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Honduras, il generale tempo

di Fabrizio Casari - 30/07/2009

 
 

E’ passato un mese dal colpo di stato in Honduras e il mantenimento del potere in mano all’oligarchia, che ha delegato ai militari la sua sopravvivenza, non pare subire scossoni travolgenti. I tentativi via cielo e via terra di Mel Zelaya di rientrare in patria sono falliti e la presenza in terra nicaraguense, nella città di Ocotal, a pochi chilometri dalla frontiera honduregna, sembrano per ora adatti solo al mantenimento della pressione politica, più che alla soluzione di forza. La stessa “mediazione” del Presidente del Costa Rica, Oacar Arias, per cercare d’imporre il rientro di Zelaya al tavolo delle trattative con i golpisti, non ha dato risultati. La situazione, nonostante i quotidiani piccoli fatti e le dichiarazioni più o meno convinte da parte della comunità internazionale, resta in stallo e le manifestazioni dei sostenitori di Zelaya al confine con il Nicaragua possono solo testimoniare un appoggio convinto quanto insufficiente sul piano dei rapporti di forza interni all’Honduras.

Anche da Tuxla, in Costa Rica, dove si è concluso il vertice dei paesi centroamericani allargato a Repubblica Dominicana e alla new entry Colombia (assente Ortega in aperta polemica) non sono arrivate proposte dirompenti (vedi l’isolamento commerciale e diplomatico dei golpisti, mandato di arresto qualora uscissero dall'Honduras). Sono arrivate solo dichiarazioni ovvie, quanto ormai visibilmente inutili, nelle quali si reitera “la condanna energica del colpo di stato” e si conferma “l’appoggio all’iniziativa presentata dal Presidente Oscar Arias in qualità di mediatore”.

Che la gestione politica del vertice sia stata in mano a Felipe Calderon (Messico), Oscar Arias (Costa Rica) e Alvaro Uribe (Colombia), cioè i tre paesi amici di Washington, avversari decisi dell’ALBA, con la benedizione della OEA guidata dal cileno Insulza, la dice lunga sulla partita interna all’assetto politico latino-americano che si sta giocando. Tanto per Washington - che pure reitera la condanna del golpe, taglia gli aiuti a Tegucigalpa e revoca il visto d'ingresso a quattro "ministri" di Micheletti – quanto per i suoi alleati, la preoccupazione principale è quella d’impedire che i paesi dell’ALBA prendano la leadership del continente nella gestione della crisi honduregna, giacché il ridimensionamento della sinistra latinoamericana negli assetti politici del continente risulta preminente rispetto al ristabilimento della democrazia in Honduras.

Per questo che Arias fosse l’uomo sbagliato per l’incarico giusto è opinione abbastanza diffusa nell’area dell’ALBA; troppo debole politicamente il personaggio, addirittura insignificante il peso del suo paese, Arias non è in grado di rappresentare nessuna influenza nei confronti della giunta Micheletti, mentre rappresenta egregiamente la volontà dilatoria dei paesi amici degli Usa. La scelta di Arias è tuttavia una scelta intelligente da parte della Casa Bianca e dei suoi alleati: l’opposizione di Ortega, Chavez, Castro e Morales all’iniziativa mediatoria del presidente costaricense, non può infatti che essere comunque moderata, vista l’impossibilità di opporsi alla mediazione in quanto tale, salvo vedersi accusati di atteggiamenti pregiudizievoli verso la trattativa (e dunque favorevoli alla soluzione di forza).

Quello che appare però evidente, è che la scelta di Arias, voluta dalla OEA e sostenuta dagli Usa, esprime esattamente il senso della strategia in campo: formalmente decisi contro i golpisti, sostanzialmente disponibili - anche attraverso quisquilie ed errori tattici - a far passare il tempo, elemento fondamentale nella risoluzione o no della crisi. Perché è proprio il tempo, che inesorabilmente scorre, a rappresentare l’ancora di salvezza dei golpisti.

La strategia dell’oligarchia e dei militari è chiara: se entro la fine di agosto o la metà di Settembre la situazione non muterà (se cioè il deposto, legittimo Presidente Zelaya, non sarà rientrato in patria) avrà inizio il periodo preelettorale, che potrebbe vedrebbe in Novembre le elezioni presidenziali. A quel punto, tecnicamente, la giunta golpista risulterebbe dimissionaria in attesa del voto e, in qualche modo, il rientro di Mel Zelaya risulterebbe quasi fuori contesto, comunque meno urgente, per buona parte della diplomazia latinoamericana, che affiderebbe alle urne la soluzione della crisi interna.

Dal momento poi che l’opposizione - messa a tacere nei media, arrestata e regolarmente repressa nelle sue manifestazioni di resistenza - non dispone al momento di un candidato forte, né di risorse necessarie per vincere le elezioni, niente di più facile che i partiti che hanno appoggiato il golpe e l’oligarchia locale che li possiede, possano vincere le elezioni. A quel punto, scommettono gli usurpatori, molte delle condanne - nel continente e a livello internazionale - verrebbero rapidamente meno, o si ridurrebbero comunque a litanìe prive di effetti concreti. Li aspetterebbe un po' di purgatorio declamatorio e niente più.

Sarà quindi il tempo a decidere la sorte del colpo di stato. La presenza di Zelaya in territorio nicaraguense, nel frattempo, rischia di aprire sia una crisi tra Nicaragua e Honduras, sia un’ulteriore recrudescenza dell’opposizione filoamericana in Nicaragua, (aperta sostenitrice del golpista Micheletti, sia per affinità che per la speranza – vana - di poter replicare a Managua quanto successo a Tegucigalpa) che ormai quotidianamente, accusa Ortega di tenere il cerino acceso vicino alla polveriera. Ma l’opposizione nicaraguense è solo ammalata d’emulazione velleitaria: quello che è successo in Honduras non sarebbe possibile in Nicaragua. Purtroppo però, par di capire, anche la storia del Nicaragua, non sembra replicabile in Honduras.