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L’arma dei Masai contro l´Aids: le erbe magiche

di Alessandra Viola - 18/07/2008




In uno sperduto villaggio della Tanzania alcuni guaritori curano con foglie e radici E qualcuno giura di aver sconfitto anche il cancro. Adesso l´Italia studia quelle piante
Sotto esame 41 germogli e cortecce conservati da cinque "stregoni"
Il ministero degli Esteri ha allestito un laboratorio con l´aiuto del governo e l’università locale

NGARENANYKI (TANZANIA) Sembra un cellulare che trilla lontanissimo. Un suono familiare, eppure talmente incongruo nel cuore della Tanzania e di questa savana gialla e polverosa in cui rumoreggiano solo le capre, che pensi di essere colto da un´allucinazione. Intorno alla capanna alcuni ciuffi d´erba secca si piegano silenziosi nel vento caldo, e nell´aia persino i bambini sono ammutoliti dal tormento delle mosche. Eppure avvicinandoti all´abitazione giureresti che sia proprio un telefonino che squilla, anche se il suono artificiale si diffonde malamente nella stanza col pavimento di terra battuta in cui Elias sta ricevendo i suoi pazienti, seduto dietro a un tavolo ingombro di barattolini di plastica.
È venerdì, giornata di visita, e la stanza è stipata di gente. Sono donne, uomini, bambini, arrivati a piedi anche da molto lontano, malgrado tutti siano malati. Arusha, la terza città della Tanzania, poco più che qualche sbaffo d´asfalto costeggiato da edifici di cemento e pochi alberi, dista in auto oltre due ore. Ma qualcuno è arrivato anche da lì, come una donna con il suo bambino, entrambi sieropositivi. La fama di Elias, il guaritore più noto del villaggio di Ngarenanyki, uno dei traditional doctors che a partire dal 2002 sono stati ufficialmente riconosciuti dal governo della Tanzania e ammessi ad esercitare la loro professione alla luce del sole, è giunta fino in città. «Posso curare la malaria, il diabete, l´asma, il cancro e anche l´Aids», assicura in un dialetto swahili questo masai alto e dinoccolato. Vestito di stoffe colorate, le orecchie bucate e le guance scavate da due grandi cerchi che indicano la sua appartenenza alla tribù dei pastori, non ha esattamente l´aspetto di uno specialista dal quale andresti a farti curare il cancro, e forse nemmeno un raffreddore. Eppure ogni settimana decine di persone vanno a trovarlo per chiedergli aiuto, e tra loro anche alcuni occidentali.
Una terapia per il cancro e l´Aids a base di foglie, cortecce e radici? Tutto è talmente inconcepibile che quando Ze-Elias, come lo chiamano qui, estrae un cellulare ultrapiatto di ultima generazione, in realtà ci si stupisce appena. È la Tanzania: un paese in cui modernità e tradizione convivono nel rispetto reciproco, in cui 120 diverse tribù e una decina di religioni danno luogo a una pacifica repubblica presidenziale e in cui guaritori tradizionali e medicina moderna collaborano per migliorare il servizio sanitario nazionale, scambiandosi i pazienti per diagnosi e terapie. «Devo andare», si scusa Elias finita la telefonata, indicando un punto lontano, dietro al monte Meru. Oltre il suo dito, a una distanza moltiplicata da buche e fango, sassi e torrenti da passare al guado, avvolto da una foresta tropicale fresca e verdissima, c´è il villaggio di Ngongongare. Lì la cooperazione italiana ha costruito e attrezzato un laboratorio di ricerca, con tanto di stanze per i ricercatori e collegamenti wi-fi, coinvolgendo la comunità locale, le università e il governo della Tanzania. Obiettivo: catalogare e salvaguardare le piante usate dai guaritori tradizionali creando una piccola attività commerciale, un vivaio gestito dalle donne del villaggio in cui coltivare e vendere le piante che oggi i guaritori raccolgono in natura, percorrendo anche centinaia di chilometri. Elias è uno dei cinque esperti selezionati dal progetto finanziato dal nostro ministero degli Esteri e portato avanti congiuntamente da Cins (Cooperazione Italiana Nord Sud) e Aaf (Associazione Africa Futura). Insieme a lui ci sono Leizar, un altro masai, e tre donne: Mama Mathilia, Mama Lucy e Mama Fatume, nota agli ospedali di mezza Tanzania per la sua ricetta delle 41 piante capace, dicono, di curare l´Aids.
Nei verdi germogli del vivaio di Ngongongare infatti c´è molto più che un piccolo business di villaggio: c´è la potenziale soluzione dell´Africa ai suoi più gravi problemi. Perché i rimedi capaci di curare l´Aids o il cancro, se esistono, valgono cifre inestimabili. «Prima di vedere i test ero molto dubbioso sulle capacità di questi medici tradizionali e pensavo che le guarigioni fossero dovute a suggestione - afferma Josih Tayali medico e docente dell´università di Arusha coinvolto nel progetto - ma mi sono dovuto ricredere sia sulle loro capacità diagnostiche che su quelle curative: scelgono piante che contengono gli stessi principi attivi utilizzati in farmacologia, e anzi ne usano direi più di quanti ne conosciamo. Molti guaritori sono analfabeti, ma hanno nozioni approfondite di anatomia e fisiologia: conoscono gli organi e il loro funzionamento e sono in grado di diagnosticare anche malattie complesse, tra cui alcune forme di cancro. Ormai persino gli ospedali consigliano ai pazienti terminali di rivolgersi ai guaritori. È una pratica non ufficiale, ma molto diffusa».
Tayali sta studiando il caso di due sieropositivi che si sono rivolti a Mama Fatume poco dopo essersi ammalati di Aids. In 3 mesi il virus è regredito, il CD4 (un indicatore delle difese immunitarie) è salito da 400 a 750 e le persone stanno di nuovo bene. E se le 41 piante di Fatume (o le due di Elias, gli unici guaritori che si dicono in grado di curare l´Aids, mentre gli altri lamentano di non aver trovato la cura adatta) fossero davvero capaci di produrre dei risultati? «Se muoio porto la mia conoscenza con me - dice Mama Fatume - ma se la divulgo perdo il mio lavoro. Non so decidere cosa fare. Per ora ho scelto una via di mezzo: non ho consegnato le mie piante all´università di Dar Es Salaam, che me le chiede da molto tempo per analizzarle. Però le ho date agli italiani, che hanno firmato delle carte in cui dicono che se dalle mie piante si può ricavare una medicina io avrò molti soldi, nessuno potrà rubare la mia ricetta e potrò anche continuare a lavorare».
«Le 41 piante di Fatume ora sono in Italia - dice Paola Murri, coordinatrice del progetto - ma il nostro coinvolgimento non prevedeva fondi per questo tipo di analisi. Si cerca quindi una struttura che effettui gratuitamente i rilievi (lo hanno già fatto per altre piante il Cnr, l´università di Firenze e quella di Pavia, ndr), per poi lasciare in ogni caso al governo della Tanzania i benefici di ogni scoperta».
Per il progetto sono stati spesi oltre due milioni di euro. Fino a qualche tempo fa l´Occidente ricco, con una cifra del genere, finanziava una parte del suo senso di colpa, ma oggi le cose sono cambiate. Oggi, i risultati economici di una ricerca scientifica possono diventare un´opportunità per tutti.