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Le bugie di Israele

di Henry Siegman* - 02/02/2009




In Occidente quasi tutti i governi e i mass media hanno accettato una serie di affermazioni israeliane a giustificazione dell’attacco militare su Gaza: che Hamas ha più volte violato la tregua di sei mesi rispettata invece da Israele e poi ha rifiutato di prorogarla; che Israele quindi non aveva altra scelta se non distruggere la capacità di Hamas di lanciare missili su città israeliane; che Hamas è un’organizzazione di terroristi in una rete globale della Jihad; infine che Israele ha agito non solo per difendersi, ma piuttosto per conto delle democrazie occidentali nella lotta contro questa rete.

Per quanto mi consta, nessuno dei principali quotidiani, emittenti radio o canali televisivi Usa ha messo in dubbio tale versione dell’attacco a Gaza. Qualsiasi critica contro le azioni di Israele (e da parte dell’amministrazione Bush non ne è arrivata nessuna) si è piuttosto concentrata sullo stabilire se il massacro da parte delle Forze armate israeliane (Idf) sia stato proporzionato alla minaccia che si prefiggeva di contrastare, e se siano state prese misure adeguate a evitare morti fra i civili.

L’attività per la pace in Medio Oriente è rivestita da ingannevoli eufemismi, io invece vorrei dire senza giri di parole che tutte queste affermazioni sono bugie. Israele, non Hamas, ha violato il cessate il fuoco: Hamas si è impegnata a smettere di lanciare missili su Israele che in cambio avrebbe dovuto allentare la stretta su Gaza. In realtà durante la tregua essa è stata ancora inasprita. Ciò è confermato non solo da tutti gli osservatori neutrali internazionali e dalle ong in loco, ma anche dal Generale di Brigata Shmuel Zakai, già comandante della Gaza Division dell’Idf. In un’intervista ad Ha’aretz il 22 dicembre accusa il governo israeliano di aver commesso un “errore cruciale” durante il tahdiyeh, il periodo di relativa tregua per sei mesi, poiché “non ha sfruttato il momento di calma per migliorare, piuttosto che peggiorare drammaticamente, il dissesto economico dei palestinesi nella Striscia. . . Se si stabilisce un tahdiyeh, e la pressione economica sulla Striscia continua,” dice il Generale Zakai, “è chiaro che Hamas vorrà ottenere un tahdiyeh migliore, e che lo farà riprendendo il fuoco dei Qassam . . . non si può continuare a colpire, lasciando i Palestinesi a Gaza nelle difficoltà economiche in cui si trovano, e sperare che Hamas rimarrà inerte a guardare”.

La tregua, iniziata a giugno l’anno scorso con rinnovo previsto per dicembre, prevedeva che entrambe le parti si astenessero da azioni violente: Hamas doveva cessare gli attacchi missilistici ed evitare che altri gruppi, come la Jihad islamica, lanciassero razzi (anche le agenzie di intelligence israeliane hanno ammesso che ciò è stato fatto con sorprendente efficacia), mentre Israele doveva interrompere gli assassini mirati e le incursioni militari. Tale accordo è stato gravemente violato il 4 novembre, quando le forze armate israeliane sono entrate a Gaza uccidendo sei membri di Hamas. La risposta è stato il lancio di razzi Qassam e missili Grad. Ciononostante Hamas ha offerto di prorogare la tregua, solo a condizione che Israele sollevasse il blocco, proposta però rifiutata. Israele poteva adempiere al dovere di proteggere i propri cittadini accettando di allentare il blocco, ma non ci ha nemmeno provato. Non si può dire che Israele abbia attaccato per proteggere i propri cittadini dai razzi: voleva solo salvaguardare il proprio diritto a soffocare la popolazione di Gaza.

Tutti sembrano avere scordato che Hamas si era detta intenzionata a porre fine agli attacchi kamikaze e all’uso di razzi quando ha deciso di partecipare al processo politico palestinese, ed essenzialmente lo ha fatto per più di un anno. Bush ha elogiato pubblicamente questa presa di posizione come esempio di riuscita della sua campagna per la democrazia in Medio Oriente. (Di successi da citare non ne aveva altri). Dopo l’inattesa vittoria elettorale di Hamas, Israele e gli Usa hanno subito cercato di delegittimare il risultato e sposato la causa di Mahmoud Abbas, leader di Fatah, fino ad allora liquidato da Israele che lo definiva un ‘pollo spennato’, armando e addestrando le sue forze di sicurezza per rovesciare Hamas; quando Hamas ha cercato – brutalmente, bisogna ammetterlo – di ostacolare il tentativo violento di rovesciare l’esito delle prime elezioni democratiche nel Medio Oriente moderno, Israele e l’amministrazione Bush hanno imposto il blocco.

Israele tenta di negare questi dati incontrovertibili sostenendo che, col ritiro degli insediamenti israeliani di Gaza nel 2005, Ariel Sharon abbia dato ad Hamas la possibilità di ottenere la posizione di Stato autonomo, chance che ha rifiutato, trasformando invece Gaza in una rampa di lancio per missili da lanciare contro la popolazione civile israeliana. Si tratta di una doppia bugia. Prima di tutto, nonostante tutte le sue mancanze, Hamas ha portato Gaza a un livello di ordine e sicurezza sconosciuto negli ultimi anni, senza le ingenti somme di denaro versate all’Autorità Palestinese gestita da Fatah. Ha eliminato le bande violente e i signori della guerra che terrorizzavano Gaza sotto la guida di Fatah. I musulmani non praticanti, i cristiani e le altre minoranze hanno più libertà col governo di Hamas che non in Arabia Saudita, per esempio, o sotto molti altri regimi arabi.

La bugia più grossa è che il ritiro di Sharon da Gaza fosse da considerare un preludio a ulteriori ritiri e a un accordo di pace. Ecco come l’alto consulente di Sharon Dov Weisglass, che fu anche il principale negoziatore con gli americani, descrive il ritiro da Gaza, in un’intervista ad Ha’aretz nell’agosto del 2004:
Ciò che ho effettivamente concordato con gli Americani era che di parte degli insediamenti [ovvero i principali blocchi della Cisgiordania] non ci si sarebbe occupati per nulla, e che degli altri ci si sarebbe occupati quando i palestinesi fossero diventati finlandesi . . . Il significato [dell’accordo con gli Usa] è il congelamento del processo politico. Così facendo si impedisce la creazione di uno Stato palestinese e si blocca qualsiasi discussione riguardo a rifugiati, confini e Gerusalemme. L’intero pacchetto che si chiama Stato palestinese, con tutto quanto esso comporta, è stato di fatto depennato dall’ordine del giorno a tempo indeterminato. E tutto questo per autorità [del presidente Bush] e col beneplacito . . . e la ratifica di entrambe le Camere del Congresso.

Gli israeliani e gli americani pensano forse che i palestinesi non leggano i giornali israeliani, oppure che quando hanno visto ciò che avveniva in Cisgiordania non fossero in grado di capire da soli cosa intendeva fare Sharon?

Il governo di Israele vorrebbe far credere al mondo che Hamas abbia lanciato i suoi razzi Qassam perché è così che fanno i terroristi e Hamas è un generico gruppo di terroristi. In realtà, Hamas non è una “organizzazione del terrore” (la definizione preferita da Israele) più di quanto non lo fosse il movimento sionista durante la lotta per uno Stato ebraico. Alla fine degli anni trenta e quaranta, i partiti del movimento sionista si sono resi responsabili di atti terroristici per motivi strategici. Secondo Benny Morris, l’Irgun fu il primo a colpire i civili. In “Vittime” scrive che un’ondata di terrorismo arabo nel 1937 “scatenò una serie di bombardamenti da parte di Irgun contro folle e autobus arabi, portando il conflitto a un nuovo livello”. Inoltre l’autore documenta le atrocità commesse durante la Guerra del 1948-49 dall’Idf, ammettendo in un’intervista del 2004 pubblicata su Ha’aretz, che materiale pubblicato dal ministero della Difesa israeliano dimostra come “vi siano stati più massacri commessi da israeliani di quanto avessi pensato . . . Nei mesi di aprile-maggio 1948, unità di Haganah ricevettero ordini operativi espliciti di far sfollare gli abitanti, espellerli e distruggere i loro villaggi.” In tutta una serie di villaggi e città palestinesi, l’Idf organizzò esecuzioni di civili. Alla domanda di Ha’aretz se condannasse la pulizia etnica Morris ripose di no:

Uno Stato ebraico non sarebbe mai nato senza lo sfollamento di 700mila palestinesi, quindi era necessario farli sfollare. Non c’era altra scelta se non espellere quella popolazione. Era necessario bonificare l’hinterland e le zone di confine e bonificare le strade principali. Era necessario bonificare i villaggi da cui si sparava contro i nostri convogli e i nostri insediamenti.

In altre parole, quando gli ebrei prendono di mira civili innocenti e li uccidono per portare avanti la loro battaglia nazionale sono patrioti, quando lo fanno i loro avversari sono definiti terroristi.

È semplicistico definire Hamas una “organizzazione terroristica”. Si tratta di un movimento nazionalista religioso che ricorre al terrorismo, come faceva il movimento sionista durante la sua lotta per la creazione di uno Stato, credendo erroneamente che sia l’unico modo per porre fine a un’occupazione oppressiva e avere uno Stato palestinese. L’ideologia di Hamas ufficialmente prevede di costruirlo sulle rovine di Israele, ma non è questo che determina le attuali politiche di Hamas, come la stessa dichiarazione nella Carta dell’Olp non determinava le azioni di Fatah.

Queste non sono le conclusioni di un’apologia a favore di Hamas bensì i pareri dell’ex capo del Mossad e consigliere per la sicurezza nazionale di Sharon, Ephraim Halevy. La leadership di Hamas si è trasformata “sotto i nostri occhi”, ha scritto recentemente Halevy su Yedioth Ahronoth, ammettendo che “il suo obbiettivo ideologico non è raggiungibile e non lo sarà nel prossimo futuro.” L’organizzazione ormai è disposta ad accettare la creazione di uno Stato palestinese entro i confini temporanei stabiliti nel 1967. Halevy sottolinea che, sebbene Hamas non abbia detto quanto sarebbero stati “temporanei” tali confini, “sa che, dal momento in cui lo Stato palestinese fosse creato con la loro collaborazione, sarebbero obbligati a cambiare le regole del gioco: dovranno scegliere un percorso che potrebbe condurli molto lontano dagli obbiettivi ideologici originali.” In un precedente articolo, Halevy diceva anche quanto fosse assurdo collegare Hamas e Al-Qaeda.

Agli occhi di Al-Qaeda, i membri di Hamas sono considerati eretici, in quanto hanno espresso la volontà di partecipare, seppure indirettamente, ai processi negoziali o agli accordi con Israele. La dichiarazione del responsabile dell’ufficio politico di Hamas, Khaled Mashal, contraddice radicalmente l’impostazione di Al-Qaeda, fornendo a Israele una possibilità, forse storica, di trarne vantaggio per il meglio.

Allora come mai i leader israeliani sono così decisi a distruggere Hamas? Perché ritengono che la sua leadership, a differenza di quella di Fatah, non possa essere convinta con l’intimidazione ad accettare un accordo di pace che crei uno “Stato” palestinese costituito da entità territoriali scollegate su cui Israele manterrebbe un controllo permanente. Il controllo della Cisgiordania è stato l’obbiettivo imprescindibile dei leader militari, politici e dell’intelligence israeliana sin dalla fine della Guerra dei Sei Giorni**. Essi ritengono che Hamas non permetterebbe una simile divisione in cantoni della Palestina, indipendentemente dalla durata dell’occupazione. Forse si sbagliano su Abbas e le sue coorti ormai stagionate, ma hanno pienamente ragione riguardo ad Hamas.

Gli osservatori del Medio Oriente si chiedono se l’attacco di Israele contro Hamas riuscirà a distruggere l’organizzazione espellendola da Gaza. Si tratta di una questione irrilevante. Se il progetto di Israele è mantenere il controllo su un’eventuale futura entità palestinese, non troverà mai un partner palestinese, e anche se riuscisse a smantellare Hamas, col tempo il movimento sarebbe sostituito da un’opposizione molto più radicale.

Se Barack Obama sceglierà come inviato in Medio Oriente un veterano attaccato all’idea secondo cui gli estranei non dovrebbero presentare le proprie proposte per un accordo di pace giusto e duraturo, e meno che mai far pressione sulle parti affinché lo accettino, lasciando invece che siano queste ultime a risolvere le proprie divergenze, di sicuro si arriverà a una resistenza palestinese molto più estremista di Hamas – probabilmente alleata con Al-Qaeda. Per gli Usa, l’Europa e per quasi tutto il resto del mondo, questo sarebbe il peggiore esito possibile. Alcuni Israeliani, compresa la leadership degli insediamenti, ritengono forse che sarebbe loro utile in quanto darebbe al governo un pretesto urgente per tenersi stretta tutta la Palestina. Ma si tratta di un’illusione che porterebbe al collasso di Israele come Stato ebraico e democratico.

Anthony Cordesman, uno degli analisti più affidabili in materia di Medio Oriente, e amico di Israele, sostiene in un rapporto del 9 gennaio per il Center for Strategic and International Studies che i vantaggi tattici del proseguimento dell’operazione a Gaza sono inferiori al costo strategico – e probabilmente non superano alcun guadagno che Israele possa avere ottenuto nella guerra da attacchi selettivi a strutture chiave di Hamas. “Si può dire che Israele abbia avviato una escalation bellica senza un chiaro obbiettivo strategico, o almeno uno che possa credibilmente raggiungere?’ si chiede. ‘Israele finirà per rafforzare politicamente un nemico che ha sconfitto dal punto di vista tattico? Le azioni di Israele potrebbero nuocere gravemente alla posizione degli Usa nella regione, a qualsiasi speranza di pace, oltre che ad alcuni regimi arabi e voci moderate? Francamente finora pare che sia così”. Cordesman conclude che “qualunque leader può assumere una posizione dura e dire che i successi tattici costituiscono una vittoria significativa. Se Olmert, Livni e Barak sapranno rispondere solo questo, saranno da biasimare in quanto danneggeranno il loro paese e i loro amici”.

(Traduzione di Elena di Concilio, Traduttori per la Pace)

London Review of Books, 15 gennaio 2009
* direttore dell’Us Middle East Project a New York, è visiting research professor presso la Soas University a Londra. È stato direttore nazionale dell’American Jewish Congress e del Synagogue Council of America

** cfr. il mio pezzo su Lrb, 16 agosto 2007