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Il «caso» Bonhoeffer alle origini della svolta antropologica nella teologia contemporanea

di Francesco Lamendola - 26/06/2008

9 aprile 1945: sono le ultime settimane di vita del Reich "millenario" di Adolf Hitler. Tra poco il dittatore finirà suicida nel bunker della Cancelleria di Berlino (questa, almeno, la versione accreditata dai vincitori e, poi, dagli storici) e la Germania sarà costretta a capitolare, a Reims, il 7 maggio, senza alcuna condizione. Tuttavia, prima di crollare, il totalitarismo nazista ha fatto in tempo a consumare la sua vendetta su uno dei suoi più convinti oppositori: il pastore e teologo protestante Dietrich Bonhoeffer.

Questi aveva partecipato attivamente alla resistenza, sia teorica che militare, contro il regime hitleriano e aveva approvato la teoria del tirannicidio. Nel 1943 era stato arrestato e imprigionato a Tegel (Berlino); trasportato, nel 1945, nel campo di concentramento di Buchenwald, era stato infine trasferito a Flossenburg, nell'Alto Palatinato; e quivi, dopo un processo sommario, era stato giustiziato mediante impiccagione, come dicemmo, il giorno 9 aprile. Ma, se la sua voce era stata messa a tacere per sempre, le sue parole avrebbero risuonato ancora a lungo, nel campo della teologia contemporanea; e proprio le sue memorabili frammenti dal carcere - scritti in una situazione analoga a quella del filosofo Severino Boezio allorché, nelle carceri di Teoderico, aveva composto il De consolatione philosophiae - avrebbero segnato un decisivo punto di svolta, nel pensiero teologico europeo e mondiale.

Bonhoeffer era giovane: aveva appena trentanove anni al momento della morte. Era nato a Breslavia nel 1906 ed era figlio di un illustre psichiatra, Karl Bonhoeffer (1868-1948), autore di importanti studi  sulle sindromi psicopatologiche nell'alcolismo e nelle depressioni, nonché  di una dottrina del "tipo esogeno di reazione" secondo la quale ogni noxa esogena (infettiva, tossica, traumatica o degenerativa) agisce sul cervello, causando un insieme di sintomi aspecifici, caratterizzati dal disturbo della coscienza: confusione, oniroidismo, stupore, coma. Era una famiglia particolarmente dotata sul piano intellettuale: il fratello minore di Dietrich, Karl Friedrich, sarebbe divenuto un chimico di valore, dimostrando - fra le altre cose - che l'idrogeno è una miscela di due forme diverse, l'ortoidrogeno e il paraidrogeno, e riuscendo a isolare quest'ultima.

Un'atra figura era destinata a svolgere un ruolo importante nella formazione culturale del giovane Dietrich nel corso degli studi universitari: quella dell'insigne teologo luterano Aldolf von Harnack (nato a Dorpat, in Livonia, nel 1851 e morto a Heidelberg nel 1930), docente a Lipsia, Marburgo e Berlino, e autore di un libro memorabile, quale L'essenza del cristianesimo, apparso nel 1900. Divenuto pastore protestante, dimostrando costantemente una spiccata sensibilità per i problemi sociali, Bonhoeffer aveva soggiornato all'estero, esercitando le funzioni di pastore nelle parrocchie evangeliche di Barcellona  e Londra, prima di conseguire la libera docenza presso l'Università di Berlino, nel 1931.

Ma, due anni dopo, Hitler era salito al potere e Bonhoeffer, insieme all'altro eminente teologo protestante, il calvinista Karl Barth, aveva aderito alla cosiddetta Chiesa confessante, di ispirazione antinazista e impegnata in una lotta esplicita contro la chiesa dei «cristiani tedeschi» che si era collocata su posizioni di sostegno aperto alla dittatura. Un itinerario opposto a quello compiuto da un altro notevole teologo tedesco, Friedrich Gogarten (1887-1967), che ci riserviamo di trattare in apposita sede, il quale, sia pure per un breve periodo e con riserva, si era avvicinato a movimento religioso nazionalista.

Prima che l'arresto ponesse fine alla sua attività pastorale e di ricerca, egli aveva pubblicato Sanctorum communio nel 1931, Atto ed essere nel 1937, Sequela nel 1938, senza aver potuto dare, però, una forma definitiva al suo pensiero.

Paradossalmente, ciò avvenne in carcere, dal quale riuscì a far giungere all'esterno, tramite l'amico E. Bethge, una serie di testi, di frammenti e di lettere che, a suo giudizio - e anche a giudizio dei posteri -, costituiscono il suo contributo più significativo ai problemi della teologia contemporanea. Da tali frammenti sono state ricavate le seguenti opere postume: Etica (1949), Tentazione (1953); Il mondo maggiorenne (1955-66).  I frammenti inviati all'amico Bethge, le lettere ai genitori e alcune poesie sono confluiti nel volume Resistenza e resa (1951).

Le opere complete di Dietrich Bonhoeffer, Gesammelte Schriften,i n quattro volumi, sono state pubblicate fra il 1958 e il 1961.

 

Scrive il teologo Germano Pattaro nel suo volume postumo La svolta antropologica (Edizioni Dehoniane, Bologna, 1991, pp.  36-40):

 

Presentiamo qui solo l'essenziale della riflessione e della problematica di D. Bonhoeffer, anche se, essendo egli il punto referente costante del contenzioso teologico che si è iniziato con lui, chiederebbe una presentazione più vasta e articolata. Per tre ragioni. La prima è data dal fatto che il suo pensiero sarà svolto con ampiezza da J. Moltmann, che ne ricostruisce l'itinerario riprendendolo nel contesto della "teologia della speranza".  La seconda dipende dal continuo ricorso a lui da parte di pressoché tutti gli autori che con diverse sottolineature lo ricuperano, approfondendolo, ciascuno dal suo punto di vista. La terza è giustificata dal concentrare il tutto sulla sua intuizione esposta nelle Lettere dal carcere che costituiscono il dossier tematico della "svolta antropologica", così come essa è andata svolgendosi nella teologia a lui successiva.

Il punto di partenza è l'esperienza riflessiva condotta da D. Bonhoeffer nelle lettere dal carcere, nel contesto del problema da lui abbozzato attorno al tema del "cristianesimo adulto". Egli non parla in maniera esplicita di "secolarizzazione". L'aveva già fatto nell'Etica. Si esprime con un linguaggio meno generale, ricorrendo ai concetti socio-descrittivi, quali: autonomia, mondanità, intramondanità. Essi risultano più specifici, perché esito di una diagnosi e di una presa di coscienza più articolata e puntuale. La riflessione di Bonhoeffer, pur nella sua forza, non supera i limiti dell'intuizione, anche se in grado di abbozzare un programma di lavoro per la teologia. Le sue lettere, pur esigue e balbettanti, hanno costretto la teologia al problema, così che, a partire da esse, la "secolarizzazione" è diventata tema specifico  per la riflessione cristiana. Non tanto come u settore dell'etica che considera i rapporti tra fede ed esperienza storica, quanto come contesto d'obbligo, all'interno del quale l'universo della fede è provocato e messo in causa.  Bonhoeffer è debitore, nella sua riflessione, almeno indirettamente, della problematica già avviata da E. Troeltsch. Questi aveva scelto la "secolarizzazione" come categoria culturale  in grado di spiegare il lento distacco polemico della società moderna dalle ipotesi religiose e istituzionali del cristianesimo.  A livello filosofico, teologico, etico e giuridico. Con un accento positivo.

Troeltsch ritiene di poter affermare che questo distacco è dovuto, almeno inconsciamente, allo stesso cristianesimo. I padri della Riforma insegnano infatti  che il mondo, comunque sia la sua figura storica, sta sempre di fronte a Dio, al di qua di lui, non tanto e solo per la distanza metafisica che oppone l'uno all'altro, quanto per il "segno" del peccato che definisce l'uomo di fronte a Dio e lo pone sotto il suo giudizio. Il che significa che il mondo non può invocare nessuna benedizione sacralizzante né per la sua coscienza né per le sue istituzioni. La salvezza, infatti, aperta da Dio a favore dell'uomo, mentre raggiunge l'uomo, lo incontra solo nell'economia della storia, alla quale egli è consegnato come uomo che è solamente uomo e, perché tale, finalmente uomo. Laico, quindi, di una laicità che dichiara l'ordine stesso della storia e la svolta secolare in maniera positiva.-

La presa di coscienza di questa laicità è, appunto, il passaggio a una condizione definita da Bonhoeffer "adulta". Con una doppia implicanza. La prima considera il distacco della società contemporanea dall'universo religioso come un processo positivo, nel senso che l'uomo ha preso seriamente in considerazione la propria responsabilità, assumendone pienamente gli obblighi e i progetti: in linea con quelle espressioni, le qual affermano che l'uomo secolarizzato è l'uomo che ha scelto come progetto di vita  la "causa" dell'uomo.  La seconda considera l'attitudine del cristiano rispetto all'uomo della "secolarizzazione" e lo invita ad essere egli pure "adulto", nel senso che, nell'affrontare gli obblighi del suo impegno storico-sociale egli non può contare su di un Dio "sostitutivo" e quindi "esonerante". Dio gli fa credito della vita e non gl concede nessuno sconto - se così si può dire - su di essa. Il che significa che egli deve essere laico quanto il non credente  rispetto ad essa. In nome di Dio, s'intende, secondo l'esempio rigoroso dell'incarnazione. In termini di domanda: «Come parliamo in maniera mondana di Dio (forre non si può più parlare come una volta); come facciamo ad essere cristiani non religiosi-mondani, ad essere ecclesia, chiamati, senza per questo considerarci religiosamente privilegiati, ma piuttosto facenti in tutto e per tutto parte del mondo?». Oppure, parafrasando l'insignificanza della "circoncisione" per la salvezza: «La religione è condizione della salvezza?». E in termini più pregnanti: «Con Dio e davanti a Dio noi dobbiamo vivere senza Dio».

Bonhoeffer si mette consapevolmente all'interno della contraddizione tra Dio e il mondo, resa drammaticamente irrisolvibile da K. Barth. Ma con un'inversione di giudizio. Barth, portando la sola fides alle estreme conseguenze, contesta radicalmente il mondo in nome di Dio e lo dichiara zona negativa e incompatibile della storia Bonhoeffer entra, invece, nel coraggio estremo e mette sotto giudizio Dio a partire dalla storia. L'accusa sale, dunque, dall'uomo. Non per un tradimento operato contro la Riforma. Bonhoeffer è e resta luterano rigoroso. Solo che, ala saldatura ontologica tra Dio e il mondo avanzata dalla tradizione cattolica e alla rottura altrettanto radicale della tradizione protestante, egli oppone la realtà del Dio crocifisso, che liquida sia la trascendenza che l'immanenza di Dio rispetto al mondo. In Cristo, Dio ha occupato il mondo e sulla croce egli si è instaurato al suo interno come Dio dell'assenza, del nascondimento, del sub contraria specie. Dall'uomo non salgono percorsi verso Dio, così che all'uomo non è dato di occuparsi di Dio, né in nome delle metafisiche né in nome di qualsiasi altra scienza dei comportamenti. Dio, invece, ha scelto di occuparsi dell'uomo, attraversando la distanza che lo separa da lui, fuori percorso e in evento. La croce è, appunto, un luogo inaudito, nel senso che non se ne può parlare, perché la parola dell'uomo è vuota di Dio. Sulla croce, Dio entra in questo vuoto e lo occupa per grazia, ma annullandosi, appunto, al suo interno, così da essere in sembianza reale di "non Dio".  Ciò significa che Dio ha preso possesso del mondo sulla misura del mondo e del suo "vuoto". In altri termini, Dio ha occupato tutto lo spazio storico dell'uomo senza minimizzarlo in alcun modo, così che è dato a Dio di essere dell'uomo ed è dato all'uomo di essere di Dio sempre e solo in condizione "mondana". Per questo Dumas ha potuto interpretare  il procedimento bonhoefferiano quale "unità polemica" opposta all'alternativa "dialettica" di Barth e di Bultmann. Egli ha inteso sottolineare il fatto che secondo Bonhoeffer non esiste alcun altro modo di intendere Dio che sulla croce di Cristo, perché a Dio è piaciuto manifestarsi  all'uomo nello scandalo della kenosis del Calvario. Per questo, anche se in maniera non omogenea al pensiero di Bonhoeffer, un altro autore, con una lettura di tipo marxista, ha potuto dir con esattezza che il pensiero di "secolarizzazione" invocato da Bonhoeffer, pone la sua teologia come un «sortire dalla chiesa verso il mondo. la "mondanità" è, dunque, la vera regola dell'essere cristiani nel mondo. Con una precisazione ulteriore, chiarissima in Bonhoeffer: l'«unità polemica» non è l'esito di un procedimento apologetico. Se così fosse, l'intera riflessione bonhoefferiana sarebbe inquinata dallo stesso sospetto che essa intende superare. È a questo livello, ci sembra, che Bonhoeffer nel carcere affronta con lucidità il tema della "religione", portando a termine la riflessione di Barth, considerata da Bonhoeffer non conclusa.  La religione è, appunto, tentativo apologetico non solo nei confronti dell'uomo, ma, e peggio, nei confronti di Dio a partire dall'uomo. L'apologia è un processo di manipolazione che scava nella zona ammalata dell'uomo per dichiararlo fallito, cogliendolo nelle frange della sua debolezza, così da ricuperare per lui un Dio della gratificazione e dell'esonero morale. E ancora: è processo di manipolazione di Dio, per la insopportabilità dello scandalo della croce, così che si vuol riportare Dio sul trono della potenza e dell'efficienza, in modo da poter disporre irriverentemente di Dio sempre e ancora come il "gratificante" e il "sostitutivo". Brutalmente: l'apologetica intenta un processo contro Dio e lo fa essere il ""tappabuchi" delle debolezze dell'uomo.

Il diventare "adulti" è, dunque, atto di onestà, nella quale è dato al cristiano di entrare in maniera, appunto, onesta nella logica delle fede. Questo, allora, il punto: come essere, in obbedienza a Dio, senza Dio in un mondo che lo ha lasciato alle spalle. Bisogna ricordare che il «senza Dio»di Bonhoeffer non ha nulla a che vedere con il «Dio è morto» della teologia radicale. Dio, per Bonhoeffer, è e resta il "vivente", ma che dall'extra nos della sua realtà , ha scelto di essere in e pro nobis, il Dio muto, laico, mondano e spento della croce. Perché egli è il vivente, può porsi come "perdente". La ragione va trovata nell'extra nos del suo essere Dio, così che l'extra indica, secondo la terminologia concettuale di Kierkegaard, filtrata da K. Barth, il "Totalmente Altro", così che "totalmente" è "altro" pure l'uomo di fronte a lui: il "Totalmente Altro" che diventa allora il "totalmente altro", che à l'uomo davanti a Dio. La serietà definitiva di Cristo, il Gesù di Nazaret alternativo dell'uomo e della storia. Senza cessare di essere il "vivente", perché mai niente e nessuno può mai violare l'intimità protetta della sua condizione extra, che resta pur sempre tale, anche nell'evento definitivo della croce. Al cristiano, perciò, è affidato l'obbligo di incontrare l'uomo nella fede, guidato solo dall'economia dell'«arcano». Bonhoeffer non è chiaro al riguardo, perché offre solo due accenni su questa indicazione di vita. Sufficienti, però, per una prospettiva intuitivamente pregnante. Il primo riprende il tema della "religione" e avverte che l'arcano deve proteggere dalla «profanazione i misteri della religione cristiana». Il "positivismo" barthiano è qui ammonito, perché trasforma la fede in una «legge della fede», così che la fede cessa di essere un «dono gratuito». Ciò significa che l'azione di Dio passa sempre attraverso il silenzio della croce, che è l'arcano in cui stare, quale segno della libertà di Dio di fronte al mondo. Libertà che è, appunto, grazia, nel senso che Dio decide la propria causa dentro e non altrove dal mondo, così che il mondo è il luogo unico dove la causa di Dio diventa "mondana". L'arcano è la "mondanità" come segno emergente di Dio per la salvezza. Il secondo indica la prospettiva dell'arcano entro il tema che rapporta il mondo a Dio secondo la relazione escatologica di "penultimo" a "ultimo". Bonhoeffer intende riprendere un problema già affrontato nell'Etica e abbozzato, anche, in Sequela. Egli vuole dire che il cristiano è impegnato dalla fede a «essere con» e a «esserci per» gli altri. A perdere se stesso, cessando di essere il centro del proprio interesse. In questo modo il mondo, che è storia, è liberato nella direzione di Dio e attesta che il regno di Dio è già presente. Secondo la promessa concreta e mondana  dell'Antico Testamento, attestata e ultimata dall'azione e dalla predicazione di Gesù. Un tempo interamente da occupare da "uomo", come Gesù steso era "uomo" senza aggettivi sospetti, perché edificanti e, quindi, alienanti. L'arcano è l'operosità "mondana" scelta da Dio nel Crocifisso come stile del Regno in vista del compimento della sua promessa.

 

Al centro della "proposta" teologica di Dietrich Bonhoeffer vi è l'idea che, in un mondo "divenuto adulto", il Dio "tappabuchi" non può che essere rifiutato. Non è Dio ad essere morto, ma la sua presenza tra gli uomini, culminata nella sua impotenza e nella sua crocifissione. Ma è proprio l'assenza di Dio che stimola gli uomini a crescere, a farsi adulti: essi devono agire, davanti a Dio, come se Dio non ci fosse. In un certo senso, Egli vuol vedere come sapranno cavarsela senza la Sua presenza. Al tempo stesso, non bisogna pensare che Dio abbia abbandonato l'uomo a se stesso: egli vuole favorirne la crescita, rispettando sino in fondo la sua libertà.

Che cosa resta da fare, dunque, al cristiano, in questo mondo ormai divenuto "adulto" (Troeltsch avrebbe detto "secolarizzato"), se non amarlo ed essergli radicalmente fedele, nonostante tutte le sofferenze e le delusioni, nel segno dell'unico incontro possibile tra l'uomo e Dio, quello con il Cristo presente? Se Karl Barth aveva contrapposto la religione e la fede, giungendo all'inevitabile corollario della totale alterità di Dio, per Bonhoffer il cristiano deve accettare il mondo in tutti i suoi aspetti, senza illusioni e senza fare un ricorso strumentale a valori ultramondani.

Di fronte alla sfida del male, tutti i principi etici e razionali rivelano la propria impotenza: l'unica possibilità di resistenza  sta nella fede, nel vincolo esclusivo con Dio, che dà la forza per attuare il sacrificio di sé, in un'azione al tempo stesso obbediente e responsabile.

Proprio nei frammenti scritti un solo anno prima della morte, il 30 aprile e il 5 maggio 1944, Bonhoeffer ribadisce il concetto che solo mediante la "disciplina dell'arcano" è possibile, per il cristiano, coniugare i due supremi valori della "fedeltà alla terra" e della obbedienza incondizionata a Dio, e custodire il mistero nella relazione dialettica fra l'ultimo e il penultimo, ossia fra Dio e il mondo.

 

Enorme, come si è accennato all'inizio, è stato l'influsso del pensiero di Dietrich Bonhoeffer sulla teologia contemporanea, tanto che sarebbe impossibile seguirne gli indirizzi più recenti senza tener conto di quel punto di svolta.

La limpida coerenza intellettuale e morale, il coraggio civile mostrato dal giovane teologo luterano in un contesto storico eccezionalmente difficile, la simpatia che emana da tutta la sua luminosa personalità, non dovrebbero - tuttavia - farci velo ad alcuni aspetti del suo pensiero che appaiono, nella loro essenza o nei loro possibili sviluppi, quanto meno azzardati.

Per Bonhoeffer, la lettura dei concetti biblici deve farsi "non religiosa": secondo lui, Bultmann non è stato abbastanza radicale nella sua critica del mito (cfr. F. Lamendola, Rudolf Bultamm, la religione e l'immagine mitica del mondo). L'interpretazione mondana dei concetti biblici culmina nell'affermazione che, se essere cristiani significa "essere gli altri", allora è cristiano chiunque combatte per la giustizia e a favore degli oppressi.

Osserva giustamente Giovanni Baravalle che, con tali premesse, il cristianesimo si riduce a filantropia, diventa morale e politica, impegno storico per rendere migliori gli uomini, ma non ha più nulla di specifico da offrire all'uomo. Bonhoeffer vuole proporre una religione fondata sulla solidarietà umana, ma è proprio questa proposta a costituire il punto discutibile della sua visione teologica.

Di fatto, osserviamo noi, il concetto della radicale "fedeltà alla terra" da parte dell'uomo (un retaggio nietzschiano)  porta Bonhoeffer a sostenere che, se l'uomo fatto "adulto" non ha più bisogno di Dio, ciò avviene perché egli sa che tutto va esattamente tanto bene (o tanto male) quanto prima; e, dunque, a dichiarare finita per sempre la dimensione del sacro. Ora, può sopravvivere una religione non solo a un'opera di radicale demitizzazione (Bultmann), ma anche di radicale desacralizzazione? Per Bonhoeffer, sì, almeno per quanto riguarda il cristianesimo: perché il Dio che accetta di rimanere in questa età atea è proprio il Dio cristiano che ha rinunciato alla propria divinità, facendosi uomo in Cristo.

A noi pare, tuttavia, che qui vi sua un grosso equivoco teologico, nel quale Bonhoeffer è incorso. Il Dio cristiano non è solo il Dio che, facendosi uomo e morendo sulla croce, si è spogliato della propria umanità, ma anche e soprattutto il Dio che, nella resurrezione, trionfa sulla morte in virtù della propria infinita trascendenza, e, dunque, riscatta la storia a partire da una prospettiva meta-storica (la parusia).

Ci sembra, pertanto, che Bonhoeffer sia stato un po' troppo sbrigativo nel porre l'evento dell'incarnazione come la prova di una rinuncia di Dio ad essere Dio. È, questa, una forma di neo-arianesimo e di neo-pelagianesimo: di neo-arianesimo, perché la dimensione divina di Cristo sembra andare completamente perduta; di neo-pelagianesimo, perché si sottintende che l'uomo, con l'obbedienza a Dio, può realizzare il bene senza l'ausilio della Grazia. Si dissolvono, così, i due elementi specifici del cristianesimo (come religione e non come sistema di etica): la radicale trascendenza di Dio rispetto al mondo, e l'altrettanto radicale chiamata del mondo a Dio, per mezzo del trinomio inscindibile dell'incarnazione, morte e resurrezione di Cristo.

«Il problema che non lascia mai tranquillo è quello di sapere che cosa sia per noi oggi il cristianesimo o anche chi sia Cristo», scriveva Bonhoeffer.

Non ci sembra che la teologia da lui delineata dia una chiara risposta in proposito. Il che, per un teologo cristiano - per quanto onesto e bene intenzionato - è, a dir poco, paradossale