Remigrazione o cultura comunitaria?
di Matteo Mazzoni - 14/12/2025

Fonte: Matteo Mazzoni
Dal punto di vista antropologico, le tradizioni non sopravvivono come astrazioni o patrimoni simbolici, ma come pratiche ripetute da comunità storicamente continue.
Lingue locali, dialetti, ritualità, calendari festivi, saperi materiali ed economici esistono solo finché esiste una popolazione sufficientemente numerosa, stabile e simbolicamente dominante da riprodurli nel tempo. Quando questa continuità viene interrotta, la cultura non viene trasmessa: si frammenta, si riduce a memoria, infine scompare.
Nel caso lombardo, questa rottura della continuità storica non è avvenuta in tempi recenti nè per effetto dell’immigrazione dall’estero, ma molto prima, a partire dal secondo dopoguerra, attraverso un fenomeno strutturale e di lunga durata: l’immigrazione interna dal Centro-Sud Italia. Per decenni, la Lombardia è stata il principale polo di attrazione demografica del Paese, ricevendo flussi continui e massicci di popolazione proveniente da altre regioni italiane.
Non è un caso se già tra le due guerre il regime fascista percepiva la mobilità interna come un problema culturale e sociale: le leggi contro l’urbanesimo cercavano di limitare il trasferimento di popolazione verso le grandi città, ritenuto un fattore di sradicamento e perdita della continuità comunitaria. Già comunque insufficienti, l' abolizione di tali leggi decretò l'inizio di flussi di massa di mobilità interna, in favore dell' industrializzazione.
Questo processo non ha semplicemente aumentato la popolazione complessiva lombarda, ma ha modificato radicalmente la composizione delle comunità locali.
In molti contesti urbani, periurbani e produttivi, la popolazione storica lombarda ha cessato di essere maggioritaria o culturalmente egemone. Dal punto di vista antropologico, è questo passaggio a essere decisivo: quando una popolazione locale perde massa critica, perde anche la capacità di riprodurre la propria cultura.
Il dialetto, come sistema linguistico comunitario, ne è un esempio emblematico.
In comunità relativamente omogenee, il dialetto svolgeva una funzione primaria: organizzava la comunicazione, il lavoro, la socialità, la trasmissione intergenerazionale. Con l’arrivo di popolazioni provenienti da altre regioni, si è imposto un codice linguistico neutro — l’italiano — necessario per l’interazione quotidiana. Il dialetto non è stato solo represso, ma reso superfluo.
Una volta confinato alla sfera privata o agli anziani, ha smesso di essere trasmesso.
Lo stesso meccanismo ha agito sulle tradizioni locali non linguistiche: feste minori, rituali stagionali, pratiche di mutuo aiuto, saperi artigianali, forme di socialità radicate nel territorio. Queste tradizioni presupponevano una continuità comunitaria che l’immigrazione interna ha progressivamente dissolto. Non per ostilità culturale, ma per semplice sostituzione demografica e riorganizzazione sociale. La comunità storica non era più abbastanza numerosa da imporre il proprio calendario simbolico come norma condivisa.
È fondamentale sottolineare che questo processo è avvenuto all’interno della stessa nazione, tra cittadini italiani. Proprio per questo è stato antropologicamente più incisivo.
La mobilità interna ha prodotto una de-territorializzazione della cultura, in cui l’appartenenza locale è stata sostituita da un’identità prima nazionale, alienata dal dato territorio, poi funzionale, legata al lavoro, alla mobilità sociale, all’inserimento economico.
Quando, nel corso degli ultimi decenni, l’immigrazione dall’estero è diventata numericamente significativa, la Lombardia era già una società profondamente trasformata.
Le strutture comunitarie tradizionali erano in larga parte indebolite o scomparse; i dialetti erano già marginali; le tradizioni locali già folklorizzate. Gli immigrati stranieri non si sono inseriti in comunità storiche forti, ma in uno spazio socialmente neutralizzato, dove la cultura locale non costituiva più un riferimento centrale.
Questa neutralizzazione culturale si è sviluppata in parallelo all’integrazione della Lombardia nei circuiti del capitalismo avanzato. Quando una società perde le proprie specificità storiche, tende a riorganizzarsi attorno a criteri funzionali: efficienza, produttività, scambio, mobilità. Si afferma così un modello metropolitano standardizzato, vicino ai crismi del capitalismo anglosassone, in cui le città globali diventano sempre più simili tra loro e sempre meno radicate nel proprio passato. Questa forma culturale (?) naturalmente necessita di forza lavoro, di natalità. Perciò necessita di immigrazione.
L' integrazione che viene richiesta all' immigrato straniero non è quella relativa all' integrazione in un ethnos, in un complesso socioculturale, ma è quella relativa all' ingresso in quanto meccanismo in un sistema economico. All' immigrato non si chiede una conversione religiosa o comunque una adesione a dei principi fondanti, bensì il rispetto di indirizzi funzionali al meccanismo economico: laicismo, educazione civica, devirilizzazione, modernismo.
La sensazione è che si chieda all' immigrato l' adesione a uno stile di vita occidentale, che è poi lo stile di vita della modernità mercantilistica, che è poi la stessa che ha agito come strumento genocidiario delle popolazioni native.
Non si possono non vedere diverse contraddizioni. Il tema è sempre lo stesso. Non esiste la possibilità di difesa di una cultura nativa laddove non sopravvive una cultura nativa.
Tecnicamente, le leggi sul rimpatrio degli illegali già esistono. Ma non sono applicabili per via dei mancati accordi con i paesi d'origine, in ragione dei costi e anche per via delle pressioni industriali. Il problema principale viene ancora ignorato. E il problema principale è il mancato sforzo di ricostruzione e ricomposizione delle comunità locali. Dal punto di vista dei nativi di centocinquant'anni fa, verosimilmente molti immigrati odierni, almeno non quelli schiavizzati dal consumo acritico, apparirebbero antropologicamente più simili e affini rispetto agli uomini figli della società capitalistica contemporanea.
Per questo un grande vecchio della destra radicale ha fatto sapere, sotto voce, che il tema della remigrazione è tutto sommato 'aria fritta', utile solo alla ricomposizione identitaria di un ambiente allo sbando, diviso su tutto.

