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Il conflitto tra «natura» e «cultura» nel caso del ragazzo selvaggio dell'Aveyron

di Francesco Lamendola - 16/06/2008

Nel 1797, nel bosco di Laucane, nel Tarn, viene scorto un bambino di una decina d'anni, completamente nudo, selvaggio, che non si lascia avvicinare da alcuno. Catturato, riesce a fuggire e per quindici mesi continua ad aggirarsi nei boschi come un animale selvatico. Alla metà di  luglio del 1798, tre cacciatori lo scorgono su un albero e lo catturano nuovamente. Il ragazzino, incapace di articolare verbo, viene condotto in un villaggio della zona, ma una settimana dopo fugge per la seconda volta e riprende la via dei boschi. Anche stavolta la sua libertà si prolunga per quindici mesi, fino al 9 gennaio del 1800, allorché si lascia prendere senza opporre resistenza.

Trasportato, circa un mese dopo, presso l'ospedale di Rodez, viene esaminato dal naturalista Bonnaterre, che compila una relazione sul suo caso. Da essa risulta che il ragazzo mugola mentre mangia, si abbandona a collere improvvise, ama stare vicino al fuoco, si addormenta regolarmente al tramonto e si risveglia all'alba; tenta più volte di fuggire e non riconosce la propria immagine allo specchio. È a questo punto che il piccolo viene trasferito a Parigi, su interessamento del ministro dell'Interno, Champagny, e affidato all'Istituto per sordomuti.

Nella Francia dei "lumi", scoppia il caso del ragazzo selvaggio dell'Aveyron. La stampa se ne occupa a lungo, il pubblico ne discute animatamente, gli uomini di scienza cominciano a disputare attorno alla vicenda. Sembra un caso da manuale per poter osservare da vicino il rapporto tra la sfera della natura e quella della cultura, dopo che Rousseau ha aperto la strada al mito del "buon selvaggio" e sostenuto che l'essere umano è tanto più buono e felice, quanto più viene preservato dagli effetti corruttori della civiltà. I viaggi di Bougainville, La Pérouse ed altri esploratori hanno rafforzato il mito con i suadenti racconti relativi agli isolani dei Mari del Sud, che sembrano rievocare l'umanità felice dell'età dell'oro.

Ma il ragazzo dell'Aveyron non sembra affatto un essere felice, bensì una creatura misera, sudicia, repulsiva e, quel che è peggio, mentalmente ritardata, In effetti, la disputa che si accende tra filosofi e scienziati verte principalmente intorno alla questione se si tratti di un idiota cronico, di un minorato incapace di qualunque progresso, oppure di un essere sfortunato che la lunga solitudine e la mancanza di stimoli adeguati ha bloccato nel suo sviluppo normale, nel qual caso egli è forse suscettibile di un certo recupero.

Il più importante psichiatra dell'epoca, Philippe Pinel, formula una diagnosi di idiozia congenita. Ma un giovane studioso dell'Istituto per sordomuti, che sarebbe divenuto famoso proprio grazie a questo caso, Jean Itard, non ne è persuaso. Seguace delle dottrine di Condillac, egli ritiene che si possa rieducare il ragazzo insegnandogli ogni cosa in maniera graduale e facendo leva sul "risveglio" dei suoi cinque sensi, proprio come nel famoso apologo della statua cui vengono aperti gli occhi, dischiusi gli orecchi e il naso, e così via. Il caso del ragazzo selvaggio dell'Aveyron, in altre parole, gli si presenta come una eccezionale e, anzi, unica opportunità di verificare "sul campo" - come direbbero, oggi, gli etnologi - le teorie sull'apprendimento proprie di una ben precisa corrente filosofica, il sensismo.

Forte di questo retroterra culturale e animato da una tenacia a tutta prova, un acuto spirito di osservazione e uno spessore umano quale non si trova frequentemente fra gli uomini di scienza, Itard chiede e ottiene dal suo superiore, il direttore dell'Istituto R. I. Sicard., di potersi dedicare a questo caso a tempo pieno, assumendosi l'intera responsabilità dell'esperimento sul ragazzo.  Per  sei anni il giovane studioso si dedica interamente a Victor - come è stato chiamato il ragazzo selvaggio -, conducendo una serie di osservazioni e di esperimenti di psicologia dell'apprendimento, allo scopo di ridestare nell'uomo naturale che ha davanti a sé le normali funzioni dell'intelligenza e dell'affettività.

Itard possiede non solo la stoffa dello studioso di vaglia, ma anche una ricchezza umana fuori del comune; perciò quel lungo periodo di sforzi educativi va molto al di là di un "normale" studio o esperimento scientifico e somiglia piuttosto a un rapporto totale fra medico e paziente, che mette in gioco non solo alcuni aspetti della loro personalità, ma quest'ultima nella sua interezza. Ne ha tratto ispirazione il regista François Truffaut per realizzare uno dei suoi film più belli, L'enfant sauvage, nel 1970, in cui egli stesso interpreta la parte del dottor Itard. La modernità e la spregiudicatezza delle idee psichiatriche di questi è accentuata da Truffaut che, allo scopo di farne un anti-Rousseau all'opera con un anti-Emilio, decide di non fargli seguire Victor fra le pareti dell'Istituto di Rue Sain-Jacques, ma in casa propria, in campagna, ove lo istruisce personalmente, con l'aiuto preziosa della sua governante.

In effetti, i progressi dell'ex ragazzo selvaggio si riveleranno estremamente modesti, rispetto alle speranze iniziali del suo mentore, anche se tutt'altro che disprezzabili in paragone alle sue condizioni iniziali.  Dopo un certo tempo, Victor ha imparato a vestirsi da solo, a tenersi pulito, ad apprezzare le diverse temperature dopo una serie di bagni caldi e freddi, ad apparecchiare la tavola con il piatto e le stoviglie; ma non riesce in alcun modo a parlare, non sa esprimere i suoi desideri, e non mostra alcun particolare attaccamento per le persone che lo accudiscono. A un certo punto, le sue capacità di apprendimento paiono arrestarsi; in particolare, Itard non sarebbe mai riuscito - nonostante la sagacia dei metodi escogitati e l'ammirevole pazienza dimostrata - a far compiere a Victor il passaggio logico decisivo: quello di esprimere con parole i propri bisogni, ad esempio pronunciando la parola "latte" per manifestare il desiderio di bere. Tutto quello che riesce ad ottenere è che Victor pronunci quella parola dopo che la scodella di latte gli viene porta, il che può  significare semplicemente che egli gradisce l'offerta della bevanda.

Victor sarebbe poi morto piuttosto giovane, nel 1828 (dunque, all'età presunta di quant'anni), senza aver fatto ulteriori progressi, dopo aver lasciato l'Istituto per sordomuti per andare a vivere presso la sua vecchia governante. Itard stende due relazioni sul suo lungo esperimento pedagogico e psichiatrico: una nel 1801, l'altra nel 1806, entrambe ammirevoli non solo per la cura con cui vi riporta le sue osservazioni, ma anche per la solidità dello spessore culturale ad esse sotteso e per la profondità e la coerenza delle sue convinzioni.

Entrambe sono riportate nel libro di Lucien Malson I ragazzi selvaggi (titolo originale: Les enfants sauvages, 1974; traduzione italiana di Pier Vittorio Molinario, Rizzoli, Milano, 1971). Nella prima delle due, quella del 1801, egli, tra l'altro, scrive (pp. 125-133, passim):

 

Gettato su questa terra privo di forze fisiche e di idee innate, incapace di obbedire spontaneamente alle leggi costitutive dell'ordine organico che gli assegna il primo posto nel sistema degli esseri, l'uomo diventa capace di occupare la posizione eminente conferitagli dalla natura solo entrando a far parte della società; senza la civilizzazione, l'uomo sarebbe uno degli animali più deboli e meno intelligenti: questa verità è stata sovente enunciata, ma non ancora rigorosamente dimostrata. (…)

Le speranza più ardite e meno razionali avevano preceduto a Parigi il Selvaggio dell'Aveyron. Molti curiosi si divertivano a immaginare quale sarebbe stato il suo stupore alla vista di tutte le meraviglie della capitale. D'altra parte, molte persone, del resto stimabilissime per la loro sapienza, dimenticando che i nostri organi sono tanto meno flessibili e l'imitazione tanto più difficile quanto più l'uomo è allontanato dalla società in età precoce, stimavano che l'educazione di questo individuo sarebbe stata completata in qualche mese, e che ben presto egli avrebbe fornito le informazioni più interessanti sulla vita passata. Che cosa si vide invece? Un ragazzo di una sporcizia spaventosa, scosso da movimenti convulsi, spesso spasmodici, dondolantesi senza sosta come certi animali del giardino zoologico, pronto a mordere e a graffiare coloro che lo servivano, indifferente a tutto, totalmente privo di attenzione per tutte le cose che lo circondavano. È facile capire che un essere di questa natura non doveva attirare che un'attenzione momentanea. (…)

Citando (…) numerose storie, raccolte a Bicêtre, di bambini irrevocabilmente colpiti da idiozia, il cittadino Pinel stabilì, tra lo stato di questi disgraziati e quello del ragazzo in questione, i paralleli più rigorosi, che davano necessariamente come risultato la completa e perfetta identità tra quei giovani idioti e il Selvaggio dell'Aveyron. Quest'identità portava necessariamente a concludere che, colpito da una malattia considerata finora incurabile, il bambino non era suscettibile di sociabilità e di istruzione. (…)

Io non condividevo per nulla tale pessimistica opinione e, nonostante la verità del quadro e la giustezza de confronti indicati, osai concepire qualche speranza, che fondai sulla duplice considerazione della "causa" e della "curabilità" di questa idiozia apparente. (…)

Se si assegnasse questo problema di metafisica: «Determinare quali sarebbero il grado di intelligenza e la natura delle idee di un adolescente che, privato fin dalla prima infanzia di qualsiasi forma di educazione, abbia vissuto completamente separato dagli individui della sua specie», o io mi sbaglio grossolanamente o la soluzione del problema si ridurrebbe all'assegnare a questo individuo solo un'intelligenza relativa alla soddisfazione dell'esiguo numero dei suoi bisogni, e spoglia, per astrazione, di tutte le idee semplici e complesse che noi riceviamo attraverso l'educazione, e che si combinano nella nostra mente in infiniti modi grazie soltanto alla conoscenza dei segni. Ebbene, il quadro morale di questo adolescente sarebbe esattamente quello del Selvaggio dell'Aveyron, e la soluzione del problema proposto fornirebbe la misura e la causa dello stato intellettuale in cui egli si trova (…)

 

Itard prosegue indicando quali sono stati i suoi principali obiettivi educativi nel primo anno di lavoro con il piccolo Victor.

Il primo obiettivo è stato quello di fargli amare la vita sociale, rendendogliela più facile e più piacevole di quella che aveva condotto fino allora, e soprattutto più analoga alla passata vita nei boschi.

Il secondo obiettivo è stato quello di risvegliare la sua sensibilità nervosa, ricorrendo a degli stimoli il più possibile energici e, in certi casi, alle vive affezioni dello spirito.

Il terzo obiettivo è stato quello di allargare la sfera delle sue idee (nel senso che questa parola ha nelle filosofie empiriste, da Locke a Hume) e moltiplicando i suoi rapporti con gli altri esseri.

Il quarto obiettivo è stato quello di abituarlo all'uso della parola, facendo leva sulle necessità fisiche,  per ridestare in lui la facoltà del linguaggio (come si è accennato in precedenza).

Il quinto e ultimo obiettivo è stato quello di fargli esercitare, per qualche tempo, le più semplici operazioni mentali, sugli oggetti dei suoi bisogni fisici, per spostarne poi l'applicazione sugli oggetti necessari alla sua istruzione.

Al termine della relazione, Itard si mostra consapevole della notevole importanza del suo «esperimento» per le signficative implicazioni filosofiche di esso. In particolare, ribadisce la sua incondizionata fiducia nella concezione antropologica di Locke e Condillac, contraria all'esistenza di idee innate nell'essere umano. Una conclusione discutibile e, in ogni caso, viziata da una certa rigidità dottrinale: perché il caso di Victor - a nostro parere, e come altri analoghi - non  dimostra, di per sé, che le idee innate non esistono, ma solo che non possono svilupparsi in maniera adeguata se, nella prima infanzia, l'essere umano viene privato di tutti quegli stimoli appropriati a farle emergere, e che afferiscono unicamente alla sfera della vita sociale. In altri termini, il fatto che una prolungata siccità impedisca ai semi di germogliare non attesta l'inesistenza dei semi, quanto l'indispensabilità di talune circostanze accessorie - ad esempio, la caduta dell'acqua piovana - affinché i semi possano esprimere le loro potenzialità, germogliando e dando origine alla pianta. Eppure, a dispetto di questa rigida impalcatura ideologica, Itard è stato un educatore e uno psicologo attento, coscienzioso e totalmente votato al bene del suo pupillo.

Le conclusioni che egli trae dal primo anno di lavoro, sono le seguenti (Op. cit., pp. 176-178):

 

…Mi è parso che se ne possa dedurre:

1)      che l'uomo è inferiore a molti animali quando si trova nelle condizioni del puro «stato di natura»; stato questo di nullità e di barbarie, che si è, senza alcun fondamento, adornato di colori seducenti; stato nel quale l'individuo, privato delle facoltà caratteristiche della sua specie, conduce miserabilmente, senza intelligenza, quasi senza sentimenti, una vita precaria e ridotta alle sole funzioni animali;

2)      che questa superiorità spirituale, che si afferma essere naturale nell'uomo, non è che il risultato della civilizzazione., la quale lo eleva al di sopra degli animali attraverso l'azione di una possente forza motrice. Questa forza motrice è la sensibilità predominante della sua specie; proprietà essenziale, dalla quale derivano le facoltà imitative e quella tendenza continua che lo spinge a cercare nuove sensazioni in nuovi bisogni;

3)      che questa forza imitativa, destinata all'educazione degli organi, e soprattutto all'educazione della parola, molto potente e molto attiva nei primi anni di vita, s'indebolisce rapidamente col progredire dell'età, nella condizione di isolamento, per tutte quelle cause insomma che tendono a determinare una diminuzione della sensibilità nervosa; onde risulta che l'articolazione dei suoni, che è senza dubbio, di tutti gli effetti dell'imitazione, il più straordinario e il più utile, enormemente ostacolata da un'età che non sia più quella della prima infanzia;

4)       che esiste, tanto nel selvaggio più isolato, quanto nell'uomo che ha raggiunto il sommo grado di civilizzazione, un rapporto costante tra idee e bisogni; che la molteplicità sempre crescente di questi ultimi presso i popoli civilizzati, deve considerarsi un potente incentivo per lo sviluppo della mente umana: così che si può stabilire, come giudizio generale, che tutte le cause accidentali, locali o politiche, che tendono ad aumentare o a diminuire il numero dei nostri bisogni, contribuiscono necessariamente ad allargare o a restringere la sfera delle nostre conoscenze e il campo d'azione della scienza, delle elle arti e dell'industria sociale;

5)       che allo stato attuale delle nostre conoscenze in materia di fisiologia, il metodo didattico può e deve arricchirsi delle conoscenze mediche, per contribuire più efficacemente al perfezionamento della specie umana, individuando e valutando le anomalie organiche e psichiche di ciascun individuo, e determinando di conseguenza ciò che l'educazione deve fare per lui, ciò che la società può attendersi da questo individuo.

 

Una dura requisitoria contro il mito del "buon selvaggio", come si vede; e, al tempo stesso, un generoso atto di fede nella perfettibilità dell'essere umano, ma a condizioni ben precise. Se gli organi relativi alle funzioni sociali fondamentali, in particolare l'apprendimento del linguaggio, non vengono esercitati nella prima infanzia, si crea un handicap che non potrà mai più essere recuperato. Aggiungiamo tuttavia, per dovere di completezza, che le condizioni in cui Victor era stato consegnato alla "civiltà" erano tali, da non permettere di chiarire con sicurezza se egli non fosse stato abbandonato dai suoi genitori, nei primi anni di vita, proprio perché mentalmente ritardato; se così fosse, tutte le teorie di Itard cadrebbero nel vuoto.

D'altra parte, nel particolare clima culturale degli ideologues (i cui salotti parigini, proprio in quegli anni, frequentava anche il giovane Alessandro Manzoni), l'illuminismo si è fato più cauto e auto-critico, disposto a temperare certe asprezze dottrinarie della sua prima stagione e ad ammettere che la ragione, pur essendo la facoltà sovrana, non può pretendere di essere l'unico organo di conoscenza del mondo, ma deve riconoscere l'importanza della sfera del sentimento, dell'immaginazione, della sensibilità affettiva. E questo particolare clima, crediamo, fornisce a Itard quella speciale duttilità, quella capacità di valutare le sfumature, che le sue recise premesse filosofiche, a rigore, non ammetterebbero.

Egli, d'altronde, non è uno studioso così freddo e distaccato come vorrebbe apparire. È un uomo sensibile, ma dal carattere forte e, forse, autoritario; alcuni aspetti della sua pedagogia non possono non lasciare fortemente sconcertato il lettore dei nostri tempi: come quando riferisce, con la massima naturalezza, di aver simulato di voler gettare Victor dalla finestra, lasciandolo spenzolare nel vuoto con la metà del corpo, freddamente e al solo scopo di scoprire quale fosse l'origine delle vertigini, che il ragazzo manifestava in vicinanza dei luoghi sopraelevati; e di averlo ritirato da quella terrificante posizione solo dopo averlo visto pallido e coperto di sudore freddo. Episodio che va inserito nella cultura del tempo, quando il maestro aveva un potere assoluto sugli allievi, e il medico sui pazienti; e che - ad ogni modo -  non offusca la quotidiana dedizione con cui Itard si è prodigato per recuperare alla "normalità" il ragazzo, quando gran parte della scienza ufficiale aveva gettato la spugna nei suoi confronti e lo aveva giudicato irrecuperabile.

 

Uno storico della filosofia del valore di Sergio Moravia, che alla vicenda di Itard e di Victor ha dedicato il libro Il ragazzo selvaggio dell'Aveyroon. Pedaggia e psichiatria nei testi di J. Itard, P. Pinel e dell'Anonimo della «Décade», (Laterza, Bari, 1972), così sintetizza l'esperienza del giovane medico francese e la ricaduta scientifica e filosofica del suo lavoro e dei due memoriali da lui scritti per documentarlo (in S. Moravia, La scienza dell'uomo nel Settecento, Laterza, Bari, 1970: Ed. Il Giornale, 2008, pp. 114-115):

 

Il programma di lavoro che si proporrà Itard presupponeva manifestamente (anche se non ignorava i successi progressi della ricerca) la teoria della natura umana tracciata da quella filosofia sensista ed "ambientalistica" che aveva avuto i suoi padri in Condillac ed in Helétius. Il ragazzo dell'Aveyron appariva in pratica la tanta attesa incarnazione vivente della statua di cui aveva parlato il Traité des Sensations: una statua che occorreva, come aveva fatto Condillac, «risvegliare» e «riempire» di affetti e di idee. D'altronde questo orientamento non deve far credere che, tornando a Condillac, Itard torni anche a un'antropologia di tipo dualistico. Malgrado una certa tendenza a sottovalutare il physique, egli assume una prospettiva antropologica rigorosamente unitaria e terrena. Anche nella delineazione dei traguardi da raggiungere Itard mostra di essere tutt'altro che estraneo alle ricerche dei médecins-philosophes del tempo. Il primo traguardo da raggiungere consisterà, certo, nel reinserire entro la «vita sociale un individuo ch'era stato fin allora condizionato più che allevato dalla natura. Ma il secondo era quello, non lontano dalla fisiologia cabanisiana e dalle pratiche terapeutiche dello stesso Pinel, di riattivare la sensibilità  umana, risvegliandola «attraverso gli stimolanti più energici», e qualche volta anche «attraverso i vivi affetti dell'anima». Il terzo era ancora d'ascendenza lockiano-sensista-idéologique: «Estendere la sfera delle sue idee, suscitando in lui nuovi bisogni, e moltiplicando i suoi rapporti con gli esseri circostanti». Il quarto, forse il più ambito e il più ambizioso, era quello di condurre Victor all'uso della parola. L'ultimo consisteva nel riuscire a sviluppare alcune operazioni intellettuali dapprima sull'oggetto dei suoi bisogni fisici e poi su oggetti più astratti e lontani dalla sfera dell'istinto e dell'immediatezza.

Al di là dei risultati concreti raggiunti (abbastanza modesti, ma non cero irrilevanti),questo programma di lavoro si inseriva perfettamente nelle prospettive di ricerca teorico-sperimentale (si pensi al dibattito sull'homme naturel e al concorso sullo studio dello sviluppo  dei neonati) elaborate dalla Sociétés des Obestervateurs de l'homme. I punti di riferimento più diretti di Itard sono costituiti dal lavoro teorico-pratico dell'Obeservateur Sicard, dagli importanti studi dell'altro Observateur Degérando sugli strumenti di comunicazione umana, nonché dalle ricerche condotte dagli ideologues e obesrvateurs Destutt de Tracy, Cabanis, Garat, Laromiguière sulla struttura psicologica e la dinamica delle facoltà intellettive ed affettive dell'uomo.

A questo cospicuo bagaglio scientifico e culturale Itard aggiungerà di suo una vivissima capacità inventiva nei sempre difficili rapporti intersoggettivi col piccolo sauvage, nonché l'adozione di un cauto empirismi nell'adozione di determinati procedimenti di analisi e di didattica .Così, lungi dal voler applicare troppo affrettatamente e rigidamente i suoi schemi, Itard preferirà cominciare coll'osservare e coll'assecondare Victor. Vivrà accanto a lui dalla mattina alla sera, esaminandolo con discrezione, studiandone atteggiamenti  e reazioni, annotando infiniti tratti ed episodi che avrebbero potuto un giorno rivelarsi utili.

 

La memoria scientifica del 1806, intitolata Rapporto sui nuovi sviluppi di Victor dell'Aveyron, è stata diretta da Itard al Ministro dell'Interno e stampata nel 1807.

L'autore la divide in tre parti. Nella prima tratta dello sviluppo delle funzioni sensoriali, partendo dal senso dell'udito, per poi passare a quelli della vista, del tatto, del gusto e dell'odorato. Nella seconda, tratta del tentativo di sviluppare le funzioni intellettuali di Victor, in particolare il linguaggio (ma con scarso successo), la memoria, la nomenclatura delle principali parti del corpo. Un episodio toccante viene riferito da Itard in questa sezione, allorché narra come un giorno, scoraggiato per gli scarsi successi ottenuti e pensando che il destino del ragazzo sarebbe stato quello di finire in qualche istituto di carità, smarrendo le poche conquiste fatte, gli disse, guardandolo con commiserazione:  «Infelice». Sembrò che Victor comprendesse, se non le parole, il senso di quello sguardo e di quel tono di voce; perché subito cominciò ad ansimare affannosamente, sul suo volto si dipinse un'espressione desolata, e un fiume di lacrime eruppe improvvisamente dai suoi occhi.

Nella terza parte, infine, Itard parla dei metodi da lui adoperato per cercar di sviluppare le facoltà affettive del ragazzo.

Anche in questa sezione il lettore s'imbatte in un episodio commovente, che crediamo valga la pena di riportare, a conclusione di questo scritto (L. Malson, Op. cit., p. 219):

 

Pressappoco alla stessa epoca, il marito della signora Guérin [ossia la governante che si prendeva cura di lui] si ammalò e fu curato fuori dell'Istituto, senza che Victor ne fosse messo al corrente. Essendo una delle sue piccole occupazioni domestiche quella di apparecchiare  la tavola all'ora del pranzo, Victor continuò a disporre il coperto nel posto generalmente  occupato dal signor Guérin, e per quanto glielo si facesse ogni giorno togliere non mancava, l'indomani, di disporlo nuovamente. La malattia ebbe un esito infausto, ed il signor Guérin morì; ma anche quel giorno Victor apparecchiò al solito posto per la persona mancante. Si può immaginare l'effetto che fece sulla signora Guérin quell'attenzione per lei tanto dolorosa. Assistendo a questa scena di dolore, Victor capì di esserne stato la causa; e, sia che si limitasse a pensare di aver agito in modo scorretto, sia che penetrasse a fondo il motivo della disperazione della sua governante, egli sentì quanto fosse stata inutile e inopportuna l'attenzione che aveva preso; spontaneamente tolse il coperto, lo ripose tristemente nell'armadio, e non lo rimise mai più.