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I paradigmi della scienza sono incommensurabili, poiché si basano su differenti concezioni del mondo

di Francesco Lamendola - 16/02/2009

 


L'immagine comunemente diffusa dello scienziato è quella di un individuo che, nel suo lavoro di ricerca, si fa guidare esclusivamente da argomenti di tipo razionale e non ammette nulla che non sia stato già rigorosamente provato e dimostrato dai suoi colleghi specialisti.
Si pensa, inoltre, che le argomentazioni in base alle quali un tale individuo si apre, talvolta, ad un cambiamento di paradigma - per esempio, nel caso dell'astronomia, passando dal sistema geocentrico a quello eliocentrico - siano sempre e solo di carattere rigorosamente logico e dimostrativo; in breve, che abbiano poco o punto a che fare con l'intuizione o, addirittura, con ragioni di carattere estetico.
Ebbene, entrambe le immagini dello scienziato sono convenzionali, artificiali e, sostanzialmente, false.
Con grande orrore di certi divulgatori scientifici a un tanto il chilo, la struttura delle rivoluzioni scientifiche ricorda molto da vicino quella delle rivoluzioni religiose, nel senso che vi giocano una parte decisiva gli elementi della fede e della conversione.
È per fede che alcuni scienziati, in un momento di crisi di un determinato ambito scientifico, abbracciano un nuovo paradigma: non perché siano venuti subito in possesso di nuove e decisive prove a sostegno di esso. Al contrario, nella fase iniziale della nascita di un paradigma, le prove non ci sono affatto o sono molto labili e controverse: in ogni caso, non sono tali da soverchiare, in modo evidente, le prove tradizionalmente addotte dal paradigma precedente.
È stato merito del filosofo americano Thomas Kuhn (1922-96) mostrare in modo evidente questa semplice verità, che, tuttavia, nessuno aveva  osato esplicitare prima di lui.
Egli parte da una definizione di ciò che si suole definire «paradigma»: ossia, una soluzione esemplare di un problema, che viene appresa da chi entra nella comunità scientifica come elemento essenziale della sua formazione e come modello cui adattarsi incondizionatamente.
Ora, la «scienza normale» è contrassegnata dalla prevalenza di un certo paradigma, e, in essa, gli scienziati si applicano solo a ipotesi di lavoro che trovino i loro eventuali sbocchi all’interno del paradigma medesimo.
Tuttavia, a fasi ricorrenti, avviene che la scienza s’imbatte in anomalie che mettono in crisi il modello prevalente: gli scienziati, allora, cercano di ridimensionare il fenomeno anomalo, oppure di adattare il paradigma stesso mediante limitati aggiustamenti (vedi, nel caso del paradigma astronomico tolemaico, la teoria degli epicicli, per armonizzarlo con i dati di fatto acquisiti mediante l’osservazione).
La scoperta di nuove anomalie, d'altra parte, obbliga la comunità scientifica a moltiplicare le varianti teoriche per salvare il vecchio paradigma; ma, infine, giunge il momento in cui esso viene abbandonato da parti crescenti della comunità scientifica, che fondano un nuovo paradigma e che rifiutano ogni comunicazione con gli attardati sostenitori del «vecchio». 
La storia della scienza procede, così, «a salti» e, in essa, i nuovi paradigmi si pongono come incommensurabili rispetto ai precedenti, non solo sul piano dei contenuti concettuali, ma anche su quello del linguaggio, dei criteri di convalida, eccetera. In pratica, si tratta di nuove concezioni del mondo e di nuovi strumenti per studiarlo, che non hanno più elementi essenziali in comune con i vecchi; da qui, il loro carattere di rottura irreversibile rispetto al passato.


Scriveva Thomas Kuhn nel suo ormai classico libro «La struttura delle rivoluzioni scientifiche» (titolo originale: «The Structure of Scientific Revolutions», The University of Chicago, 192, 1970; traduzione italiana di Adriano Carugo, Torino, Einaudi, 1969, 1978, pp. 188-192):

«… Quando un nuovo candidato alla funzione di paradigma viene avanzato per la prima volta, esso è spesso riuscito a risolvere soltanto pochi dei problemi che gli stanno di fronte, e la maggior parte delle soluzioni sono ancora lontane dall'essere perfette. Fino a Keplero, la teoria copernicana aveva portato ben pochi miglioramenti alle previsioni sulla posizione dei pianeti fatte sulla base della teoria tolemaica. Quando Lavoisier  vide l'ossigeno come nient'altro che "l'aria stessa", la sua nuova teoria non poteva minimamente far fronte ai problemi  sollevati dalla proliferazione di nuovi gas, un punto questo sottolineato con forza e con successo da Priestley nel suo contrattacco. (…)
Di solito, gli oppositori di un paradigma nuovo possono dichiarare con ragione che persino nell'area della crisi esso è superiore soltanto di poco al suo rivale tradizionale. Naturalmente, esso permette di affrontare meglio certi problemi e mette in luce nuove regolarità. Ma si può presumere che il vecchio paradigma sia in grado di essere articolato per venire incontro a queste difficoltà, allo stesso modo che esso aveva affrontato altre difficoltà in un periodo precedente.  Sia il sistema astronomico geocentrico di Tycho Brahe  che le versioni più tarde della teoria del flogisto costituivano  tentativi di rispondere alla sfida lanciata da un nuovo candidato alla funzione di paradigma, e sia l'uno che le altre riportarono un successo soddisfacente. Inoltre, i sostenitori della teoria e dei procedimenti tradizionali possono quasi sempre richiamare l'attenzione sui problemi che il suo nuovo rivale non ha risolti ma che, dal loro punto di vista, non sono affatto problemi. Fino a che non venne scoperta la composizione dell'acqua, la combustione dell'idrogeno costituì una valida argomentazione  a favore della teoria del flogisto e contro quella di Lavoisier.  E dopo che la teoria dell'ossigeno si fu affermata, essa non riusciva a spiegare ancora la preparazione di un gas combustibile  a partire dal carbone, fenomeno questo  su cui i teorici del flogisto avevano posto l'accento, considerandolo un forte sostegno della loro concezione.  Persino entro l'area della crisi, le argomentazioni a favore e contro possono  talvolta quasi equilibrarsi. E al di fuori dell'area della crisi la bilancia pende quasi sempre a favore della tradizione. Copernico distrusse una secolare spiegazione del moto terrestre senza offrire nulla che la sostituisse; Newton fece lo stesso per una spiegazione più antica della gravità;  Lavoisier perle proprietà comuni dei metalli, e così via. In breve, se un nuovo candidato alla funzione di paradigma dovesse essere giudicato fin dall'inizio soltanto dal rigido punto di vista della sua relativa capacità nel risolvere problemi,  le scienze subirebbero un numero molto minore di rivoluzioni fondamentali.  E se a ciò si aggiungessero le controargomentazioni prodotte da quella  che abbiamo precedentemente chiamata la incommensurabilità dei paradigmi, , nelle scienze non avverrebbero rivoluzioni.
Ma nei dibattiti sui paradigmi non si discutono realmente le relative capacità  nel risolvere i problemi, sebbene, per buone ragioni, vengano adoperati di solito termini che vi si riferiscono. Il punto in discussione consiste invece nel decidere quale paradigma debba guidare la ricerca in futuro, su problemi molti dei quali nessuno dei due competitori può ancora pretendere di risolvere completamente.  Bisogna decidere tra forma alternative di fare attività scientifica e, date le circostanze, una tale decisione deve essere basata più sulle promesse future che sulle conquiste passate. Colui che abbraccia un nuovo paradigma fin dall'inizio, lo fa spesso a dispetto delle prove fornite dalla soluzione di problemi.. Egli deve, cioè, aver fiducia che il nuovo paradigma riuscirà in futuro a risolvere i molti vasti problemi che gli stanno davanti, , sapendo soltanto che il vecchio paradigma non è riuscito a risolverne alcuni. Una decisione di tal genere può essere presa soltanto sulla base della fede.
Questa è una delle ragioni per cui la crisi che precede si dimostra così importante. Gli scienziati che non ne hanno fatto esperienza difficilmente rinunceranno alla prova fornita dalla capacità di risolvere problemi, per seguire ciò che può dimostrarsi facilmente, e sarà largamente  considerato come un fuoco fatuo. Ma la crisi da sola non è sufficiente. Vi deve essere anche un qualche fondamento, sebbene non necessariamente razionale e neppure in ultima analisi  necessariamente corretto, che giustifichi la fiducia  nel particolare candidato scelto.  Vi deve essere qualcosa che dia, almeno a pochi scienziati, la sensazione che la nuova proposta è sulla strada giusta, e talvolta sono semplicemente considerazioni personali o considerazioni estetiche inarticolate che possono avere questo effetto. Considerazioni di questo genere hanno spesso convertito gli scienziati in momenti in cui la maggior parte delle argomentazioni tecniche articolate  indirizzavano su un'altra strada. Quando furono introdotte  per la prima volta, né la teoria astronomia copernicana  né la teoria della materia di De Briglie presentavano molti altri importanti motivi di attrazione. Persino oggi, la teoria generale di Einstein attrae gli scienziati principalmente per ragioni estetiche, un potere di attrazione questo che pochi, al di fuori del campo della matematica, sono riusciti a sentire.
Con questo non voglio suggerire l'idea che il nuovo paradigma alla fine trionfa attraverso qualche forma di estetica mistica. Al contrario, pochissimi abbandonano una tradizione soltanto per queste ragioni.  E a quelli che lo fanno capita spesso di trovarsi sulla strada sbagliata.  Ma perché un paradigma possa trionfare, deve conquistare prima alcuni sostenitori, che lo svilupperanno fino ad un punto in cui molte solide argomentazioni potranno venire prodotte e moltiplicate. Ma anche queste argomentazioni, quando ci sono, non sono individualmente decisive. Dal momento che gi scienziati sono uomini ragionevoli, l'una o l'altra argomentazione finisce per persuaderne molti.  Ma non v'è nessuna singola argomentazione che possa, o debba, persuaderli tutti. Ciò che si verifica non è tanto una unica conversione di gruppo, quanto un progressivo spostamento della distribuzione della fiducia degli specialisti.
All'inizio un nuovo candidato alla funzione di paradigma può avere pochi sostenitori, e in qualche occasione le motivazioni che stanno dietro ai sostenitori possono essere sospette. Tuttavia, se i sostenitori sono competenti, perfezioneranno il paradigma, ne esploreranno le possibilità e mostreranno che cosa significa appartenere alla comunità guidata da esso. Procedendo così le cose, se il paradigma p uno di quelli destinati ad imporsi, il numero e la forza delle argomentazioni a suo favore aumenteranno. Altri scienziati verranno converti, e così si intensificherà il lavoro di esplorazione  del nuovo paradigma. Gradualmente il numero degli esperimenti, degli strumenti,  degli articoli, dei libri basati sul nuovo paradigma si andrà moltiplicando. Un numero sempre maggiore di scienziati convinti della fecondità della nuova concezione, adotteranno il nuovo modo di praticare la scienza normale, finché alla fine restano soltanto pochi a resistere sulle vecchie posizioni. Ma neppure di costoro possiamo dire che sono alla parte dell'errore. Sebbene lo storico può sempre trovare uomini - Priestley, ad esempio - che furono irragionevoli a resistere tanto a lungo , non troverà un punto dove la resistenza diventa illogica o antiscientifica.  Al più, può affermare che colui che continua a resistere anche dopo che l'intera comunità di specialisti cui appartiene è stata convertita, ha cessato "ipso facto" di essere uno scienziato.»

Come si vede, è merito di Thomas Kuhn anche il fatto di aver evidenziato la dimensione soggettiva entro cui si svolge la «conversione» dal vecchio paradigma al nuovo, specialmente per i suoi primi sostenitori (per gli altri, la cosa è molto più facile e automatica, trattandosi solamente di accodarsi all'opinione della maggioranza: poiché, mano a mano che un nuovo paradigma si afferma, esso perde il suo carattere «rivoluzionario» e tende ad acquisire le caratteristiche tipiche della cosiddetta «scienza normale»).
Non solo.
La mancanza di prove convincenti e assolutamente incontrovertibili, nella fase iniziale di una rivoluzione scientifica, è - contrariamente a quel che generalmente si pensa - la vera ragione dell'opposizione che anima i seguaci del vecchio paradigma. Non si tratta di individui fanaticamente aggrappati a delle certezze illusorie, ma di scienziati seri e competenti i quali, prima di gettare via il vecchio, vogliono vedere se il nuovo, che viene loro proposto, presenti un sufficiente grado di plausibilità. E il banco di prova è vedere se esso sia in grado di risolvere più problemi di quanti non ne ponga a sua volta.
Ora, questa fu precisamente la situazione in cui vennero a trovarsi, inizialmente, tanto Copernico che Galilei, i quali non era in grado di esibire delle prove soddisfacenti a sostegno dell'ipotesi eliocentrica dell'universo.
Dunque, nella fase iniziale di una rivoluzione scientifica, i paladini del nuovo paradigma agiscono più per un atto di fede che per una convinzione razionalmente fondata; il che non significa che essi agiscano in modo irrazionale, ma piuttosto che si lasciano guidare da un'intuizione la quale comprende la razionalità, ma va oltre ad essa.
E viceversa, mano a mano che i seguaci del nuovo paradigma aumentano di numero e la loro proposta acquista prestigio, i sostenitori del vecchio finiscono per trovarsi nella posizione degli ultimi sacerdoti di una religione morente, alla quale non vogliono rinunciare perché la amano profondamente e perché non ritengono giusto inchinarsi alla nuova, dopo aver sempre onorato la tradizione.
Il fatto è che, una volta che il nuovo paradigma si è definitivamente stabilito, non esiste più alcuna possibilità di mediazione con il vecchio: si tratta di una lotta per la vita o per la morte, al termine della quale il vecchio paradigma dovrà rassegnarsi a scomparire per sempre, venendo relegato nel museo delle cose vecchie ed erronee. Due paradigmi non possono coesistere, così come non possono coesistere due religioni (se non in particolari forme di sincretismo che, comunque, richiedono un lavorio molto lungo e, in ogni caso, sotterraneo).
Naturalmente, l'idea che il vecchio paradigma sia falso è il frutto di una indebita semplificazione del problema: falso non era, in senso assoluto, visto che la scienza si è fondata a lungo su di esso, ha progredito ed è stata in grado di fornire una spiegazione soddisfacente del mondo. Sarebbe molto più esatto dire che esso è stato «falsificato», nel senso che dava Karl Popper a codesta espressione: ossia, che esso è stato dimostrato insoddisfacente rispetto a determinati problemi. Ma la storia della scienza mostra che elementi del vecchio paradigma possono dimostrarsi validi ancora a lungo, dopo che il nuovo si è affermato; e ciò a dispetto del fatto che la comunità scientifica, ormai convertita al nuovo credo, ostenti il massimo disprezzo per il vecchio paradigma in quanto tale.
In effetti, un paradigma non è semplicemente il frutto di una singola nuova ipotesi scientifica, per quanto possa essere di vasta portata, ma anche, al tempo stesso, la proposta di un nuovo metodo di lavoro: il che spiega perché il vecchio e il nuovo paradigma siano, di fatto, assolutamente irriducibili. Parlano due lingue diverse (nel senso letterale del termine), destinate a non intendersi mai.
Nessuna meraviglia, quindi, che i seguaci del nuovo paradigma non riconoscano legittimità scientifica agli ultimi seguaci del vecchio, così come un moderno astronomo non ammette alcuna contiguità con l'astrologia, né un moderno chimico riconosce volentieri il proprio debito con l'alchimia (se non in senso puramente storico).
Per i seguaci del nuovo paradigma, le idee su cui si fondava il vecchio sono degne di finire nel cestino della carta straccia: così la teoria del flogisto per la chimica, e così la teoria degli epicicli per l'astronomia. Anche qui, l'analogia con la dimensione religiosa è evidente. I seguaci del nuovo paradigma guardano con disprezzo al vecchio e non riconoscono alcun debito culturale nei suoi confronti; ma, naturalmente, ciò non è vero: e proprio quella rigida intransigenza, proprio quella furia iconoclasta, ne sono la spia significativa.
Tutto questo dovrebbe rendere molto cauti gli scienziati, sia nel rifiutare in modo aprioristico le proposte di nuovi paradigmi, sia nel concepire il proprio ambito di ricerca come un «continuum» più o meno graduale e irresistibile - una marcia verso il progresso, qualunque cosa significhi tale espressione; è vero piuttosto il contrario, e cioè che la scienza procede a bruschi balzi in avanti (o all'indietro?), da una discontinuità all'altra.
Un'altra conseguenza di quanto fin qui detto è che la scienza non può essere pensata separatamente dalla visione complessiva del mondo che essa implica: la scienza non è qualche cosa di rigorosamente «oggettivo», ma l'espressione di una data civiltà a un dato momento del suo sviluppo storico, e ne riflette idee e propensioni di natura spirituale, religiosa, etica ed estetica (se non anche politica: si pensi alla corrispondenza fra l'idea imperiale e il sistema geocentrico e fra l'idea democratica e la teoria fisica della pluralità dei mondi e delle dimensioni).
Pertanto, anche se non spetta agli scienziati fornire il quadro generale relativo alla visione del mondo di una data società, essi certamente vi contribuiscono in misura tanto più grande, quanto più la scienza - separata dalle altre dimensioni dello spirito - tende a prendere il sopravvento in ambito culturale e materiale, grazie al prestigio di cui gode e alla vistosità dei suoi risultati applicativi:  come è il caso del mondo moderno.
In ciò, tuttavia, è insito un pericolo: e cioè che la scienza, una volta qualificatasi come la forma del  sapere assoluto, tenda ad accreditare l'idea che solo le cose che essa può studiare e spiegare abbiamo rilevanza; mentre tutto il resto - ossia le realtà invisibili e immateriali - o non avrebbero significato pratico, o non esisterebbero addirittura.
Qui risiede il carattere doppiamente rivoluzionario del paradigma della modernità: per la prima volta nella storia, la scienza pretende non solo di riformarsi in modo radicale, espellendo da sé dei saperi secolari o millenari; ma pretende altresì di stabilire a priori che cosa sia rilevante e cosa non lo sia, dal punto di vista generale della visione del mondo.
Ciò significa andare verso la dittatura degli scienziati, perché da una tale impostazioni scaturisce, come inevitabile conseguenza, il loro potere di decidere, nella sfera della vita pratica, che cosa vada tutelato e cosa no, che cosa abbia valore e cosa no. Applicato all'ambito della salute e della malattia (anche in senso mentale) o, peggio ancora, all'ambito della eventuale decisione tra la vita e la morte di un paziente, questo principio può avere, evidentemente - e, di fatto, sta avendo - delle conseguenze aberranti.
In altre parole, gli scienziati non possono essere, al tempo steso, avvocati e anche giudici dei valori sui quali si regge la nostra vita; il loro ruolo dovrebbe essere quello dei consulenti, degli specialisti  cui la società domanda un parere tecnico in merito a determinati problemi; e null'altro.
Altrimenti, davanti all'arroganza di una scienza che si è insignorita delle funzioni direttive dell'intera società, ai cittadini non resta che fare propria l'esortazione dell'epistemologo Paul Feyerabend, cioè di coalizzarsi in una qualche forma di associazione che li tuteli contro la minaccia, potenziale ma anche effettiva, rappresentata da uno scientismo onnipotente e insindacabile, il cui controllo è completamente sfuggito di mano alla società stessa.