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Kosovo, l'ultimo miracolo della Nato (prima parte)

di Diana Johnstone - 19/03/2008





 

Dovremmo credere nel Migliore dei Mondi Possibili! La macchina della propaganda occidentale ha girato a pieno ritmo per celebrare l'ultimo miracolo della Nato: la trasformazione del “Kosovo” serbo in “Kosova” albanese. Attraverso la potenza mediatica, il fatto che gli Stati Uniti si siano impadroniti senza vergogna alcuna di un territorio altrui di grande importanza strategica, per installarvi una gigantesca base militare (Camp Bondsteel), è stato trasformato in una leggenda edificante di “liberazione nazionale”.

Per i pochi sfortunati che si sono resi consapevoli della verità – complicata – sul Kosovo, valgono le parole di Aldous Huxley, che sembrano confarsi meglio: “Tu conoscerai la verità e la verità ti renderà pazzo.”

A proposito del Kosovo, la verità rassomiglia a lettere scritte sulla sabbia mentre sta arrivando mugghiando lo tusnami della propaganda.

La verità è disponibile, per esempio in un articolo molto istruttivo di George Szamuely, pubblicato di recente in CounterPunch . Frammenti di verità sono rintracciabili a volte nei grandi mezzi di informazione, soprattutto nelle lettere dei lettori.

Ma, benché io sia priva di speranza su qualsiasi tentativo di opposizione contro questa marea propagandistica, nondimeno mi sia concesso di prendere in esame una sola goccia di questa irresistibile marea: un articolo di cronaca firmato da Roger Cohen, dal titolo “Un nuovo Stato in Europa”, pubblicato il giorno di San Valentino nell'International Herald Tribune. 

L'editoriale di Cohen è decisamente tipico del modo sfacciato con cui tratta di Milosevic, della Russia e dei Serbi. Cohen scrive: « Slobodan Milosevic, il dittatore scomparso, ha messo in movimento l'ondata nazionalista ed omicida della Serbia il 24 aprile 1987, quando si era recato in Kosovo per dichiarare che “gli antenati dei Serbi sarebbero stati umiliati” se i kosovari di etnia albanese avessero ottenuto partita vinta.» 

Io non so proprio dove Roger Cohen sia andato a pescare questa citazione, ma che non ha alcun riscontro nel discorso che Milosevic aveva pronunciato quel giorno in Kosovo. Ed è cosa sicura che Milosevic non si era recato in Kosovo per esporre proposizioni di questa fatta, ma al contrario per consultare i funzionari della locale Lega dei comunisti della città di Kosovo Polje sulle gravi problematiche economiche e sociali che investivano la provincia. Oltre alla povertà cronica della provincia, alla disoccupazione e alla deplorevole gestione dei fondi per lo sviluppo elargiti dal resto della Jugoslavia, il principale problema sociale consisteva nel permanente esodo dal Kosovo di abitanti serbi e montenegrini sotto la pressione dei kosovari di etnia albanese.

In quel periodo, di questo problema anche i principali mezzi di informazione occidentali erano costretti a prenderne atto.

Per esempio, ben prima, il 12 luglio 1982, Marvine Howe scriveva nel New York Times che i serbi abbandonavano il Kosovo a decine di migliaia sotto la spinta di discriminazioni ed intimidazioni da parte della maggioranza di etnia albanese: “ Un segretario dell'esecutivo del partito comunista del Kosovo, Beci Hoti, afferma che i nazionalisti albanesi hanno un piano di azione in due punti, primo, insediare quella che loro definiscono come una repubblica Albanese etnicamente pura, secondo, fondersi con l'Albania in modo da costituire la Grande Albania. Il signor Hoti, un Albanese, esprimeva inquietudini rispetto alle pressioni politiche che costringono i Serbi ad abbandonare il Kosovo: oggi, quello che importa di più è stabilire un clima di sicurezza e creare fiducia.”

E, sette mesi dopo la visita di Milosevic in Kosovo, a sua volta David Binder riferiva sul New York Times (1novembre 1987): “I kosovari di etnia albanese nell'ambito del governo hanno manipolato i fondi pubblici e le regolamentazioni per impossessarsi delle terre appartenenti ai Serbi. Monasteri slavo-ortodossi sono stati attaccati e sono state calpestate e stracciate le bandiere. Sono stati avvelenati pozzi e i raccolti sono stati incendiati. Ragazzi slavi sono stati pugnalati e alcuni giovani di etnia Albanese sono stati incoraggiati dai più vecchi a stuprare le ragazzine Serbe.

In un'intervista, uno dei nazionalisti più radicali fra i kosovari di etnia albanese ha dichiarato che il loro obiettivo è la costruzione di una 'Albania etnicamente pura, comprendente la Macedonia occidentale, il Montenegro meridionale, una parte della Serbia meridionale, il Kosovo e la stessa Albania'. 

Man mano che gli slavi se ne scappano per sfuggire alle violenze prolungate, il Kosovo va trasformandosi in quello che i nazionalisti di etnia albanese reclamano da tanti anni e, con una particolare insistenza, dopo i tumulti sanguinosi del 1981 scatenati dai kosovari albanesi a Pristina, una regione 'etnicamente pura' dal punto di vista albanese.” 

In effetti Pristina ha costituito il primo esempio di “purificazione etnica” nella Jugoslavia dopo la Seconda Guerra Mondiale. È per questa natura che l'evento ha preso posto nelle pagine del New York Times e di altri mezzi di informazione occidentali, e le vittime della “pulizia etnica” erano i serbi!

Il culto del “ricordo” è divenuto una religione del nostro tempo, ma certi ricordi sono da meno di altri. Negli anni Novanta, risultava evidente che il New York Times aveva dimenticato completamente ciò che era stato scritto nelle sue pagine sul Kosovo negli anni Ottanta. Perché? Forse perché, nel lasso di tempo, il blocco sovietico si era dissolto e l'unità di una Jugoslavia indipendente e non allineata non corrispondeva più agli interessi strategici degli Stati Uniti.

Ritorniamo alla presenza di Milosevic a Kosovo Polje, il 24 aprile 1987.

Avveniva un incidente, quando la polizia locale (sotto la direzione della Lega dei comunisti, dominata dagli Albanesi) attaccava i serbi che si erano riuniti per protestare contro l'assenza di protezione legale. È divenuta celebre la frase spontanea che Milosevic a questo riguardo aveva pronunciato: “Nessuno vi dovrà più colpire!”

Se Milosevic avesse avuto l'intenzione di comportarsi da “estremista nazionalista”, avrebbe potuto avvantaggiarsi dell'evento. Ma non si trovano tracce di queste intenzioni attribuite a Milosevic da parte di Cohen.

Nel suo discorso pronunciato in seguito ai delegati locali del partito – e che è disponibile pubblicamente – Milosevic alludeva a questo “increscioso incidente” e prometteva un'inchiesta. Quindi proseguiva, insistendo sul fatto che “noi non dovremmo permettere che le disgrazie della gente siano sfruttate da certi nazionalisti, che qualsiasi persona onesta è tenuta a combattere. Noi non dobbiamo dividere le persone in Serbi e in Albanesi, ma dovremmo piuttosto separare, da una parte, le persone ragionevoli che si battono per la fraternità, l'unità e la parità etnica e, da un'altra, i contro-rivoluzionari e i nazionalisti.”

Una volta ancora mi ritorna in mente Aldous Huxley : “I fatti non cessano di esistere perché li si ignora.”

Ma Huxley ha anche dichiarato : “Grande è la verità ma, da un punto di vista pratico, più grande ancora è il silenzio sulla verità. Semplicemente per il fatto di non menzionare certi argomenti (…), i propagandisti totalitari hanno influenzato l'opinione pubblica ben più efficacemente di come avrebbero potuto fare ricorrendo alle denunce le più eloquenti.”

Il 12 febbraio, a Ginevra, il Ministro russo per gli Affari Esteri, Sergueï Lavrov, ha tentato di trasmettere ai giornalisti le sue gravi preoccupazioni rispetto al modo in cui gli Stati Uniti hanno affrontato il problema del Kosovo: 

“Qui si sta parlando del sovvertimento all'incontrario di tutti i fondamenti e di tutti i principi del diritto internazionale che, in quanto pilastri dell'esistenza dell'Europa, sono stati ottenuti ed instaurati al prezzo di enormi fatiche e nel dolore, con tanti sacrifici e tanto sangue.

Nessuno è in grado di presentare piani precisi o di azione nel caso di una reazione a catena, quella di future dichiarazioni di indipendenza unilaterali. Stiamo verificando che gli Stati Uniti e i loro alleati nella Nato hanno l'intenzione di muoversi in una maniera disinvolta in una questione di importanza fondamentale. Tutto questo risulta semplicemente inammissibile ed irresponsabile. Sinceramente, non arrivo a comprendere i principi che guidano i nostri colleghi Americani e nemmeno quelli degli Europei che hanno adottato questa posizione”. 

Roger Cohen liquida queste considerazioni con qualche parola : “L'orso russo si sta agitando.”

E aggiunge: “La Russia sta lanciando alte grida. Ma ha puntato su un cavallo sbagliato.” Allora, non esistono questioni gravi, non esistono questioni di principio. Solamente “boatos” e la posta in palio.

Ancora, Cohen scrive: “ Milosevic ha gettato i dadi del nazionalismo che induce al genocidio ed ha perso!”. Questa affermazione non è solamente falsa, costituisce anche una metafora grottesca. Milosevic ha cercato di sopprimere un movimento secessionista armato (Uck), sostenuto segretamente e in modo efficace dalla vicina Albania, dagli Stati Uniti e dalla Germania, cosa che ha deliberatamente provocato per reazione l'assassinio, e dei Serbi, e degli Albanesi fedeli al governo. Sull'esempio degli Americani in analoghe circostanze, Milosevic ha troppo confidato sulla superiorità militare, trascurando le finezze diplomatiche. Comunque, lo stesso Tribunale Penale Internazionale dell'Aja per i crimini nella ex Jugoslavia, sponsorizzato dalla Nato, aveva dovuto abbandonare tutte le accuse di “genocidio” in Kosovo contro Milosevic, per la semplice ragione che non esiste l'ombra di una prova per suffragare questo genere di accuse.

Milosevic non è più di questo mondo e la Russia è tanto lontana. Ma che dire dei Serbi che vivono ancora nella parte storica della Serbia chiamata Kosovo? Cohen si fa carico di questo problema con poche parole: “Un buon numero dei 120.000 Serbi del Kosovo possono fare fagotto.”

Come faceva rimarcare Aldous Huxley, “lo scopo del propagandista è quello di fare dimenticare ad un gruppo di persone che altri gruppi di persone sono costituiti da esseri umani.”

E, dopo questo, andate voi a dire a quelli di fare fagotto!

Un caso “unico” 

La Russia ha messo in guardia contro il fatto che l'indipendenza del Kosovo avrebbe ingenerato un precedente pericoloso, e quindi un incoraggiamento per altre minoranze etniche a seguire l'esempio degli Albanesi e a reclamare la secessione e uno Stato Indipendente. Gli Stati Uniti hanno disprezzato queste preoccupazioni, affermando in maniera netta che il Kosovo costituisce un caso “unico”.

Ebbene sì, il Kosovo costituisce un caso unico, e persino è l'unico riconosciuto dagli Stati Uniti,…fino a quando si presenterà il prossimo “caso unico”. Dal momento in cui i criteri del diritto internazionale sono stati gettati nella spazzatura, ci si è dovuti confrontare solo con “casi unici”, uno dopo l'altro.

Questa “unicità” messa in evidenza dagli Stati Uniti non è nient'altro che una montatura propagandistica, che poggia sulla pretesa “unicità” della repressione da parte di Milosevic di un movimento secessionista armato, che, in effetti, non aveva assolutamente nulla di unico. Si trattava della procedura seguita abitualmente lungo tutto il corso della storia e in tutto il mondo, in tali circostanze. Deplorevole, certamente, ma assolutamente non unica. Comunque dalle caratteristiche nemmeno confrontabili rispetto alle operazioni contro-insurrezionali interminabili e molto più sanguinose messe in atto in Colombia, nello Sri Lanka o in Cecenia, per non parlare dell'Irlanda del Nord, della Tailandia o delle Filippine. E, al contrario delle operazioni anti-insurrezionali portate avanti in Iraq e in Afghanistan, che hanno procurato un numero incomparabilmente maggiore di morti civili, questa procedura veniva applicata da un governo nel pieno diritto, democraticamente eletto dal paese, e non da una potenza straniera.

Questo carattere “unico” è una astrazione propagandistica. Effettivamente il Kosovo è unico, come lo è qualsiasi posto al mondo. Ma per delle ragioni che non hanno nulla a che vedere con il pretesto avanzato dagli Americani, per impadronirsi del Kosovo e trasformarlo in un avamposto dell'Impero.

Per capire ciò che rende unico un posto, è necessario interessarsene.

Io non mi sono più recata in Kosovo dopo la guerra della Nato del 1999. In una certa occasione, nell'agosto 1997, ho percorso la provincia a mie spese, in una Skoda sgangherata, giusto per vedere. Percorrere il Kosovo in automobile poteva presentare qualche rischio, in parte a causa del grande numero di cani morti che ingombravano le strade, ma soprattutto per la indecente abitudine da parte dei conducenti locali di sorpassare i veicoli più lenti da ogni lato della strada, e in curva. Nel nord del Kosovo, proprio all'uscita dalla cittadina di Zubin Potok, questa mania si è concretizzata attraverso una delle sue inevitabili conseguenze: uno scontro frontale – con feriti gravi– che ha bloccato la strada a due corsie per delle ore, durante le quali le ambulanze e la polizia tentavano di porre rimedio alla situazione.

Nell'impossibilità di proseguire il mio viaggio verso Pristina, sono ritornata a Zubin Potok ed ammazzavo il tempo sulla terrazza ombreggiata di un ristorante ai bordi della strada. Ero la sola cliente e l'unico cameriere, un uomo giovane, alto ed elegante, che si chiamava Milomir, aveva accettato con piacere il mio invito a sedersi con me e a chiacchierare, mentre io sorseggiavo un bicchiere dopo l'altro di un delizioso succo di fragole.

Milomir era felice di scambiare due parole con qualcuno che conosceva bene la città francese di Metz, che aveva visitato quando era studente, e di cui si ricordava non senza commozione. Amava la lettura e viaggiare, ma, nel 1991, si era sposato e oramai aveva due figliolette da mantenere. Le prospettive di lavoro erano limitate, anche se era andato all'università, tanto che non aveva avuto altra scelta che quella di rimanere a Zubin Potok. Quanto all'Europa, anche se era arrivato ad ottenere un visto, (cosa impossibile per i Serbi), non poteva esprimersi in nessuna lingua dell'Occidente se non nella sua lingua madre, il serbo-croato. Aveva studiato il russo (amava la letteratura russa) e l'albanese come le sole lingue straniere. Aveva studiato l'albanese per essere in grado di comunicare con la maggior parte degli abitanti del Kosovo. Ma questa comunicazione risultava faticosa. Milomir era un grande sostenitore di una società bilingue e valutava con favore che tutta la gente del Kosovo dovesse apprendere sia il serbo che l'albanese, cosa che disgraziatamente non avveniva. Tutte le nuove generazioni di Albanesi si rifiutavano di imparare il serbo, preferendogli l'inglese.

La cittadina di Zubin Potok era situata nelle vicinanze della diga costruita sul fiume Ibar, alla fine degli anni Settanta, per ricavarne energia idro-elettrica. Io arrivavo da Novi Pazar e avevo costeggiato il lago artificiale creato dalla diga, e per 35 km avevo cercato invano un posto piacevole per fermarmi. Pensavo che avrebbero dovuto esserci dei villaggi lungo il fiume Ibar, prima della costruzione della diga, e quindi domandai a Milomir informazioni a questo riguardo. Sì, mi rispose, il lago artificiale aveva sommerso una ventina di vecchi villaggi, la cui popolazione era etnicamente mescolata, ma a maggioranza Serba. Le autorità comuniste albanesi di Pristina avevano reinsediato i Serbi, circa diecimila persone, al di fuori del Kosovo, attorno alla città di Kraljevo.

Si trattava solo di un piccolo esempio dei provvedimenti amministrativi assunti per ridurre la presenza della popolazione Serba durante il periodo precedente a Milosevic, quando gli Albanesi dirigevano la provincia attraverso il sotterfugio della locale Lega dei comunisti.

Milomir non si commiserava, ma rispondeva con grande semplicità alle mie domande. Lui non si recava troppo di frequente (prendendo l'autobus, dato che non possedeva una vettura) nella città importante più vicina, Mitrovica, per il timore di essere aggredito dagli Albanesi. Molto semplicemente, tutto questo faceva parte dell'esistenza, in un'epoca in cui, secondo i mezzi di informazione Occidentali, gli Albanesi del Kosovo erano terrorizzati dalla repressione dei Serbi.

Finché noi si chiacchierava, è spuntato un suo amico e la conversazione si era indirizzata sulla politica. Era in corso una campagna elettorale per la Presidenza. I due giovani desideravano conoscere quale fra i candidati reputassi migliore per la Serbia, agli occhi del mondo. Milomir era un estimatore di Vuk Draskovic e il suo amico per Vojislav Kostunica. Nessuno dei due avrebbe immaginato di votare per Milosevic o Seselj, il dirigente nazionalista del partito Radicale. (continua)

di Diana Johnstone - da www.michelcollon.info. Traduzione dal francese per Megachip di Curzio Bettio