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Descrivere l'esperienza soggettiva in seconda persona: un metodo intervistico

di Claire Petitmengin - 03/07/2009

Descrivere l'esperienza soggettiva in seconda persona: un metodo intervistico per la scienza della coscienza

 

 

Riassunto: Questo articolo presenta un metodo intervistico che ci permette di portare una persona, che non necessariamente deve essere stata allenata, a divenire cosciente della propria esperienza soggettiva e di descriverla con grande precisione. Esso è focalizzato sulle difficoltà incontrate nel divenire consapevoli della propria esperienza soggettiva e sulla loro descrizione e sui processi usati in questa tecnica intervistica per superare ognuna di esse. L'articolo termina con una discussione sui criteri che governano la validità delle descrizioni ottenute e infine con una breve rassegna delle funzioni di queste descrizioni.

Parole chiave: esperienza soggettiva, esperienza ante-riflessa, coscienza, seconda persona, prima persona, metodo intervistico, fenomenologia

Introduzione: problema

Fino a poco tempo fa l'esperienza soggettiva era esclusa dal campo della ricerca scientifica: i dati erano considerati scientifici solo se erano riproducibili in modo identico e ottenuti da un osservatore neutrale e obiettivo esterno all'oggetto del suo studio. Questo era in particolare il credo della psicologia classica sperimentale, che è basata esclusivamente sui cosiddetti dati in "terza persona", cioè quelli raccolti da un osservatore esterno e da uno sperimentatore. Ma recentemente un piccolo e crescente gruppo di scienziati cognitivisti è giunto alla conclusione che al fine di studiare la cognizione non ci si può più limitare a dati che possono essere osservati e registrati da fuori, e che è essenziale prenderne in considerazione la dimensione soggettiva così come essa viene vissuta dall'interno [1]. La ragione di questo fatto è chiara: la descrizione di un processo cognitivo in prima persona, per esempio mentre il soggetto ne sta facendo esperienza, è di gran lunga più precisa e ricca di una descrizione indiretta. Ma curiosamente è stato, soprattutto, lo sviluppo delle tecniche di neuro-immagine cerebrale, sempre più sofisticate, a innescare questa realizzazione: questo perché i dati ottenuti con queste tecniche generalmente non possono essere interpretati senza una descrizione dell'esperienza soggettiva del soggetto la cui attività cerebrale viene registrata.
Questo iniziale riconoscimento - la necessità di tradurre in resoconti l'esperienza soggettiva studiata - è stato subito seguito da un altro: la descrizione della propria esperienza soggettiva non è un'attività banale, ma al contrario estremamente difficile. Perchè è così? Perché una parte sostanziale della nostra esperienza soggettiva si dispiega al di sotto della soglia di coscienza. Quanti di noi sarebbero in grado di descrivere precisamente la rapida successione delle operazioni mentali che avvengono nella memorizzazione di una lista di nomi o del contenuto di un articolo, per esempio? Non sappiamo come ci muoviamo nell'attività del memorizzare, o nell'osservare, immaginare, scrivere un test, risolvere un problema, relazionarsi alle altre persone... o persino nel mettere in atto una qualche azione pratica come preparare una tazza di tè. In generale sappiamo come eseguire queste azioni, ma abbiamo una coscienza piuttosto parziale di come lo facciamo. La nostra esperienza più immediata e più intima, quella che stiamo vivendo qui e ora, è anche la più sconosciuta e la più difficile ad essere penetrata. Indirizzare la nostra attenzione alla nostra esperienza cosciente, e a fortiori descriverla, richiede uno sforzo interiore, un tipo speciale di allenamento, un tipo speciale di competenza [2].
Una parte sempre più ampia della comunità scientifica è perciò giunta alla conclusione che è essenziale sviluppare rigorosi metodi che ci mettano nelle condizioni di studiare in modo molto preciso l'esperienza soggettiva, con l'obbiettivo di allenare i ricercatori e i soggetti studiati. Le tecniche buddiste di esplorazione dell'esperienza interiore, provate e raffinate lungo un arco di tempo di venticinque secoli da generazioni di meditanti, ci forniscono di percorsi e mezzi di inestimabile valore per la costruzione di questi metodi di investigazione. Ma padroneggiare le tecniche meditative richiede un allenamento intenso di molti anni. Per di più queste tecniche sono state concepite per permetterci di divenire consapevoli delle dimensioni più profonde della nostra esperienza soggettiva, ma non necessariamente di tutti i nostri processi cognitivi in tutte le loro dimensioni e dettagli. Infine, non sono state concepite per produrre una descrizione verbale dell'esperienza, la quale richiede un tipo veramente speciale di competenza. Per tutte queste ragioni, la partecipazione, di un meditante esperto, ai protocolli di raccolta dei dati in prima persona non è sempre possibile, o sufficiente.
Questo articolo propone e presenta un metodo d'intervista che ci consente di portare una persona, non necessariamente allenata, a divenire cosciente della sua esperienza soggettiva e di descriverla con grande precisione. Questo, perciò, è un metodo che consente la raccolta di dati in prima persona, per esempio dati che esprimono il punto di vista del soggetto stesso, nella forma grammaticale ‘io...'. Ma nel momento in cui questi dati vengono raccolti attraverso un'altra persona (un ‘tu'), è stato chiamato metodo in ‘seconda persona' (Varela & Shear, 1999b).
L'articolo si focalizza sulle difficoltà incontrate nel divenire consapevoli e nel descrivere l'esperienza soggettiva e sui processi attraverso i quali questa tecnica d'intervista tenta di superare questi ostacoli. Anche se queste difficoltà sono interconnesse e i processi attuati sono strettamente intrecciati, tenterò di evidenziarli individualmente con lo scopo di rendere più chiara questa complessa questione.
Concluderò l'articolo con una discussione dei criteri che supportano la validità delle descrizioni ottenute e con una breve rassegna delle funzioni di queste descrizioni.

Fonti del metodo e contesti d'uso

Questo articolo si sviluppa in modo tale da rimanere ancorato alla realtà: non intende essere una riflessione astratta sulle condizioni che governano la possibilità di una descrizione dell'esperienza soggettiva, ma piuttosto l'esposizione delle difficoltà pratiche incontrate nei nostri tentativi di esplicitazione, l'esperienza di relazionarsi all'esperienza vissuta propria di un soggetto. Questo obbiettivo mi porterà a riferirmi attraverso l'intero articolo a quei ricercatori che hanno studiato questo tipo di esperienza e hanno:

- fatto luce sulla dimensione ante-riflessa dell'esperienza soggettiva
- descritto gli atti interiori che ci consentono di divenire consapevoli e di descrivere questa esperienza
- sviluppato processi che possono aiutare un'altra persona ad attuare questi gesti nel corso di un'intervista
- forgiato termini per riferirsi in modo preciso a questi gesti: conversione, evocazione, riferimento diretto, posizione d'attenzione, posizione di parola, ecc.

Perciò, in questo testo evocherò la psico-fenomenologia husserliana, la teoria di Piaget del divenire consapevoli, le teorie della "memoria affettiva" (Ribot, Gusdorf), e il lavoro di James e Tichener. Farò riferimento alle pratiche di alcuni psicoterapeuti che hanno inventato atti linguistici che permettono ad altre persone di divenire consapevoli della loro esperienza vissuta e di descriverla (per esempio Carl Rogers o Milton Erikson). Descriverò alcuni processi del ‘Focusing', un metodo psicoterapeutico creato da Gendlin (1962/1997, 1996), il cui principio basilare è quello di far entrare il paziente in contatto con la dimensione dell'esperienza soggettiva sentita attraverso il corpo, o ‘sensazione significativa' [3]. Descriverò alcune tecniche di Neuro Programmazione Linguistica (NPL), che aiutano l'intervistato a scoprire i processi cognitivi interni o ‘strategie' da lui usati allo scopo di implementarli o di appropriarsene. Lungo tutto l'articolo mi avvicinerò spesso alle dettagliate analisi psico-fenomenologiche fatte da Vermersch (1994/2003) dei vari gesti che consentono di passare dalla coscienza ante-riflessa alla coscienza riflessa e al metodo da lui sviluppato, l'intervista d'esplicitazione [4], da cui derivano molti dei processi da me descritti.
Infine, mi riferirò alla pratica di Mindfulness (samatha-vipasyana), una gamma di tecniche meditative [5] derivate dal Buddismo Indiano che consentono all'inizio di stabilizzare l'attenzione e in un secondo momento di osservare il flusso d'esperienza allo scopo di ricavarne la struttura.
Ho controllato l'accuratezza delle descrizioni a cui mi riferisco e l'efficacia dei processi che descrivo in due modi: (1) per mezzo di me stessa, in prima persona, nella mia propria esperienza, che è, come potremo vedere, il criterio finale di validità per una descrizione [6] e (2) in seconda persona in vari contesti di ricerca e allenamento.
Il primo contesto è costituito da uno studio volto ad indagare l'esperienza soggettiva che accompagna l'apparire di un'intuizione, definito "conoscenza che appare senza l'intermediazione di meccanismi deduttivi o dei sensi usuali". Ho perciò ricavato una descrizione di una varietà di esperienze intuitive per mezzo di interviste. Quindi, dopo l'analisi e il confronto di queste descrizioni, sono stata in grado di fissare una successione molto dettagliata di stati e gesti interiori, che si è mostrata essere strettamente simile da un'esperienza all'altra e da un soggetto a un altro, in altre parole una struttura generale dell'esperienza intuitiva (Petitmengin-Peugeot, 1999; Petitmengin, 2001).
Ho in seguito usato queste tecniche in un progetto di ricerca ‘neurofenomemologica' sull'anticipazione delle crisi epilettiche (LeVan Quyen & Petitmengin, 2002; Petitmengin, 2005; petitmengin et al., 2006). Un gruppo guidato da Francisco Varela ha rilevato sottili cambiamenti nell'attività cerebrale pochi minuti prima dell'inizio di una crisi epilettica grazie a un'analisi elettroencefalografica non-lineare e a un'analisi sincronica (Le Van Quyen et al., 2001a, b; Marinerie et al., 1998). Il problema che mi è sorto è questo: queste modificazioni neuro-elettriche corrispondono a modificazioni dell'esperienza soggettiva dei soggetti epilettici e, se è così, a quali? Per tentare di rispondere a questa domanda, ho usato lo stesso metodo ‘in seconda persona' per ottenere dai pazienti epilettici una descrizione il più dettagliata possibile della loro esperienza ante-attacco con lo scopo di rilevare la struttura dinamica dell'esperienza e identificare qualche caratteristica regolare.
Infine ho applicato questo metodo d'intervista in un ambito d'insegnamento. Per quasi dieci anni ho allenato vari gruppi di studenti con una specializzazione di cinque anni dopo la laurea e in procinto di iniziare la loro vita professionale: futuri psicologi o managers nel campo del sapere. L'obiettivo è quello di mettere questi studenti nelle condizioni di prendere coscienza dei loro processi cognitivi e di esplicitarli così da essere in grado di usare questa tecnica nella loro pratica professionale.

Perché è così difficile divenire consapevoli della nostra esperienza soggettiva?

Dispersione dell'attenzione

La prima ragione per cui abbiamo difficoltà a divenire consapevoli della nostra esperienza soggettiva è legata al fatto che per noi è molto difficile stabilizzare la nostra attenzione. Questo può essere mostrato facilmente se tentiamo di focalizzare la nostra attenzione per esempio su un'immagine interna (io immagino una mela, un tulipano, un elefante, ecc.), o anche su un'immagine esterna (la mia penna, la pietra che uso come fermacarte). Dopo un periodo di tempo molto breve, pochi secondi, sorgono pensieri, per esempio ricordi legati all'immagine e all'oggetto che è il mio punto di partenza, commenti sull'esperienza vissuta o pensieri senza alcuna relazione con questa esperienza. Inoltre questi pensieri mi assorbono a tal punto che mi ci vuole un certo tempo (parecchi minuti in alcuni casi) prima di accorgermi che la mia attenzione si è allontanata dal suo punto di partenza e che mi sono lasciato ‘trasportare via'. E nel momento in cui me ne accorgo (se me ne accorgo), mi rendo conto anche che per tutto questo tempo non ero consapevole che la mia mente stava girovagando, che ero distratto ma non consapevole di esserlo [7]. Infatti durante l'attività dello scrivere in atto adesso, spesso ‘mi perdo' e realizzo presto o tardi che la mia mente era indaffarata in un'attività piuttosto differente dallo scrivere. Frequentemente mi ritrovo a riprendere a scrivere senza essermi accorta di essere stata momentaneamente distratta: in altre parole in nessun momento mi accorgo che la mia attenzione è stata distolta da ciò su cui avrebbe dovuta essere focalizzata. Questo significa che non abbiamo solo una grande difficoltà a stabilizzare la nostra attenzione ma anche che in generale non siamo consapevoli di questa difficoltà. Per diventare coscienti della natura estremamente fluttuante della nostra attenzione sono necessarie particolari circostanze o un allenamento appropriato.

Assorbimento nell'obiettivo

Il secondo motivo per cui abbiamo difficoltà nel raggiungere consapevolezza della nostra esperienza soggettiva è dovuto al fatto che anche nei momenti in cui la nostra attenzione è concentrata in una data attività siamo completamente assorbiti dall'obiettivo, dai risultati da raggiungere, dal ‘cosa' e non siamo consapevoli, se non in modo molto blando, del modo in cui tentiamo di raggiungere questo obiettivo, cioè il ‘come'. Per esempio, mentre sto scrivendo queste righe, sono completamente assorbita dal mio obiettivo, che è quello di esprimere una sequenza di idee in modo più chiaro e preciso possibile. Ma ho pochissima consapevolezza dei processi interni che mi permettono di raggiungere questo obiettivo. Per ottenere questa consapevolezza devo spostare la mia attenzione dall'obiettivo stesso verso i processi che mi mettono nelle condizioni di raggiungerlo. Per primo divento consapevole del contatto tra le mia dita e la penna, delle tensioni nella mia schiena, quindi di una rapida successione di immagini, giudizi e confronti, di sottili emozioni, ecc., che nell'insieme costituiscono la mia attività dello scrivere e che normalmente rimangono nascoste perché la mia attenzione è assorbita dall'obiettivo da raggiungere. Allo stesso tempo mi accorgo che pochi istanti prima non ero consapevole del modo in cui scrivevo, che una parte significativa della mia attività mi sfuggiva. Però ero consapevole di star scrivendo, ma ‘in azione' [8], in un modo ‘non riflesso, ‘ante-riflesso' [9], o ‘diretto'.
Questa strana caratteristica sembra una costante in tutti i nostri processi cognitivi: nell'attività del leggere, dello scrivere, immaginare, calcolare, osservare, ascoltare, ecc., facciamo uso di processi precisi, ma che in gran parte eludono la nostra coscienza. Questa natura ante-riflessa non necessariamente riduce la loro efficacia: come ha mostrato Piaget, non abbiamo bisogno di sapere come espletiamo un'azione fisica o mentale affinché questa abbia successo: le nostre abilità cognitive sono ‘piuttosto efficaci, anche se non siamo consapevoli di esse' (Piaget, 1974a, p. 275). La profondità di questa parte ante-riflessa e implicita sembra essere proporzionale al livello di abilità raggiunto (Dreyfus, 1986): più una persona diviene esperta in un certo campo più le sue abilità divengono personali, incarnate, estranee a una conoscenza trasmissibile in forma di concetti e regole che spesso è tipica dei principianti (anche se una parte dell'attività ante-riflessa sembra essere presente indipendentemente dal grado di abilità). Questa specializzazione implicita, che Polanyi chiama ‘tacita' per evidenziarne la non trasmissibilità (Polanyi, 1962, 1966), è il prodotto di un apprendimento implicito (Perruchet & Vinter. 2002; Reber, 1993), e si evolve e aggiusta per mezzo di un modo implicito di riflessione, una riflessione-in-atto (Schön, 1983). La cosa sorprendente è che, non solo non sappiamo cosa sappiamo, ma non sappiamo che non sappiamo, per esempio, non siamo consapevoli di essere non consapevoli, e questo è il primo ostacolo nella via per diventare consapevoli: perché dovrei pormi il compito di acquisire uno stato di coscienza che non ho, e della cui assenza non sono consapevole? Poiché i nostri processi cognitivi sono le cose più intime e personali di noi stessi, pensiamo di aver familiarità con essi e non ci viene il dubbio, nemmeno per un istante, di dover compiere qualche particolare sforzo interiore per divenirne consapevoli.
Questa mancanza di coscienza riflessa è differente dall'assenza di coscienza risultante dalla distrazione interiore della mente che abbiamo descritto nel paragrafo precedente. Ritorniamo al nostro esempio: nel secondo caso sono consapevole di star scrivendo, ma sono completamente assorbito dal mio obiettivo e non sono consapevole in modo riflesso dei mezzi che sto usando per raggiungere tale obiettivo. Nel primo caso ho perso completamente coscienza della mia attività iniziale (lo scrivere), la mia attenzione è assorbita dalle mie distrazioni interne (dialoghi immaginari, immagini ed emozioni associate, etc.) senza avere alcuna coscienza riflessa del fatto di essere distratto. Non solo non sono consapevole dello stato di distrazione, ma nemmeno, come per l'attività dello scrivere, dei mezzi attraverso cui sono impegnato nel far emergere questo stato di distrazione (come per esempio precise caratteristiche delle mie immagini mentali o il modo in cui le costruisco). Sono perciò in uno stato due volte non conscio. Un'altra differenza consiste nel fatto che nel momento in cui mi accorgo di essere stato ‘portato via', posso talvolta attivarmi (se mi sforzo) per ricostituire il corso dei miei pensieri durante questo episodio di assenza. Nonostante si tratti della mia propria esperienza, è veramente difficile per me divenire cosciente dei miei processi ante-riflessi implicati nello scrivere o nell'immaginare. Questi due tipi di mancanza di coscienza vengono spesso confusi. Come possiamo vedere i processi usati per colmarli sono differenti.

Confusione tra esperienza e rappresentazione

La terza difficoltà è la seguente: non solo non sappiamo che non sappiamo (come i nostri processi cognitivi avvengono), ma crediamo di sapere, per esempio, in molti casi abbiamo una rappresentazione sbagliata della nostra attività cognitiva, una rappresentazione cui teniamo molto fermamente, a tal punto da essere il maggiore ostacolo per divenire consci di come essa ha avuto luogo. Nella maggior parte dei casi questa rappresentazione errata viene appresa e corrisponde a credenze tipiche di un dato ambiente sociale. Essa è in larga parte veicolata e rafforzata dal nostro linguaggio e particolarmente dalle metafore da noi usate, le quali hanno il potere di strutturare in modo profondo la nostra esperienza. La tenacia delle nostre rappresentazioni e credenze ha due effetti differenti:

(1) un effetto deformante: sostituiamo la descrizione dell'esperienza stessa con una descrizione della nostra rappresentazione di questa esperienza. Proprio come qualcuno che spontaneamente disegna un tavolo, lo disegna così come lo conosce: rettangolare. In realtà, egli deve imparare a vedere il tavolo come gli appare realmente, cioè come un parallelogramma deformato (Vermersch, 1997b, p.7)
(2) un effetto celante: quando certe dimensioni della nostra esperienza non coincidono con la nostra rappresentazione o comprensione, vengono scartate dal campo della nostra coscienza, o "represse". Come Piaget ha sottolineato noi percepiamo ciò che comprendiamo: "L'interpretazione delle osservabili dipende dal comprendere e non dalla percezione. (...) Divenire consapevoli e capire sembrano supportarsi necessariamente l'un l'altro" (Piaget, 1974a, p.188). [11]

Per esempio, l'intera trattazione medica dell'epilessia è vincolata dalla credenza che gli attacchi siano improvvisi, che non si possa anticiparli o prevenirli. Abbiamo osservato che questa convinzione ostacola considerevolmente la consapevolezza e la descrizione da parte del paziente dei primi sintomi che potrebbe permettergli di anticipare e gestire i suoi attacchi.
Quando una persona tenta di descrivere il modo in cui attua un processo cognitivo, generalmente inizia descrivendo la sua rappresentazione del processo, ovvero ciò che essa crede o immagina di star facendo. Spesso inoltre la persona tende a giudicare, valutare o commentare l'attuazione del processo (per esempio ‘è stato difficoltoso' o ‘fluiva bene'), o a darne una conoscenza teorica o una spiegazione. Tutti questi dati possono avere un valore, ma non ci danno alcuna informazione circa il reale modo con cui la persona attua un processo cognitivo. Una sforzo particolare è richiesto alla persona per avere accesso alla propria esperienza, quella che giace sotto le proprie rappresentazioni, credenze, giudizi e commenti. Per raggiungere questo obiettivo è utile un'assistenza.

Verso quale dimensione dell'esperienza si dovrebbe dirigere l'attenzione?

Come ha osservato Titchener le principali difficoltà dell'introspezione sono ‘mantenere un'attenzione costante' e ‘evitare i pregiudizi'. Ma, ha aggiunto, un'ulteriore difficoltà che non è affatto la meno significativa è ‘sapere cosa cercare' (Titchener, 1899, pp. 24-25).
La nostra profonda ignoranza della nostra esperienza significa che non sappiamo verso quali dimensioni di essa dirigere la nostra attenzione. La difficoltà è simile a quella incontrata da un biologo novizio: non è sufficiente che egli abbia un microscopio se non lo sa usare. Senza allenamento e senza una conoscenza teoretica dettagliata egli non sa cosa cercare e non è in grado di riconoscere ciò che sta di fronte ai suoi occhi. L'osservazione scientifica con un microscopio è un'abilità che deve essere appresa. Lo stesso si applica all'osservazione dell'esperienza soggettiva: senza allenamento e senza una dettagliata meta-conoscenza delle diverse dimensioni dell'esperienza siamo in un certo senso ciechi.
Con l'aiuto di un appropriato allenamento, come quello fornitoci dalla pratica della meditazione samatha-vipasyana, è possibile scoprire da soli le varie dimensioni della nostra esperienza. Col passare dei mesi, il meditatore diviene consapevole in successione e spesso con meraviglia dei vari strati che costituiscono il tessuto della propria esperienza soggettiva. Generalmente il meditante per prima cosa è sorpreso dai vari gradi del discorrere interiore, il "dialogo silenzioso dell'anima con sè stessa", quello che Platone (1981a) ha chiamato il pensiero stesso (Sofista, 263e). Il meditante quindi scopre, accompagnando questo mormorio pressochè ininterrotto, una sorta di ‘rumoreggiare con le parole' (Gusdorf, 1950), un rapido flusso di immagini interne e ‘films' provenienti dalla memoria o costruiti: ricordi recenti o lontani, piacevoli o traumatizzanti, scene future, temute o desiderate vengono messe in scena senza interruzione. Questa attività immaginativa interna è accompagnata la maggior parte delle volte da emozioni di gradi differenti d'intensità. Le immagini e le emozioni stesse coprono uno strato ancora più profondo difficilmente accessibile, uno strato silente in cui il confine tra me e le altre persone, tra il mondo interno e quello esterno, e quello tra le varie modalità sensoriali è molto più permeabile (Petitmengin, 2006).
Oltre a questi vari ‘strati', il meditante diviene gradualmente consapevole anche della dimensione dinamica della propria esperienza, come per esempio della rapida successione delle operazioni interne - comparazioni, prove e diagnosi - che costituiscono il flusso incessante della sua esperienza soggettiva.
Ma senza allenamento nella maggior parte dei casi favorevoli siamo coscienti solo parzialmente e vagamente di queste diverse dimensioni. La nostra esperienza soggettiva, nonostante sia strutturata in modo molto preciso, ci sembra confusa come un primo abbozzo di progetto. Addirittura siamo spesso semplicemente inconsapevoli dell'esistenza di queste diverse dimensioni. Molte persone che ho intervistato hanno scoperto proprio in questa occasione l'importanza del proprio dialogo interno e molte non avevano coscienza riflessa delle proprie immagini interne. La soglia di percezione delle nostre sensazioni fisiche è generalmente molto alta e noi percepiamo solo le emozioni più intense, dolorose e piacevoli, mentre l'intera gamma delle sensazioni più sottili rimane non percepita.
Per accedere a queste dimensioni è richiesta una particolare ‘posizione d'attenzione'. Questo fatto è illustrato da un'affermazione di James:

"Supponiamo che tre persone ci dicano in successione: ‘Aspetta!' ‘Ascolta!' ‘Guarda!' La nostra coscienza è messa in tre atteggiamenti di attesa del tutto diversi, sebbene in alcuno di questi tre casi non ci sia di fronte ad essa alcun oggetto definito. Tolti i diversi atteggiamenti corporei in atto, tolte pure le immagini che si riflettono nelle tre parole, che naturalmente sono diverse, probabilmente nessuno negherà l'esistenza di una residua affezione consapevole, un senso di direzione da cui è in procinto di formarsi una impressione, sebbene non ci sia ancora alcuna impressione positiva. Frattanto per gli stati psichici in questione non abbiamo altri nomi che ascolta, guarda, e aspetta." (James, 1890, p. 251)
Allo stesso modo, in apporto alla dimensione interiore che desidero esplorare (visiva, uditiva, emozionale, etc.), non solo devo spostare la mia attenzione dall'esterno all'interno, ma anche adottare una differente ‘posizione d'attesa' o ‘posizione d'attenzione', caratterizzata dal proprio centro (una particolare parte della testa o del corpo, ecc.), dalla propria direzionalità (focalizzata o panoramica), e dai propri modi (di tensione verso qualcosa o ricettivo). Queste differenti posizioni d'attenzione, che danno accesso alla consapevolezza delle varie dimensioni della propria esperienza soggettiva, possono essere apprese. Nell'ambito dell'intervista la mediazione di un esperto che guida il soggetto in queste diverse posizioni facilita considerevolmente l'apprendimento del processo grazie alla sua meta-conoscenza [13] di queste dimensioni e al modo in cui l'accesso ad esse può essere raggiunto.

Fino a quale grado di precisione dobbiamo portare l'osservazione?

Se non siamo del tutto inconsapevoli di una dimensione, la consapevolezza che abbiamo di essa è generalmente confusa e approssimata. Dobbiamo imparare ad aggiustare la lente del nostro microscopio psicologico per osservarla con precisione e nei suoi dettagli. Indipendentemente dal fatto che si tratti della dimensione visiva, uditiva o cinestesica della nostra esperienza, o della sua dimensione dinamica, questo tipo preciso di osservazioni non solo ci richiede di avere stabilizzato sufficientemente la nostra attenzione, ma anche di avere una certa conoscenza del grado di precisione possibile e che desideriamo raggiungere. In questo modo viene estremamente facilitata la mediazione di un intervistatore esperto che, guidato dalla sua conoscenza delle categorie descrittive di queste differenti dimensioni, incoraggi il soggetto a scendere nella scala della precisione della descrizione a profondità che egli non immagina neppure.

L'accesso in tempo reale è impossibile

La sesta difficoltà è costituita dal fatto che non abbiamo altra possibilità che accedere all'esperienza che in modo retrospettivo dopo un periodo di tempo più o meno lungo. Come quando per ragioni di ricerca ritorniamo a un'esperienza passata che non può essere riprodotta: per esempio, l'emergenza di una nuova idea, o le sensazioni che precedono un attacco epilettico. Ma anche nel caso più favorevole, ovvero quando l'esperienza può essere riprodotta a volontà, è impossibile descriverla come se fosse in atto; possiamo solo descriverla retrospettivamente per svariate ragioni.

- Primo a causa della rapidità del processo. Per esempio quando pronuncio una parola o quando memorizzo un'insieme di figure, le operazioni sono così numerose e così rapide che risulta impossibile anche con un intenso allenamento osservarle nello stesso istante in cui le attuo. Questo fatto è stato sottolineato da James:

"La corsa del pensiero è così impetuosa che ci porta quasi sempre alla conclusione prima che possiamo restare in esso. O se siamo abbastanza lesti da fermarlo, esso svanisce immediatamente. (...) Il tentativo di un'analisi introspettiva in questi casi equivale ad arrestare una trottola per afferrarne il movimento o a spegnere il gas abbastanza velocemente per vedere l'apparire dell'oscurità..." (James, 1890, 244).

Per divenire cosciente dell'emergenza del processo, devo rimetterlo-in-scena, rievocandolo in una modalità introspettiva. E devo per di più rimetterlo-in scena molte volte: la prima volta posso solo identificare le fasi principali del processo. Devo rimettere-in-scena ognuna delle fasi per descriverla nella forma di una gamma di operazioni che devo poi rimettere-in-scena una dopo l'altra per accedere a un livello più dettagliato e così via fino a raggiungere la precisione richiesta.

- Anche la complessità del processo gioca un ruolo. Mi è impossibile infatti focalizzare in un sol colpo l'attenzione su tutte le dimensioni esperienziali (visiva, uditiva, cinestesica, emotiva, ecc.).
Devo rimettere-in-scena il processo molte volte, ogni volta focalizzando la mia attenzione su una dimensione diversa.
- Ma la rapidità e la complessità del flusso dell'esperienza non sono l'unica motivazione della necessità di un accesso retrospettivo ad essa. La ragione principale consiste nel fatto che è impossibile dirigere la nostra attenzione su un oggetto del processo e allo stesso tempo sul ‘cosa' esso è e sul ‘come' esso emerge. Per esempio, il contenuto di un'immagine e i suoi modi di apparire costituiscono due conenuti d'attenzione differenti, che richiedono due modi, due orientazioni e due ‘posizioni' d'attenzione differenti. Dopo che mi è apparsa un'immagine interna, se voglio divenire cosciente del modo con cui appare, devo ‘ri-mettere-in-scena' l'emergenza iniziale dell'immagine mentre dirigo la mia attenzione in modo differente. Questo aspetto è stato sottolineato da John Stuart Mill più di 100 anna fa:

"Un fatto può essere studiato attraverso la mediazione della memoria, non nel momento stesso in cui lo percepiamo, ma nel momento che lo segue: e questo è realmente il modo in cui la conoscenza dei nostri atti intellettuali viene acquisita. Riflettiamo su ciò che stavamo facendo l'atto è passato mentre le sue impressioni sono ancora fresche nella memoria." (Mill, 1882/1961, 64)

In ogni caso questo accesso retrospettivo è tutt'altro che semplice. Anche quando un'esperienza è appena finita la sua ‘ri-messa-in-scena' o ‘presentificazione' è un processo cognitivo complesso che richiede allenamento e preparazione e che può essere considerevolmente facilitato dall'assistenza di una persona esperta.

La trasposizione in parole

Un'ulteriore difficoltà nasce nel momento in cui diamo espressione alla nostra esperienza. Il vocabolario a nostra disposizione per descrivere le molteplici dimensioni della nostra esperienza soggettiva è piuttosto povero e questa povertà probabilmente deriva dal fatto che nella nostra cultura l'esperienza è stata poco esplorata. Per esempio non abbiamo parole precise per descrivere le sensazioni cinestesiche [14] o i sottili processi interni che ci consentono di ridirigere la nostra attenzione verso l'interno per stabilizzarla e per focalizzarla su una specifica dimensione, al fine di confrontare rapidamente una sensazione presente con una ricordata. Inoltre, come Schooler (2002) si chiede, la verbalizzazione non provoca una interruzione e una ‘sovraimpressione verbale' nell'esperienza descritta?

I processi intervistici

L'attenzione instabile, l'assorbimento nell'oggetto, il perdersi nelle rappresentazioni, la mancanza di consapevolezza delle dimensioni e del grado di precisione del dettaglio da osservare, l'impossibilità di un accesso immediato - tutte queste ragioni spiegano perché le descrizioni in prima persona spontanee sono generalmente così povere (come viene evidenziato in Lyons, 1986 e Nisbett & Wilson, 1977). Quali processi possono essere sfruttati da un esperto intervistatore per superare queste difficoltà e permettere all'intervistato di divenire consapevole della propria esperienza soggettiva e di descriverla?

Stabilizzare l'attenzione

Prima di tutto, il contesto e le condizioni dell'intervista (che è importante stabilire all'inizio dell'intervista o ristabilire se l'intervista è stata precisata durante il suo svolgimento) aiutano il soggetto a mantenere l'attenzione sull'esperienza che deve essere esplorata: "Stiamo insieme per un tempo prestabilito, con un obiettivo specifico, quello di ottenere una descrizione di questa esperienza". Questo contesto rende la stabilizzazione dell'attenzione più semplice rispetto al tentativo del soggetto di descrivere la propria esperienza da solo. La situazione dell'intervista e la mera presenza dell'intervistatore agiscono durante l'atto intervistico come una sorta di ‘contenitore' dell'attenzione dell'intervistato e lo aiutano a rimanere all'interno dei confini dell'esperienza che deve essere esplorata.
Il contesto comunque non è sufficiente per evitare che il soggetto cada in commenti, valutazioni e giudizi sulla propria esperienza o in digressioni sulle proprie preoccupazioni del momento, che naturalmente non centrano con l'esperienza da esplorare. Onde percui sono necessari alcuni processi complementari per fare in modo che il soggetto stabilizzi la propria attenzione. Uno di essi, derivante dal metodo Focusing, consiste all'inizio dell'intervista nell'incoraggiare il soggetto ad abbandonare le preoccupazioni che lo assillano allo scopo di ripulire lo spazio interno. L'obiettivo non è quello di liberarsene ma di metterle momentaneamente da parte per la durata dell'intervista in modo tale da entrare in una relazione rilassata con l'esperienza da esplorare.
Un terzo processo che può aiutare il soggetto a stabilizzare la propria attenzione è la riformulazione sistematica da parte dell'intervistatore di quello che il soggetto ha detto. Di fronte ad ogni divagazione l'intervistatore riformula incessantemente e a costo di ripetersi tutti gli elementi descrittivi riguardanti l'esperienza in questione e questo serve effettivamente a rifocalizzare ogni volta l'attenzione del soggetto sull'esperienza. Inoltre l'intervistatore chiede al soggetto di rilevare l'accuratezza delle proprie riformulazioni. Per attuare questo controllo la sola cosa da fare da parte del soggetto è quella di ritornare all'esperienza. Per esempio:

"Ho intenzione di ripetere spesso ciò che tu mi dici, così puoi verificare se ho capito correttamente e se ho tralasciato qualcosa. Non esitare di interrompermi. Così se ti ho capito correttamente, tu hai iniziato leggendo il soggetto della dissertazione alla lavagna e poi ti sei detto che tutto ciò è facile. In questo modo ti sei ricordato di una lezione che è stata dedicata precisamente a questo argomento (...)."

Un quarto processo consiste - ogni volta che il soggetto perde di vista la descrizione della propria esperienza per dare commenti o giudizi su di essa o addirittura si perde in considerazioni ancora più distanti - nel porgli una domanda che lo riporti indietro, fermamente ma non duramente, all'esperienza in sé. Per esempio:

"Questa dissertazione è stata un completo fallimento e sei deluso. Ti sei detto che potresti far meglio. Io comprendo la tua delusione e ti propongo di analizzare il modo con cui ti appresti a scriverla. Come hai cominciato?"

Un quinto processo consiste nell'uso del ‘riferimento diretto' (Gendlin, 1962): si tratta di incoraggiare la persona intervistata, quando una sensazione o un'operazione interna ancora vaga e sfocata, difficile da stabilizzare, inizia ad emergere dalla coscienza, a designarla con termini generici come ‘questa sensazione', ‘quella', ‘questa strana cosa'. Questi simboli agiscono come indicatori, essi isolano le sensazioni dal flusso dell'esperienza. Sono come agganci che ci aiutano a mantenere a fuoco e a stabilizzare la nostra attenzione su una sensazione o su un'operazione interna.
Questa funzione di indicatore può essere svolta da una parola o da un gruppo di parole o anche da simboli non-verbali, visivi o cinestesici. Per esempio, prima che l'intervistato divenga cosciente di una sensazione o di un'operazione interna spesso le designa per mezzo di un gesto. L'intervistatore può sfruttare questi gesti per aiutare la persona a divenire cosciente della sensazione o dell'operazione e poi a mantenere l'attenzione su di esse.

Spostare l'attenzione dal ‘cosa' al ‘come'

Il divenire coscienti della parte ante-riflessa della nostra esperienza implica una rottura con le nostre attitudini abituali, che, come abbiamo visto prima, tendono ad attuarsi senza che noi siamo coscienti del modo in cui ciò avviene, addirittura senza essere coscienti di questa mancanza di coscienza. Abbiamo bisogno di distogliere la nostra attenzione dal ‘cosa', che normalmente la assorbe completamente, per dirigerla sul ‘come'. Questo riindirizzamento dell'attenzione talvolta viene innescato da un ostacolo o da un fallimento, ma può essere ottenuto attraverso l'allenamento e l'apprendimento. Si tratta precisamente della cosiddetta ‘conversione fenomenologica' husserliana, che consiste nel distogliere l'attenzione dagli oggetti che appaiono alla coscienza verso i modo soggettivi con cui questi oggetti appaiono (Husserl, 1913/1950, 1925/1962). L'attenzione è spostata dall'oggetto percepito all'atto del percepire, dall'oggetto immaginato all'atto dell'immaginare, dall'oggetto ricordato all'atto del ricordare. Questa conversione dell'attenzione dal contenuto al processo, che permette di passare dalla coscienza diretta alla coscienza riflessa (Vermersch, 2000a), può essere attuata in tutte le attività, da quelle più ampiamente praticate (immaginare, memorizzare, ricordare, osservare, risolvere un problema, relazionarsi ad altre persone), a quelle più specializzate, specifiche di un particolare campo in cui si è esperti.
Per spiegare questo movimento di conversione ai partecipanti a una sessione d'allenamento nell'intervista d'esplicitazione (Vermersch, 1994/2003) l'istruttore suggerisce a ognuno di essi di eseguire un semplice compito: scomporre una parola, memorizzare una lista di parole o una matrice di figure. Non appena il compito è stato completato, li viene richiesto di descrivere il modo con cui hanno attuato questo compito. Finchè si rimane sul piano generale, gli studenti non hanno alcuna difficoltà nell'eseguire il compito precedentemente spiegato. Ma piuttosto differente è descrivere il modo con cui essi eseguono il compito: l'assistenza di un intervistatore diviene essenziale per aiutarli a staccare la loro attenzione dal contenuto (che può per esempio essere memorizzato) e spostarla sull'atto (del memorizzare). Ci vuole 1 ora per spiegare un compito per realizzare il quale basta 1 minuto.
A questo proposito riporto nell'Appendice 1 un estratto di un'intervista in cui l'intervistatore, dopo aver chiesto all'intervistato di ‘pensare un elefante', mette l'intervistato nelle condizioni di spostare la propria attenzione dall'immagine prodotta (della quale egli avrebbe facilmente fatto una descrizione) verso i modi di apparire dell'immagine, esplorando gradualmente le dimensioni visive, uditive ed emozionali dell'esperienza. Questo stralcio dell'intervista offre il vantaggio di illuminare la grande varietà di operazioni interne, la maggior parte delle quali ante-riflesse e susseguentesi una dopo l'altra durante i 3 secondi necessari per attuare questo compito quotidiano (una varietà che può sorprendere un lettore che non ha mai partecipato a un esperimento di esplicitazione).
Attraverso ogni intervista di questo tipo è la questione del ‘come' ad innescare la conversione dell'attenzione dell'intervistato verso i propri processi interni ante-riflessi. Questo può essere in contrasto con la questione del ‘perché', la quale devia l'attenzione verso la descrizione degli oggetti e verso considerazioni astratte e deve perciò essere evitata. Per esempio:

1 Cosa accade quando ti ho chiesto di scomporre la parola ‘gazzella'?
2 Ho letto le lettere contenute nella parola.
3 Come le hai lette?
4 Ho visto la parola nella mia testa.
5 Cosa hai visto esattamente, com'era questa parola nella tua testa?
6 Etc.

Se l'intervistato rimane assorbito nella descrizione dell'oggettivo, attraverso domande appropriate lo si può aiutare a spostare la propria attenzione dall'oggettivo ai processi che portano ad esso. Per esempio: "E per raggiungere questo obiettivo cosa fai precisamente? Come inizi?" O in alternativa: "Come sai che hai raggiunto il tuo obiettivo?", "Come riconosceresti che l'obiettivo è stato raggiunto?"
Da notare che la tecnica talvolta raccomandata per ottenere una descrizione di un processo cognitivo, consistente nel chiedere all'intervistato di ‘pensare ad alta voce' mentre esegue il compito richiesto (Ericsson, 2003; Ericsson & Simon, 1984/1993), non induce il riindirizzamento dell'attenzione dal ‘cosa' al ‘come' e nemmeno la consapevolezza della dimensione ante-riflessa del processo studiato. Questa tecnica nel migliore dei casi permette di avere accesso al dialogo interno dell'intervistato durante l'esecuzione del compito: questo dialogo, che normalmente è limitato ai giudizi e ai commenti che l'intervistato pronuncia durante l'esecuzione del compito, rappresenta solo una piccola parte della propria attività.

Passare da una rappresentazione generale a una singola esperienza

Allo scopo di indurre nell'intervistato questa conversione d'attenzione e di descrivere cosa stia realmente facendo e non cosa egli pensi o stia immaginando di fare, è essenziale aiutarlo a passare da una descrizione generale alla descrizione di una situazione particolare, precisamente situata nel tempo e nello spazio. Nessuno ha un'esperienza ‘in generale'. Un'esperienza vissuta è necessariamente unica. "Un'esperienza vissuta che non sia un momento singolare nella vita di una data persona non è un'esperienza vissuta" (Vermersch, 1997a, p. 8, 1997b). Se chiedi all'intervistato: "Come lo fai?" (scomporre una parola, memorizzare qualcosa), è quasi certo che otterrai una descrizione piuttosto generale, corrispondente alla rappresentazione che egli ha di ciò che sta facendo. Senza capire che questa distorsione sta avvenendo, egli descriverà le regole che ha imparato e le sue conoscenze teoretiche circa i processi cognitivi in questione. Ti darà una descrizione astratta che risulterà considerevolmente impoverita e in cui la dimensione ante-riflessa dell'esperienza vissuta non sarà messa in evidenza. L'obiettivo è di guidare la persona da una descrizione, una definizione o una spiegazione generale (come "Le idee mi vengono quando non le cerco più, quando sono rilassato, quando cammino per esempio") verso la descrizione di una singola esperienza:

"Esattamente in questo periodo lasciai Caen, dove vivevo, per partecipare a un'escursione geologica sotto gli auspici della scuola mineraria. (...) Dopo aver raggiunto Coutances prendemmo un autobus per cambiare luogo. Nel momento in cui appoggiai il piede sulla pedana mi venne l'idea che le trasformate che avevo usato per definire le funzioni di Fuchsian erano identiche a quelle della geometria non-euclidea." (Poincaré, 1947)

È solo aiutando l'intervistato a identificare un'unica esperienza che hai una possibilità (se poni le domande giuste) di metterlo nelle condizioni di divenire cosciente della dimensione ante-riflessa della propria esperienza e di descriverla. Più l'intervistato è a contatto con una specifica e genuina esperienza vissuta, meno rischi corre la sua descrizione di scivolare in una rappresentazione generale. La scelta di un'unica esperienza è perciò uno stadio essenziale nell'intervista [15].

Come scegliere una singola esperienza

Esistono tre casi di base:

(1) Se il processo cognitivo da esplorare è facilmente riproducibile, il ricercatore può escogitare un protocollo che permetta all'intervistato di far emergere il processo qui e ora, e più tardi di descrivere attraverso domande il modo in cui egli si muove attraverso l'attuarsi del processo. Questo è il caso tipico dell'allenamento nella tecnica d'esplicitazione: noi proponiamo una varietà di compiti cognitivi agli studenti (memorizzazione, osservazione, immaginazione, risoluzione di problemi) dei quali devono dare un resoconto dopo averli eseguiti. È anche quello che accade in alcuni protocolli della neuro-fenomenologia, in cui mentre gli intervistati eseguono un compito cognitivo ne registriamo gli elettroencefalogrammi, per esempio il protocollo di visione in 3D sviluppato da Luz (2002): la descrizione dell'esperienza soggettiva può essere ottenuta immediatamente dopo che il compito è stato eseguito.
(2) Dal momento che l'esperienza studiata non può essere riprodotta a volontà, il ricercatore deve aiutare l'intervistato a trovare nel passato una particolare occorrenza di questa esperienza. È quello che ho fatto nelle mie ricerche sull'esperienza intuitiva: mettere l'intervistato nelle condizioni di cogliere l'esatto momento dell'emergenza di una nuova idea, dell'introspezione terapeutica, dell'ispirazione poetica. Questa difficoltà è maggiormente evidente negli studi neuro-fenomenologici sull'anticipazione degli attacchi epilettici: a causa dell'imprevedibilità degli attacchi, la descrizione del periodo che precede un attacco attraverso un'intervista può essere attuata solo a distanza. Inoltre non tutti i periodi che precedono un attacco possono essere descritti. Infatti gli attacchi spesso sono notturni: il paziente è non-cosciente durante questi periodi. E anche quando l'attacco avviene durante il giorno, spesso cancella completamente la memoria dei momenti che lo precedono e talvolta persino il ricordo di avere avuto un attacco. Quindi la scelta dell'attacco su cui concentrare il lavoro è un momento dell'intervista importante e delicato.
(3) Nel caso in cui il processo studiato si protragga per molte ore o giorni dobbiamo selezionare più di un momento specifico. Per esempio, se una sensazione che precede un attacco all'inizio è appena percettibile e poi si amplifica per molte ore prima che l'attacco abbia luogo, o se una nuova idea all'inizio vaga e sfocata impiega molti mesi per maturare, è necessario identificare alcune caratteristiche o momenti decisivi sui quali concentrare il processo d'esplicitazione.

Come guidare il soggetto verso una singola esperienza

Sia che il processo studiato sia stato esperito qualche istante prima o qualche anno addietro, l'intervistato spesso tende a cadere in generalizzazioni, per esempio egli si muove furtivamente da un descrizione della singola esperienza che ha vissuto verso una descrizione della rappresentazione che egli si fa di essa o verso un'esposizione delle proprie conoscenze teoretiche circa il soggetto. La citazione seguente, estratta da un'intervista concernente l'emergenza improvvisa di una nuova idea scientifica, illustra questo slittamento (evidenziato in caratteri italici) spesso osservato durante le interviste:

"A quel punto ho un'immagine nella mia testa. Perciò io appartengo a quella categoria che i matematici chiamano geometri, persone con un'intuizione di tipo visivo, al contrario degli algebristi. Quel tipo di persone hanno bisogno di costruirsi una figura per risolvere un problema incontrato..."

L'intervistatore quindi necessità di una grande dose di determinazione e di delicatezza per portare l'intervistato indietro in prossimità dei limiti della propria esperienza. Egli è spesso costretto a interromperlo e poi, dopo aver riformulato con attenzione le sue parole in segno di ascolto e non per interrompere la relazione che si è instaurata, a portarlo con decisione ad evocare la propria esperienza per mezzo di un suggerimento del seguente tipo:

"Dal momento che appartieni alla categoria dei geometri in quel momento avevi un'immagine nella tua testa. Torniamo a quell'immagine. Riesci a descriverla? Di che dimensioni è?"

Accedere all'esperienza in modo retrospettivo

Sia che l'esperienza esplorata sia stata vissuta appena pochi istanti prima sia alcuni anni fa, è necessario accedervi in modo retrospettivo, come abbiamo visto. L'intervistato deve perciò guidare l'intervistato verso la ‘ri-messa-in-scena' dell'esperienza passata. Questa tecnica è la chiave di volta del modello intervistico della Programmazione Neuro Linguistica e dell'intervista d'esplicitazione. Come spiega Vermersch (1994/2003), il suo modello teoretico è quello della memoria affettiva o ‘memoria concreta' (Gusdorf, 1950; Ribot, 1881), che recentemente è stato nominato ‘memoria episodica' (Cohen, 1989) o ‘memoria autobiografica' (Neisser, 1982). Questa teoria, che permette di riscoprire il passato in tutta la sua freschezza, densità vissuta e incarnata, si contrappone alla memoria intellettuale, basata sulla conoscenza concettuale, che non è legata a una specifica esperienza vissuta con memoria affettiva. Nella memoria concreta esperiamo una coincidenza immediata con il passato, riviviamo il passato come se fosse presente [16]. Una delle sue caratteristiche principali è l'involontarietà, cioè non avviene in seguito a un pensiero discorsivo, ma spontaneamente e generalmente attraverso un innesco sensoriale [17]. La memoria non può essere deliberatamente attivata. Ma è possibile preparare indirettamente la sua emergenza riscoprendo la sensorialità legata all'esperienza. Per esempio, se ti chiedo: "Qual è stato il primo pensiero che ti è venuto in mente quando ti sei svegliato stamattina?" è alquanto probabile che tu non abbia altra soluzione per recuperare questo ricordo che quella di ritornare col pensiero nel tuo letto al momento del tuo risveglio.
Nel contesto di un'intervista per guidare l'intervistato verso una concreta evocazione di una situazione passata o di una situazione appena accaduta, l'intervistatore lo aiuta a riscoprire il contesto spazio-temporale dell'esperienza (quando, dove, con chi?) e poi a individuare con precisione le sensazioni visive, uditive, tattili e cinestesiche, olfattive e gustative associate con l'esperienza, affinché la passata esperienza sia ‘ri-vissuta', al punto tale che essa sia più presente della situazione intervistica stessa [18].
L'estratto seguente è preso da un'intervista a cui ci siamo già riferiti e riguarda l'emergenza istantanea di una nuova idea scientifica cinque anni prima:

7 Ti propongo di ritornare a questa esperienza, nel Febbraio del 1997, con l'obiettivo di ri-metterla-in-scena com'era. Sei in ufficio e stai leggendo un articolo di Griffiths...
8 In realtà non ero seduto alla scrivania ma a un piccolo tavolo posto sotto la finestra.
9 Sotto la finestra quindi. Che ora era, approssimativamente?
10 Era sera tra le cinque e le sette. C'era una luce... la lampada sul tavolo era accesa.
11 C'era qualche rumore attorno?
12 No, c'è silenzio, sono solo. Sto leggendo l'articolo. Lo leggo rapidamente, scorrevolmente senza prendere note...

La transizione al tempo presente nell'ultima parte dello stralcio è uno dei segni del fatto che l'intervistato sta di fatto tornando all'esperienza passata. Una gamma di indizi di questo tipo, verbali e anche para-verbali (come il rallentamento del flusso delle parole) e non-verbali (lo spostamento e la non messa a fuoco degli occhi, per esempio il fatto che il soggetto lascia il contatto con gli occhi dell'intervistatore e guarda nello spazio vuoto, lontano nell'orizzonte), permette all'intervistatore di valutare l'intensità dell'evocazione. La persona è quindi in uno specifico stato interiore che può essere facilmente identificato per mezzo di questa gamma di criteri oggettivi ma anche attraverso un criterio soggettivo altrettanto specifico. In questo stato interiore, chiamato ‘stato evocativo' nell'intervista d'esplicitazione e ‘stato di associazione' nel modello intervistico NPL, la persona è in contatto con la propria esperienza passata. È solo quando l'intervistatore, grazie a questi indizi, osserva che lo stato evocativo è sufficientemente intenso e stabilizzato che egli può aiutare l'intervistato, con l'aiuto delle appropriate domande, a dirigere la propria attenzione verso gli stati interni e descriverli.
Anche nel caso in cui l'esperienza da esplorare sia recente, nel senso che è appena emersa, l'intervistatore deve guidare precisamente il soggetto verso l'evocazione dell'inizio dell'esperienza. In questo caso il compito appena concluso consisteva nel ‘pensare a un elefante':

"Ciò che ci stiamo approssimando a fare insieme, ora, è di tornare indietro nel tempo come se avessimo un videoregistratore. A questo fine voglio che tu torni al momento in cui ti ho chiesto: "Pensa un elefante". Vorrei che tu sentissi nuovamente la mia voce pronunciare queste parole..."

Quando l'esperienza è fatta emergere poco prima dell'intervista per gli scopi della ricerca, è consigliabile inserire nel protocollo uno o due riferimenti o segni per aiutare l'intervistato a ritornare all'inizio della sequenza (un intervento orale o gestuale dello sperimentatore, un segnale specifico). Se l'inizio dell'esperienza da esplorare non può essere identificato precisamente, è possibile iniziare dalla fine della sequenza. Per esempio, per rintracciare alcune sensazioni premonitrici di un attacco epilettico è più facile per il paziente ritornare all'impressionante istante iniziale dell'attacco. In questo modo l'esperienza può essere ri-messa-in-azione e descritta ‘al contrario'.
È comunque raro che l'intervistato rimanga nello stato di evocazione per tutta l'intervista a causa dell'instabilità della sua attenzione e della tendenza a passare dal caso singolo al generale. Talvolta una domanda mal suggerita o una riformulazione da parte dell'intervistatore o un disturbo esterno sono sufficienti a far perdere all'intervistato il contatto con l'esperienza passata. Quando l'intervistatore osserva che l'intervistato sta emergendo dallo stato di evocazione uno degli espedienti che l'intervistatore può attuare per riportare l'intervistato all'interno di questo stato consiste nel riformulare la descrizione del contesto sensoriale dell'esperienza, o nel formulare domande circa questo contesto alle quali la persona non può replicare senza riferirsi alla passata situazione, senza ‘ritornare ad essa', per esmpio:

"Così stai leggendo questo articolo di Griffiths, seduto al tuo piccolo tavolo situato appena sotto la finestra, e la tua lampada è accesa... Sei seduto in modo comodo? Che temperatura c'è? È un articolo di giornale o di un libro? Puoi descrivermi il documento?"

Dirigere l'attenzione alle differenti dimensioni dell'esperienza

Quando lo stato di evocazione è sufficientemente stabilizzato l'intervistatore può ricorrere a domande appropriate per guidare l'intervistato verso la presa di coscienza delle differenti dimensioni della propria esperienza. Un processo utile consiste nel mettere in atto, prima che l'intervista inizi, un piccolo esercizio di allenamento per far sorgere nell'intervistato la consapevolezza di queste dimensioni. Per esempio incoraggiandolo a richiamare il ricordo di una vacanza e poi a descrivere in successione le dimensioni visive, uditive, cinestesiche, emozionali, olfattive e gustative del ricordo. Durante l'intervista stessa questo allenamento aiuterà l'intervistato ad accedere alla ‘posizione d'attenzione' richiesta per divenire cosciente di queste differenti dimensioni della propria esperienza attraverso domande del seguente tipo:

"Cosa accade nella tua esperienza mentre leggi questo articolo di Griffiths? Assicurati che non ci sia qualcos'altro. Mentre leggi le parole forse vedi qualcos'altro? Forse ti dici qualcosa attraverso una voce interna? Forse esperisci una particolare sensazione o sensazioni?"

Per guidare l'intervistato verso la presa di coscienza di queste differenti dimensioni, l'intervistatore conta su di una gamma di indizi non-verbali altamente precisi come i movimenti degli occhi e i gesti co-verbali. James aveva già osservato che il pensiero è accompagnato da micro-movimenti:

"Nell'occuparsi di un'idea o di una sensazione riguardante una particolare sfera sensibile, il movimento è l'aggiustamento di un organo di senso, sentito nel momento in cui avviene. Non posso pensare in termini visivi, per esempio, senza sentire fluttuazioni di pressione, convergenza, divergenza e accomodazione nei miei occhi... (...) Finchè posso rilevare, queste sensazioni sono dovute a una rotazione attuale degli occhi verso l'esterno e verso l'interno." (James, 1890, pp. 193-194)

Svariati articoli da allora hanno mostrato che i movimenti oculari indicano precisamente il registro sensoriale usato. [19] Un'attenta osservazione di questi movimenti consente all'intervistatore di identificare il registro sensoriale in cui l'intervistato si trova nel compiere un dato movimento, senza essere necessariamente consapevole di esso, e di dirigere la propria attenzione a questo registro. Per esempio, se l'intervistato guarda in su, probabilmente si sta formando un'immagine mentale. Una domanda adeguata, come per esempio "Mentre parli guardi là in alto (in su e a sinistra). Cosa accade in te stesso quando guardi in questa direzione?", probabilmente gli permette di divenire consapevole di questa immagine e di descriverla. Similmente, quando i movimenti oculari dell'intervistato sono orizzontali, si tratta spesso di un segno che egli sta ascoltando un suono o parlando fra sè e sè. Una domanda appropriata gli permetterebbe di divenirne consapevole.
Nell'arco dell'intervista i suggerimenti dell'intervistatore sono basati anche sull'osservazione dei gesti che accompagnano, in modo non-conscio, le parole dette (o che le sostituiscono). Tra questi gesti co-verbali abitualmente viene fatta una distinzione tra i gesti che costituiscono il ritmo del discorso e che sottolineano l'intonazione vocale senza alcuna relazione al contenuto in sé, e i gesti referenziali che rappresentano qualcosa. Tra i secondi, che sono i soli che ci riguardano in questo contesto, distinguiamo tra gesti iconici, gesti metaforici [20] (per esempio, McNeil, 1985, 1992) e gesti deittici. Un gesto iconico in ultimo riproduce parzialmente un gesto attuale, la forma o il movimento di un oggetto, o ne indica la localizzazione spaziale: per esempio, mimo il movimento di urtare un ostacolo mentre racconto un incidente automobilistico. Un gesto metaforico è associato alla descrizione di un'idea astratta o di un processo interno: per esempio attuo lo stesso gesto di prima evocando però una difficoltà incontrata nella risoluzione di un problema [21]. Un gesto deittico designa la zona del corpo in cui viene sentita una sensazione o un processo interno. L'osservazione di questi differenti tipi di gesti permette all'intervistatore di aiutare il suo interlocutore a divenire consapevole della dimensione cinestesica ed emotiva della propria esperienza e ad approfondirne la descrizione. Per esempio, un gesto deittico verso la gabbia toracica può dirigere l'attenzione dell'intervistato verso la sensazione sentita con l'aiuto di una domanda del tipo: "Cosa sta accadendo al centro della tua gabbia?".

"Christelle mi descrive le sue sensazioni nei minuti che precedono un attacco epilettico. Ripetutamente passa la m