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L'attacco all'Iran e la variabile sunnita

di Simone Santini - 13/07/2009





Dagan-Meir

L'indiscrezione è passata per lo più inosservata ma potrebbe avere ripercussioni devastanti. Una fonte diplomatica israeliana ha rivelato al quotidiano britannico Sunday Times (gruppo Murdoch) che i servizi segreti di Tel Aviv hanno raggiunto un accordo informale con l'Arabia Saudita per il sorvolo della propria aviazione in quello spazio aereo. Dopo mesi di trattative segrete il capo del Mossad, Meir Degan, avrebbe ottenuto lo straordinario risultato. Ora Israele ha un corridoio aperto e sicuro, per i propri caccia-bombardieri, che può arrivare attraverso la penisola arabica fino al cuore dell'Iran.



E non basta. Il quotidiano israeliano Yediot Ahronot scrive che per la prima volta un sottomarino nucleare da combattimento con la stella di David, classe Dolphin, ha avuto il permesso di attraversare il Canale di Suez, in pieno giorno e scortato da unità della marina egiziana. In caso di emergenza gli U-boat dello stato ebraico, dotati di testate atomiche, possono così raggiungere in 24 ore il Golfo Persico attraverso il canale contro la settimana necessaria se dovessero circumnavigare l'Africa.

L'intesa tra nemici storici, Israele e paesi arabi come Arabia Saudita ed Egitto, è ormai una realtà consolidata, confermata da molteplici segnali che si sono susseguiti negli ultimi mesi al punto da potersi ormai apertamente parlare di asse sunnito-sionista in funzione anti-sciita e anti-iraniana.
Sotto l'egida della precedente amministrazione statunitense, il dialogo arabo-israeliano era già venuto allo scoperto nel 2008. Verso la fine dell'anno Condoleeza Rice, in sede Onu, aveva presieduto un vertice senza precedenti tra potenze occidentali fortemente esposte nel contrasto al nucleare iraniano (gli stessi Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia) e un gruppo di paesi arabi tra cui appunto Arabia Saudita, Egitto, ed altre aristocrazie sunnite del Golfo Persico. Convitato di pietra Israele.

Intanto nel mese di novembre il vice-presidente Dick Cheney si era recato in visita ufficiale a Ryad stringendo per conto degli israeliani un patto con la monarchia wahabita. Il New York Times riportava che Re Abdullah si mostrò estremamente preoccupato dalla politica egemonica di Teheran e per l'espansionismo sciita nella regione. Col ritiro annunciato delle truppe americane dall'Iraq si paventava che gli scontri etnici tra sunniti e sciiti potessero divampare e coinvolgere l'Arabia Saudita dove pure risiede una inquieta minoranza sciita. In cambio della promessa americana di spingere Tel Aviv al dialogo sulla Palestina, re Abdullah acconsentiva a formare un blocco unico contro il nemico comune: l'Iran.

Per Israele, dal canto suo, deve essere forte la tentazione di innescare un conflitto inter-islamico tra componenti sunnite e sciite per portare avanti una guerra per procura contro l'Iran. Allo stato due sono gli epicentri possibili. Sicuramente il Libano dove la coalizione filo-occidentale e soprattutto filo-saudita guidata da Saad Hariri ha ottenuto il governo dopo le recenti elezioni. Se in questo primo scorcio è prevalsa l'unità nazionale, sarebbe sufficiente spingere Hariri a chiedere il disarmo di Hezbollah, il partito sciita filo-iraniano che governa de facto il sud, per sprofondare il Paese dei Cedri nella guerra civile.

Anche in Iraq la situazione è critica. Il disimpegno americano potrebbe portare le componenti sunnite del centro in collisione con gli sciiti del sud. Attentati terroristici terrificanti si sono susseguiti in tutti questi anni tra le due parti. I sauditi hanno già fatto sapere che in caso di conflitto inter-etnico si considererebbero trascinati in guerra a fianco dei fratelli sunniti.

Un terzo scenario è da prendere in seria considerazione. Teheran ha più volte ammonito che in caso di aggressione occidentale o israeliana attuerebbe una risposta su larga scala. Se Tel Aviv portasse un first strike attraverso i cieli sauditi, gli iraniani potrebbero considerare la posizione di Ryad come un atto ostile, se non un vero e proprio atto di guerra. E se la distanza metterebbe relativamente al riparo gli israeliani dalla risposta di Ahmadinejad, il paese degli ayatollah e l'Arabia Saudita hanno centinaia di chilometri di coste che si fronteggiano divise solo da uno stretto braccio di mare. E per determinare una situazione esplosiva potrebbe essere sufficiente anche un inopportuno incidente tra le due forze armate nel Golfo persico, forse il mare più trafficato del pianeta da petroliere e unità militari sotto ogni bandiera.

Tra gli stati europei la Francia è sembrata la più pronta a non considerare questi scenari possibili come fanta-politica e predisponendo le opportune mosse sulla scacchiera a difesa dei suoi interessi nella regione. A maggio Parigi ha inaugurato una sua base integrata (navale, aerea, terrestre) nell'emirato di Abu Dhabi, da cui è possibile il controllo dello Stretto di Hormuz. Era da cinquanta anni, dalla perdita delle colonie africane, che la Francia non dislocava le sue forze armate in maniera permanente all'estero. Nel dare l'annuncio della creazione della base in territorio arabo il presidente Sarkozy dichiarava: "E' il segno che il nostro paese sa adattarsi alle nuove sfide, che è pronto a prendersi le sue responsabilità e a giocare per intero il suo ruolo negli affari del mondo [...] E' qui che si gioca gran parte della nostra sicurezza e di quella del pianeta". Fuori dal linguaggio celebrativo il messaggio era chiaro: se l'Iran attacca gli Emirati arabi è come se attaccasse la Francia.

La forza dissuasiva francese non si limita alla presenza militare. In base ad un accordo segreto con gli stessi Emirati, rivelato dal quotidiano Le Figaro, Parigi mette a disposizione l'opzione atomica in caso di aggressione, sia con i suoi sottomarini nucleari che con i bombardieri dislocati sulla portaerei Charles De Gaulle.

Che ci si trovi di fronte ad una accelerazione, dopo i drammatici fatti post-elettorali in Iran, è dimostrato anche dalle dichiarazioni del vice-presidente americano Joe Biden che in visita alle truppe in Iraq, rispondendo ad un esterrefatto cronista della emittente ABC, diceva: "Gli Stati Uniti non possono imporre a un altro Stato sovrano cosa può o non può fare [...] Israele può decidere da sola cosa è nel suo interesse e cosa fare nei confronti dell'Iran o in qualsiasi altra situazione [...] In ogni caso Israele ha il diritto di fare ciò che crede opportuno. Se il governo Netanyahu deciderà di scegliere una linea di azione diversa da quella attuale, la loro sovranità gli concede questo diritto [... specie se la sua...] sopravvivenza è minacciata da un altro Paese".

Il presidente Obama si è affrettato a smentire che le dichiarazioni del vice-presidente rappresentassero un "semaforo verde" di Washington per un attacco all'Iran. Gioco delle parti, gaffe diplomatica di Biden, o annuncio auto-avverantesi come nello stile del personaggio? Già durante la campagna elettorale presidenziale Biden aveva pronosticato imminente una crisi internazionale che avrebbe subito impegnato il neo-presidente per verificare di che "pasta fosse fatto". Nel gennaio successivo, quando l'insediamento di Obama non era ancora nemmeno ufficiale, Israele diede il via all'operazione "piombo fuso" a Gaza che provocò oltre mille morti, soprattutto civili.