erette a Lavinium, gli altari
ospitavano nel proprio strato di terra il busto di un’amazzone, se
non di Diana perfino. E sopra tutto una lastra raffigurante la scrofa
allattante che il padre Enea ha sacrificato, dopo averla perduta e
inseguita, fino alla terra fatidica di un pianoro sul quale sarebbe
sorta la città così nominata dalla figlia del re Latino. E’ costume
in effetti che gli altari fumiganti di erbe sacre sorgessero, e
sorgano a tutt’oggi, lì dove in principio i maggiori nostri avevano
consacrato la terra al culto. Lo stesso per i templi, come tu
m’insegnasti, o Pomponio. Perciò quel che ti dirò tra poco non ti
sarà nuovo al pensiero né vano e intollerabile alle orecchie. Dunque,
Pomponio, non credi forse che gli Dei a volte si servano di un uomo o
di una donna comuni, non soltanto delle pitonesse delfiche o degli
auguri, come tramiti per manifestare agli altri mortali alcune verità
ignote e altrimenti inconoscibili? E non rientrano forse nel novero
dei mortali gli archeologi, la cui vicinanza durevole con le cose
antiche li pone in contatto con il Genio del luogo ove si adoperano?
Molteplici sono gli scavatori “di Genio” i quali nei secoli, spesso
all’indomani di sogni premonitori versati dal giusto corno sui loro
occhi insieme con il sonno, hanno estratto le vestigia nostre dal
grembo di Tellus e lo hanno fatto in preda a un’ispirazione febbrile,
quasi una Mania. Citerò due casi noti ai più. Giacomo Boni
nell’ultimo anno del secolo XIX dell’era volgare, scopritore del
Lapis Niger nel Comitium del Foro. E Andrea Carandini, scopritore
pochi anni addietro delle prime mura fatte erigere dal padre Romolo
sul Palatino. Ebbene, Pomponio, come loro anche Di Mario partecipa di
questa divina ispirazione, se era nel vero quando mi disse:
“All’inizio dello scavo vedevo di fronte a me alcuni muri in opera
reticolata di età imperiale, tarda, ma avevo già la segreta speranza
di disseppellire l’Aphrodisium. Non so, era come un poco di pazzia,
me lo diceva l’intuito”. E cos’è l’intuito se non l’ingresso nel
corpo mortale di una presenza intermedia tra l’umano e il superumano?
Ecco, proprio a ridosso dei due altari in peperino quell’intuito ha
permesso di ritrovare un altro tempio particolarissimo. Un tempio del
IV-III secolo avanti l’era volgare, preceduto da un bellissimo altare
in peperino, davanti al quale c’è un thesaurus, un finto pozzo che in
realtà conteneva offerte votive al Nume. Nelle vicinanze c’è pure un
pozzo autentico che ancora ospita l’acqua dolce delle Ninfe
sotterranee. Ma quel che rende più speciale il tempio è un
antichissimo blocco di tufo da quello contenuto. Posto al di sopra di
una buca ritualmente scavata come una delle pietre di confine che
oggi, festa dell’inamovibile Terminus, noi veneriamo affinché renda
immobile la saldezza dei confini patrii e le deliberazioni del nostro
animo, quel blocco di tufo reca sulla sommità un’iscrizione
certamente dedicata al dio del quale il tempio è la casa. Quel blocco
di tufo porta incisa la lettera V e gli archeologi credono sia
l’iniziale del dio Ve(d)iovis, il Giove adolescente al quale la
stirpe degli Eneidi è devota nel proprio culto domestico.
Non sono molto lontano dalla conclusione del mio racconto, ma non
credi forse, o Pomponio, che già io abbia detto quanto basta per
suscitare il tuo giudizio al riguardo?
Pomponio – Apprezzo il tuo pudore, o Lucio, nell’allusione al dio
della gens Iulia. La tua continenza eguaglia la tua pietas. E se non
fossi sospettabile di parteciparne in qualche grado, essendo il tuo
maestro, la lode che indirizzerei al tuo riguardo avrebbe la
risonanza di un epinicio, data l’ampiezza della tua costanza e la
gravitas delle tue argomentazioni così ben modellate. Eppure: come
giudichiamo la fattura di una statua non soltanto dall’ardore
dell’idea che si deve ancora materializzare nella sua unicità, ma
sopra tutto dall’armonia delle forme e dalla corrispondenza che la
nostra creatura di marmo, una volta realizzata, mostra tra
l’intenzione originaria e la sua compiutezza; così, o Lucio, lascia
che la tua intuizione sul dio Ve(d)iovis si depositi nell’animo
nostro per essere più vera alla fine del ragionamento. Ché di altro,
adesso, occorre parlare.
Lucio – Ti ascolto.
Pomponio – Non sorprenderò le tue orecchie dicendoti che del Castrum
Inui parlò il nostro Macrobio al limitare dell’ultimo bagliore
gentile visibile nella Curia Giulia, sull’altare della Vittoria, nel
V secolo dell’era volgare, mentre l’ateismo s’impadroniva della Res
Publica e assassinava le anime di Roma. Ricorderai, forse, cosa
dicesse Macrobio sul nome del Castrum da te visitato. Ma prima vorrei
menzionarti i nomi di Ovidio, Servio e Rutilio Namaziano. Costoro
citarono il Castrum nelle loro opere, se pure incidentalmente. Più
importante ancora è quel passo del sesto canto dell’Eneide in cui
Publio Virgilio Maro narra dell’incontro avvenuto nell’Ade tra Enea e
suo padre Anchise, alla presenza della veneranda Sibilla. Il passo
nel quale il vecchio pastore frigio, fuggevole amante di Venere e
zoppo come il di lei sposo Vulcano, Nume del fuoco sotterraneo,
illustra al proprio figlio il valore e la fama che circonderanno gli
eroi dell’Urbe da lui non ancora generati. E che renderanno
impareggiabilmente glorioso il nome di Roma. Dice Anchise tramite il
poeta, mirabilmente tradotto dalla lingua latina per la virtù di
Annibal Caro: “Vedi colà quel giovinotto ardito,/ che su quell’asta
pura il braccio appoggia?/ Quegli alla luce è destinato in prima:/
primo che di Lavinia in Lazio avrai/ figlio postumo a te già d’anni
grave,/ ch’alfin da lei fuor delle selve addutto,/ Re sarà d’Alba, e
degli albani regi/ autore e padre: e Silvî dal suo nome/ fìan tutti i
nostri, che da lui discesi/ ivi poscia gran tempo imperio avranno./
Proca è quel dopo lui, gloria e splendore,/ de la stirpe troiana: e
quegli è Capi,/ e quegli è Numitore: e l’altro appresso/ è Silvio
Enea, che ‘l tuo nome rinnova;/ E se fia mai che ‘l suo regno
ricovri,/ non sarà men di te pietoso e forte”.
Prima di proseguire ancora, Lucio, ammetterai con me che quando
Virgilio introduce il gruppo degli eroi nostri, i re di Alba, il
primo di costoro è quel Silvio il quale gli antichi ricordano come
artefice della fondazione di Castrum Inui. A volte confondendolo con
Latino Silvio, figlio di Ascanio e dunque nipote di Enea. Ricorda
perciò, o Lucio, che ogni qualvolta senti parlare dei Silvî devi
pensare alla genìa di Venere il cui sangue palpita nella discendenza
di Enea. Ma fa attenzione a quanto ti dico: nel linguaggio ermetico,
e oggi perfino i contemporanei delle accademie se ne sono accorti,
Silvio equivale a Ideo. Cioè a Colui che dal monte Ida viene
generato. Il monte Ida sorge sia a Creta sia nella Troade. E se è
vero che quello di Enea è un ritorno nella Saturnia Tellus dalla
quale i progenitori Pelasgi erano partiti, seguendo il capostipite
Dardano, per fondare Troia, dobbiamo immaginare forse che nella
nostra Italia vi siano uno o più luoghi Idei, ovvero Silvî. Ma chi
viene generato sull’Ida, Lucio?
Lucio – Giove Ottimo Massimo, il padre onnipotente re degli Dei e
degli uomini. A Creta viene onorato sotto le sembianze di Zeus
Kouros, giovanile progenie di Kronos. A Troia prevale invece la
figura di sua madre Rhea. Qui da noi è detta Rea Silvia in quanto
sacerdotessa di Vesta, custode del focolare e sposa del dio Marte
sprigionatosi dalla fiamma, come fuoco fecondante e genitore di
Romolo. Lì è detta Cibele in quanto grande madre degli Dei tutti.
Pomponio – Dici bene. Ma proseguiamo con Virgilio: “Mira che
gioventù, mira che forze/ mostran, solo a vederli. Appo costoro/ quei
che son là di quercia inghirlandati,/ di Gabi, di Nomento e di
Fidene/ parte propagheranti il picciol regno,/ parte su’ monti il
tempio ti porranno/ d’Inuo, e la terra che da lui dirassi,/ e
Collazia e Pomezia e Bola e Cora;/ ché questi nomi allor quei luoghi
avranno/ ch’or ne son senza”.
Bisognerà tacere delle altre città, per dedicarsi nuovamente a
Castrum Inui, alla città fortificata d’Inuo. Ma non deve essere un
caso se Virgilio la accosta ad altre e proprio a quelle. Per esempio
Gabii, presso il fiume Amaseno che sfocia fra le braccia di Nettuno a
Terracina. Ricorderai forse, Lucio, qualcosa di particolare connesso
ai Gabini, oltre alla loro pietas verso la Saturnia Giunone.
Lucio – Certamente, Pomponio. Erano di fiera stirpe silvestre e
combatterono contro i Teucri sotto la guida del fondatore di
Preneste, il monocolo Caeculus, figlio di Vulcano.
Pomponio – Dici bene. E tieni a mente questo, che nel nome Caeculus
devi leggere Ciclope, cioè colui che è generato dal fuoco vulcanico e
nella solitudine del proprio occhio vede più di quanto non vedano
coppie e coppie di pupille. Ricorderai, Lucio, che non per caso la
statua bronzea del nostro Orazio Coclite era situata nel Comitium, di
fronte al sacello di Vulcano.
Lucio – Ricordo.
Pomponio – Ora, fa attenzione a questo: i guerrieri gabini comandati
dal prenestino Caeculus avevano una particolarità. Nel canto settimo
dell’Eneide, questa volta nella versione di Rosa Calzecchi Onesti,
Virgilio li descrive così: “Non tutti han vere armi,/ né scudi o
cocchi rimbombano: ghiande di livido piombo/ sparge la massima parte,
altri portano picche,/ due per mano, fulvi caschi di pelle di lupo/
le teste proteggono: nude le impronte del piede/ sinistro calcano,
cuoio crudo l’altro riveste”. Sicché l’equipaggiamento dei Gabini,
scalzi nel piede sinistro come per mantenere in battaglia il contatto
con il fuoco terrestre, è così arcaico da sostituire all’elmo
crestato un berretto rosseggiante della pelle del lupo. Non trovi,
Lucio, che somigliassero ai nostri Luperci i quali nel quindicesimo
giorno di questo mese sfilano seminudi sotto il Palatino, rivestiti
ai glutei di pelli caprine in omaggio al loro padre Fauno Luperco,
cioè lupus e hircus, lupo e capro? E non è forse una coincidenza
felice che Fauno sia anche il padre del re Latino, il quale diede
Lavinia in sposa a Enea, nonché figlio di Picus, nel cui nome si
richiama l’uccello sacro al dio Marte il quale, a sua volta, insieme
con la Lupa nutrì i gemelli nell’antro del Lupercale palatino?
Lucio – Per Ercole! Tu dici, o Pomponio, quel che la mia mente sapeva
ma non aveva avuto l’ardire di collegare in una forma così armonica.
Pomponio – E ancora: noterai il particolare legame equoreo, il fiume
Amaseno, che unisce gli antichissimi Gabini a Terracina, città
sovrastata da un tempio dedicato a Iuppiter Anxurus, il Giove nella
sua lucentezza adolescente al quale un pitagorico del XX secolo
dell’era volgare, Evelino Leonardi, dedicò queste righe: “Da una
radice Sur che significa splendere, si ha in sanscrito Suria, che
significa Sole. E abbiamo nel nostro Soratte il Monte del Sole,
sacrum Phoebo Soracte, come dice Silio; e a Terracina, il tempio ad
An-Sur il non spento, l’inestinguibile, il Sole”.
Aggiungo soltanto, giacché l’ho citato e perché mai si dica che un
romano disdegni di omaggiare come si conviene una vetta dedicata al
Lungisaettante Apollo, la preghiera che l’etrusco Arrunte, alleato di
Enea, recita nell’undecimo canto dell’Eneide (tradotta qui da Luca
Canali) prima di colpire a morte l’amazzone Camilla (colei che forse
hai evocato quando parlavi del busto rinvenuto accanto al blocco di
tufo nel tempio del Castrum Inui dedicato a Ve(d)iovis). Eccola:
“Sommo degli Dei, Apollo custode del Santo Soratte,/ tu che primi fra
tutti veneriamo, a cui alimentiamo/ le fiamme con cataste di pino e,
fidando/ nella pietà, camminiamo, noi tuoi adoratori,/ tra il fuoco e
su molta brace, concedi,/ di cancellare codesta vergogna/ con le
nostre armi, tu che puoi tutto”.
Non trovi, Lucio, che un senso di copiosa luminosità e di tremenda
forza giovanile accomuni ora i termini del nostro discorso? Qualcosa
di solare, ma non ancora perfettamente ordinato come il ritmo
dell’astro diurno.
Lucio – Trovo che sia come dici.
Pomponio – Bene. E’ giunto il momento di tornare al nostro Macrobio.
Quando scrisse i suoi Saturnaliorum Convivia, egli aveva presente
l’identificazione tra l’Inuo di Castrum Inui, il latino Fauno e il
greco Pan svelata già da Livio e Servio. Quel che sto per dirti,
Lucio, devi rappresentartelo immaginando una delle mirabili statue
elleniche di età classica nelle quali è raffigurata l’alma Venere
insidiata da Pan. Comprenderai presto il perché.
Lucio – Così sarà.
Pomponio – Dice allora Macrobio, tradotto da Nino Marinone: “Lo
stesso Pan, che chiamano Inuo, sotto l’aspetto in cui è visibile
lascia capire alle persone più sagge di essere il sole. Gli Arcadi
venerano questo dio chiamandolo ‘il signore della hyle (=selva,
materia)’, volendo intendere non il padrone dei boschi, ma il
dominatore di tutta la materia universale che costituisce l’essenza
di tutti i corpi, sia divini che terreni. Perciò le corna di Inuo e
la lunga barba pendente simboleggiano la natura della luce, con cui
il sole illumina la volta superiore del cielo e l’emisfero inferiore;
onde Omero dice di lui: ‘Sorgeva per portare luce agli immortali e ai
mortali’. Abbiamo più sopra illustrato il significato della zampogna
e della bacchetta parlando degli attributi di Atti. Ecco ora la
spiegazione della forma caprina dei suoi piedi. La materia che,
distribuita dal sole, è fornita ad ogni sostanza, dopo aver formato i
corpi divini, finisce nell’elemento della terra. Per rappresentare
dunque questo termine estremo, si scelsero i piedi di questo animale,
perché è terrestre e tuttavia pascendo tende sempre verso l’alto;
appunto come il sole, che sia quando manda dall’alto i suoi raggi
sulla terra, sia quando è basso all’orizzonte, si vede sulle
montagne. Amore e delizia di Inuo è ritenuta ‘Ekhò’, che non si
lascia vedere da nessuno, simbolo dell’armonia celeste, che è cara al
sole in quanto reggitore di tutte le sfere da cui essa nasce, e che
tuttavia non può mai essere percepita dai nostri sensi”.
Comprendi, Lucio?
Lucio – Comprendo. Ma devo forse pensare che la Venere-Afrodite verso
la quale si protende Fauno-Inuo sia dunque Ekhò?
Pomponio – Non c’è bisogno. Dalla Venere occorre che tu allontani la
voluttà, come per Ekhò, ma per scorgerne la forza mediatrice, come
una Grazia divina, mediante la quale il fuoco solare disceso chissà
quando sulla terra tende a risalire verso la sua sede originaria
celeste. Di Ekhò non è dato vedere le fattezze, ti basti sapere che
Ella è “amore e delizia” in quanto frutto di una volontà realizzata
in atto. Perciò adesso ti sarà forse più chiaro chi è il Signore del
luogo che accolse Enea, il Sole Indigete nel cui nome egli praticò i
riti. E l’Aphrodisium sorto sul posto in cui il duce troiano
pronunciò la richiesta di “venia” alla Venus che i padri tirreni
appellavano Frutis. Ma credi sia tutto?
Lucio – No di certo.
Pomponio – Saprai che Strabone narrò di due Aphrodisia, uno a
Lavinium e l’altro presso Ardea, cioè a Castrum Inui; e che sempre a
Lavinium esiste un santuario al Sol Indiges non diverso dal tempio
d’Inuo dove si trova l’iscrizione a Ve(d)iovis. Saprai inoltre che la
tradizione nostra volle conservare presso il focolare di Lavinium i
Penati recati con sé da Enea. O vorrai negare, per opporvi magari la
primazia del Castrum, la sacertà che i maggiori accordarono a Lavinium?
Lucio – Giammai, Pomponio. Dopotutto gli archeologi insegnano che il
territorio laurentino si estendeva da Lavinium ad Ardea senza
coincidere con una città in particolare. E se è vero che l’area sacra
dello sbarco troiano si colloca lungo l’intera costa laurentina, per
quale ragione dovremmo noi ora stabilire delle gerarchie? E poi, come
non concedere la dovuta attenzione a questa frase che Di Mario ha
pronunciato: “Il mito in quanto tale è vero e basta. La sua valenza è
simbolica e analogica ed è vera anche quando non lascia tracce
archeologiche. Più della vicenda storica di Enea, conta il valore
attribuito a questa vicenda dai romani”. Dico questo, Pomponio,
rammemorando quanto tu stesso m’insegnasti a proposito delle cose
antiche, e cioè che esse si manifestano alla storia terrestre quando
hanno già impoverito la propria essenza immateriale, e allo studioso
appaiono recenti anche le forme spirituali precipitate nella materia
molto più tardi rispetto alla propria nascita. Diffida delle
datazioni, tieniti lontano dalle dispute rinchiuse nella prigione
mentale dei moderni; Cave canem! Così imparai da te.
Pomponio – Dici bene. Eppure sappiamo che Lavinium sorge non distante
da Ardea e dal Castrum d’Inuo, tuttavia la sua terra è quella
fecondata dal fiume Numico che, proprio come Enea fra le sue acque,
compie il proprio destino nelle mani di Nettuno in una zona chiamata
Troia, lì dove restano le tracce del santuario del Sole Indigete. E a
pochi piedi da lì si trovano le tredici are allineate dei Latini
riuniti in confederazione. E a pochi piedi da lì, fa attenzione
Lucio, esiste l’Heroon del padre Enea, il tumulo nel quale i maggiori
nostri vollero eternare la sua memoria. Tralasciamo pure, come dici
tu, le date. Se pure esse ondeggiano come Nereidi tra l’età detta del
Bronzo, quando nel luogo apparvero le prime tracce non immateriali, e
il VI-IV secolo avanti l’era volgare per quel che riguarda le are e
il tumulo.
Ma non potrai negare, Lucio, che i padri nostri riconobbero in
Lavinium l’Urbe arcana più prossima. E che in Lavinium, oltre ai
Penati protetti da Vesta e adombrati in una lamina dedicata ai
Castores, loro come Enea vollero custodire la sapienza palladia
dietro l’Egida di Minerva Tritonia. Come ricorda Macrobio, è a
Lavinium e non altrove che “si recavano annualmente, al momento di
assumere la loro carica, i consoli e i pretori per sacrificare ai
Penati e a Vesta”. Queste parole risalgono però a Ferdinando
Castagnoli: ispirato archeologo, diresti tu, il quale ebbe l’onore di
riaprire Lavinium alla luce del sole. Ascoltalo ancora: “Da
un’iscrizione dell’età di Claudio trovata a Pompei (CIL X, 797)
apprendiamo l’esistenza, a Lavinium, di una speciale carica
sacerdotale, di un pater patratus (cioè un feriale) addetto a
celebrare il patto esistente col popolo Romano secondo i libri
sibillini e a compiere il rito relativo ai sacra principia populi
Romani Quiritium nominisque Latini, quai apud Laurentis coluntur.
Questi principia sono evidentemente i Penati di Lavinium, ed essi
sono considerati divinità di Roma e della stirpe latina”. Credi, o
Lucio, che saremmo noi meritevoli di rispetto se trascurassimo queste
verità?
Lucio – Non lo saremmo, Pomponio. Ma a questo punto concedimi di
domandarti se Castrum Inui e Lavinium possono collegarsi secondo un
rapporto di semplice analogia. O se non dobbiamo piuttosto
considerare che nel III secolo dell’era volgare Nettuno cominciò a
innalzarsi sulle spalle di Inuus, come ci dicono le tracce dello
sciabordio sulle sue gambe di argilla. Fino a sommergerlo
completamente tra il IV e il V secolo, quando cioè la madre Tellus si
scosse sotto le rovine dell’ateismo assediante e tremò sotto le anime
empie dei barbari. Voglio dire questo: che come Fosforo ed Espero si
succedono annunciando nel crepuscolo ora l’arrivo ora il congedo del
carro solare; così Inuus può aver salutato l’originare, il ritornare
e l’occultarsi dei nostri Penati ospitati da Vesta Laurentina.
Ovvero, Pomponio, potrei sostenere che come il Gianicolo rappresenta
la porta attraverso la quale il padre Giano concesse ospitalità al
Saturno latente sopra il colle che sarebbe divenuto il trono
capitolino di Giove Ottimo Massimo, così prima ancora Inuo avrebbe
potuto essere l’asilo riservato al fuggiasco Enea, poi salito al
trono del Sole Indigete nell’apoteosi del Numico. E cos’è, Pomponio,
Asylum, se non anche il nome del pianoro tra l’Arce e il Campidoglio
dove Romolo radunò i suoi Luperci nel momento dell’estremo pericolo;
e dove oggi è il tempio del giovane Ve(d)iovis?
Pomponio – Mi domandi quel che hai già compreso, e forse più di
quanto sia consentito rivelare. Non ti risponderò io, Lucio, perché
lascerò che a farlo sia un patrizio chiamato Ottaviano. Egli suggerì
questo, a proposito di Pan, nella ricorrenza della dea Furrina, anno
1910 dell’era volgare: “In quanto alla sua origine v’è chi lo dice
figliolo di Mercurio, chi di Giove e di Calisto, chi di Giove e di
Ibris, chi figliolo lo dice di Mercurio e Penelope. Omero racconta
che la nutrice spaventata dalla grottesca sua figura ricusò di
allattarlo, che Giove e Bacco ne risero. Se ne spaventavano le Ninfe
a cui faceva violenza ed Apollodoro lo rende maestro di Apollo
nell’arte della Divinazione. Osceno fu soprannominato Inuus (1). Ed
il carattere osceno, lussurioso, voluttuoso lo accompagnò durante
tutta la sua vita Divina, a tal punto brutale che Ovidio ci racconta
la sua topica amorosa nella grotta di Onfale (2). I versi di Silio
Italico ce lo dipingono come ogni buon pagano doveva rappresentarselo
(3)”.
Fa attenzione, Lucio, perché ti dirò anche, ma in parte, quel che il
Nobile Romano aggiunge nella prima nota: “Da inire arcaico vuol dire
prostituire […]”.
Lucio – Queste parole possono trafiggere come le frecce del padre
Apollo. Ma dimmi, Pomponio, se per caso io non debba adesso pensare
che alla voce “prostituire” sia da ricondurre la persona di Acca
Larentia, nutrice di Romolo e Remo, come Lupa mansuefatta. E dimmi se
per caso io non debba poi ricordare che marito di Acca Larentia era
quel pastore Faustolo, colui che trovò i gemelli nel Lupercale, il
cui nome evoca a sua volta il dio Fauno/Luperco, ovvero Inuus. E
dimmi se per caso io non debba perfino giungere a credere che nel dio
Pan si nasconda un fuoco giovanile esuberante e fecondatore, perciò
naturalmente proteso al congiungimento trionfale con l’elemento
venereo. Come in un rito di attrazione universale simile a quelli
praticati dalle ierodule di Pyrgi, le prostitute sacre che
celebravano i misteri di Venere sulle rive del Tirreno a nord di
Caere. Non lontano dal santuario del dio Suri, consanguineo del padre
Ve(d)iovis.
Pomponio – La vastità del tuo discorso e la profondità toccata
inducono al silenzio, Lucio. Ma la tua giovanile insistenza sgorga da
un animo nobile, perciò non le rifiuterò un ultimo premio. Esiste un
altro significato arcaico legato alla voce inire, questo: cominciare,
avere principio, dunque principiare.
Quanto infine al tuo Ve(d)iovis, ti basti adesso la voce imperfetta
di un altro studioso moderno: “Vediove, o Giove infernale non è che
uno dei tanti nomi ed aspetti che presso gli Italici assunse il
concetto di Giove. Il suo culto era localizzato, con il nome di
Vediove o con altri nomi, presso quei luoghi paludosi e malsani, o
soggetti a manifestazioni vulcaniche, che fossero ritenute
espressioni del carattere infernale e nefasto di una divinità. Tale
era quindi, nel Campo Marzio ove però non lo incontriamo mai con il
suo nome. Tale si può riconoscere, benché con il diverso nome di
Conso, nell’ara sepolta presso la sede del Velabro nel Circo Massimo;
tale si avvicina a Semo Sancus, al Jupiter Latiaris ed al Giove Anxur
in tutte le alture immediatamente imminenti a luoghi paludosi… come
sulle vette Sanqualis e Latiaris del Quirinale prospettanti il Campo
Marzio paludoso o le strette valli acquitrinose interposte tra i colli”.
Nota, Lucio, che in queste righe di Giuseppe Marchetti Longhi l’oro è
mescolato al piombo. Quando sarà il momento le esamineremo,
principiando dal Monte Albano dove siede Jupiter Latiaris e dove i
Latini celebravano feste annuali per rinnovare il patto con il Nume
supremo.
Lucio – Potremmo allora congedarci dopo aver illuminato per un attimo
ancora la sede di Giove Anxur, del quale mi dicevi a proposito dei
Gabini e citando il pitagorico Leonardi. Se non oso troppo e se la
dismisura non sta velando il mio cuore. Ma vedo che sorridi,
Pomponio, e questo incoraggia la mia giovanile insistenza sgorgata da
un animo nobile.
Pomponio – E sia. Ma prima descrivimi in poche parole la bulla che
porti al collo e che tra poco, raggiunta l’età adulta, dovrai
depositare nel larario domestico insieme all’identico amuleto di tuo
fratello Sesto.
Lucio – Subito. E’ il conio tratto dal calco di una moneta fatta
battere in età repubblicana, nell’85 avanti l’era volgare, da un
magistrato chiamato Lucio Giulio Bursio. Il recto rappresenta il
profilo poco più che fanciullesco di Apollo/Ve(d)iovis con due
piccole ali sopra le orecchie e lunghi capelli simili a quelli
rimasti sulla statua del dio ritrovata nel suo tempio dell’Asilo.
Indossa una clamide e dietro di lui appaiono in rilievo un tridente e
un’anfora. Sul verso è scolpita la Vittoria in piedi sopra la
quadriga di Giove mentre offre con la sinistra una corona di lauro.
Ma perché mi domandi questo, io non lo comprendo ancora.
Pomponio – Perché nelle monete antiche è racchiuso più di quanto si
possa immaginare. Diversamente, tuo padre non avrebbe scelto proprio
quella per proteggere il tuo primo soffio vitale. Concentra ora la
mente sull’immagine della tua bulla osservandone il recto come se
fosse davanti ai tuoi occhi.
Concentrati, Lucio, concentrati, Lucio, concentrati.
L’anfora è il simbolo dei Dioscuri titolari della città di Amycle,
non lungi da Terracina. Il tridente è l’insegna regale dello
scuotiterra Nettuno. Il profilo del Nume richiama con le sue ali il
Mercurio ignificato, come un mare bianco incandescente che sta
trascolorando verso il rosso del minio trionfale. Ma non ancora è la
fine dell’Opera. Intanto ascolta cosa dice Leonardi: “Ricorderemo qui
che sul Monte Nettuno soprastante Terracina, era un tempio dedicato
al Divino Fanciullo che fu poi conservato presso i Romani col nome di
Giove Fanciullo”.
Lucio – Mi stai forse dicendo, Pomponio, che nelle monete degli avi è
scolpita la geografia sacra degli Dei nostri?
Pomponio – Perché decretare una legge quando si può invece seguire la
consuetudine dell’istinto? Al momento opportuno altro ti sarà
comunicato. Ma ora Espero è splendente nel cielo e sembra intonare il
primo richiamo degli uccelli notturni. Il sole è disceso tra le
schiume di Nettuno. I Terminalia si compiono e allora tu accetta
dalle mie mani paterne, Lucio, questa moneta che voglio regalarti.
Nel recto è il profilo di Ottaviano Augusto, il padre della Patria.
Nel verso il suo volto laureato ti guarda mentre poggia su un’erma
itifallica ornata, nella sua parte inferiore, della triplice saetta
giovia. Egli è Ve(d)iovis nel fulmine del sottosuolo, Inuus nel fallo
eretto, Terminus nel ceppo marmoreo. Ed è il fondatore dell’Impero
nel suo viso radiante di gloria solare.
Con ciò ti saluto, Lucio. Vale!
Lucio – Vale!


SILLABARIO MINIMO (PER NON SMARRIRE LA VIA)

Terminus. Letteralmente, pietra di confine. E’ il dio protettore del
limes pubblico e privato. Fu introdotto a Roma dal re sabino Tito
Tazio, che fece edificare un suo sacello sul Campidoglio. Tale
sacello fu poi ospitato nel tempio di Giove Ottimo Massimo nell’età
dei Tarquini poiché Terminus, al contrario delle altre divinità
venerate su colle, rifiutò di ritirarsi per fare spazio al figlio di
Crono. Viene onorato il 23 febbraio con le feste Terminalia, cui è
connessa l’idea di stabilità primordiale.
Apollo. Figlio di Zeus e Latona e fratello di Artemide, secondo la
mitologia greca. Fu partorito nella rocciosa isola di Delos, dove sua
madre fuggì inseguita dall’ira di Hera (Giunone). Costruì le mura di
Troia insieme con Nettuno. Gli etruschi lo venerano col nome di Aplu.
I Romani riconoscono in lui Ve(d)iove adulto. Ottaviano Augusto gli
tributò un culto gentilizio e statuale.
Lavinium. Antica città del Lazio devota al culto di Minerva. Oggi è
chiamata Pratica di Mare (provincia di Roma).
Ardea. Antica città laziale a ridosso del Tirreno (provincia di
Roma), i suoi abitanti sono detti Rutuli. Turno fu il loro duce in
battaglia.
Castrum Inui. Cittadella fortificata che poggia sul Tirreno, sorta
sul Fosso dell’Incastro, corrispondente al porto di Ardea. In fase di
scavo, si caratterizza per l’ampiezza della sua area sacra.
Venere. Dea della forza attrattiva universale collegata al favore di
Giove (le è sacro il mese di aprile). I Romani la “venerano”,
domandandole “venia”, cioè una forma di grazia necessitante slegata
dal caratteristico contratto con gli Dei (do ut des). Congiunta con
Anchise, ha generato Enea, progenitore della stirpe romana. I Greci
la onorano nella figura sensuale di Afrodite.
Indigeti. Divinità primordiali caratterizzate da una sfera
d’influenza circoscritta all’azione da loro contenuta in potenza.
Ovvero forze atte a manifestarsi in forma impersonale.
Nettuno. Re del mare, fratello di Giove e di Ade. E’ insignito dello
scettro/tridente. I Greci lo venerano con il nome di Poseidon lo
scuotiterra.
Giunone. Sorella e sposa di Giove, legata all’elemento aereo.
Presiede ai matrimoni e viene celebrata nel primo giorno di ogni mese
(Kalendae).
Giove. Sommo fra gli Dei, re, padre, onnipotente, folgoratore,
tonante, pluvio, invincibile. Si adora, tra l’altro, nelle idi
(tredicesimo giorno di ogni mese. Tranne in marzo, maggio, luglio,
ottobre, quando il suo giorno è il quindicesimo).
Ve(d)iovis. Giove nella sua forza adolescente, non sempre controllata
e anche per questo connessa all’elemento vulcanico o sotterraneo.
Nume gentilizio della famiglia Iulia.
Inuus. Per i Greci è Pan, per i Romani Fauno. Dio rappresentato con
fattezze silvestri e collegato al mistero delle origini.
Dioscuri. Castore e Polluce, il primo è figlio mortale di Leda e
Tindaro, il secondo è progenie immortale di Leda e Zeus (in sembianze
di Cigno). Divinità guerrire e salvifiche, frutto di un parto
trigemellare (loro sorella è Elena).
Minerva. Per i Greci è Atena. Divinità italica e romana, guerriera e
maestra, generata dal capo di Giove aperto dal martello di Vulcano.
Si può definire come la Sapienza armata che protegge, indossando la
propria egida (ricavata dalla pelle della capra nutrice di Giove,
Amaltea), il principio misterico della aeternitas Romae.
Marte. Dio italico della guerra (per i Greci Ares, amante di
Afrodite). Sotto forma di fallo igneo ha generato Romolo e Remo con
la vestale Rea Silvia. Nella sua funzione fecondatrice è onorato
anche come Quirino (un Marte tranquillo a protezione dei campi). Gli
è sacro il mese di marzo.
Vesta. Dea del focolare domestico e cittadino, custode dei Penati.
Penati. Dei della patria e divinità tramandate nel culto privato
famigliare. Abitano i “penetralia” cittadini e domestici.
Esculapio. E’ il greco Asclepios giunto a Roma da Epidauro nel 293
avanti l’era volgare per sanare l’Urbe da una pestilenza. Il suo
tempio maggiore è sull’Isola Tiberina, dov’era anche un edicola di Ve
(d)iove.
Luperci. Una delle società iniziatiche a base gentilizia legata ai
riti di passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Devote al dio
Fauno/Luperco, tali società di uomini celebrano le loro feste
Lupercalia il quindicesimo giorno di febbraio, quando il transito
dalla selvaticità giovanile all’ordine cittadino propizia il
risveglio delle forze primaverili dalla latenza invernale.
Giano. Antichissimo dio del Lazio, signore dell’inizio (gli è sacro
gennaio), dei passaggi e dei mutamenti di stato, custode di forze
auree pretemporali concentrate sul colle che da lui prende il nome,
il Gianicolo. Ospitò Saturno sul colle Capitolino, donde il nome
della sua città, Saturnia.
Saturno. Dio dell’età dell’oro. Figlio di Cronos e Rhea/Cibele,
detronizzato da Giove e dai suoi guerrieri Cureti. Trovò nel Lazio il
proprio asilo (fu come un ritorno a casa). I suoi misteri,
Saturnalia, si celebrano dal 17 dicembre, nel vuoto cosmico che
precede il solstizio invernale.
Furrina. Misteriosa divinità romana riconducibile al tipo della
Furia, connessa con il culto delle acque sotterranee. Le è sacro un
bosco terrifico sul Gianicolo, dove un suo sacerdote (flamen
furrinalis) sacrifica a lei il 25 luglio, feste Furrinalia.
Mercurio. Chiamato Hermes dagli Elleni, figlio di Maia, messaggero
alato dei Numi. Per i Romani è il padre dei Lari (divinità famigliari
e dei luoghi abitati, dalla casa ai crocicchi), ha una posizione
speciale fra gli Dei Cabiri di Samotracia.
Tellus. La dea madre Terra, nutrice della stirpe romana nella celebre
scultura dell’Ara Pacis.
Rhea. Madre di Giove, da lei generato sul monte Ida e protetto dalla
voracità di suo padre Saturno grazie al fragore degli scudi scossi
dai guerrieri Cureti. In Frigia è chiamata Cibele, come anche a Roma
in età repubblicana.
Arcadi. Popolazione della regione ellenica che da questa prende il
nome (Arcadia), connessa all’elemento pastorale e originata dalle
migrazioni pelasgiche (Evandro, custode del Palatino e alleato di
Enea, tornato in Italia in obbedienza al volere di un oracolo, è di
stirpe arcade/pelasgica).
Calisto (o Callisto). Ninfa compagna di Artemide, fu sedotta da Zeus,
generò da lui Arcade, re pelasgo, capostipite degli Arcadi, e Inuus.
Fu glorificata sotto forma di Orsa Maggiore, costellazione legata al
simbolismo del Palatino.
Ibris. In greco, Hybris. Personificazione sovrumana della dismisura o
tracotanza.
Dardano. Principe tirreno e capostipite dei Troiani. Nel suo viaggio
da Corìto verso la Frigia ha istruito varie popolazioni nei misteri
dei Grandi Dei Velati.
Fosforo. Astro del mattino che annuncia l’Aurora, per i Romani è
Lucifero (in alcuni periodi dell’anno, per gli osservatori del cielo,
coincide con il pianeta Venere).
Espero. Astro della sera che annuncia il tramonto (in alcuni periodi
dell’anno, per gli osservatori del cielo, coincide con il pianeta
Venere). Sua figlia Esperide, congiunta ad Atlante, ha generato le
ninfe dell’occidente chiamate Esperidi.
Borea. Vento del settentrione, chiamato Aquilone dai romani.