Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Una pagina al giorno: Dialogo kitsch fra due intellettuali snob, di Umberto Eco

Una pagina al giorno: Dialogo kitsch fra due intellettuali snob, di Umberto Eco

di Francesco Lamendola - 11/09/2009


Per una volta ci allontaneremo dalla regola sin qui seguita, quella di valorizzare autori meritevoli di essere letti, scegliendo di preferenza quelli poco noti o quelli ingiustamente dimenticati; e daremo un esempio di cattiva letteratura, per invitare il lettore a non aggiungersi alla schiera di coloro i quali seguono la corrente, e continuano a comprare i libri mediocri di qualche scrittore ormai affermato che, essendosi fatto un nome, può permettersi il lusso di stampare qualsiasi cosa, tanto gli unici a soffrirne sono gli alberi assurdamente abbattuti per fare la carta, e l'intelligenza di chi lo legge e non si accorge di essere preso in giro.
Fra questa macchine per l'industria editoriale, un posto eminente spetta a Umberto Eco, che continua a sfornare i suoi best-seller vivendo di rendita, dopo essersi definitivamente affermato presso il pubblico e una parte della critica che conta, con l'ingiustamente celebre «Il nome della rosa» (1980, vincitore del premio Strega e successo mondiale di vendite), reso ancor più un prodotto di larghissimo consumo intellettuale dal film omonimo, ancor più ingiustamente celebre, ma pur sempre celebre.
Molti critici hanno giudicato i romanzi successivi, specialmente «Il pendolo di Foucault» (1988) e «L'isola del giorno prima» (1994), più impegnati sia sul piano del linguaggio, sia su quello della tecnica compositiva; cosa che non ci trova d'accordo. È vero semmai che, mano a mano che Eco ha ripreso e sfruttato a fondo l'idea base del suo maggiore successo, sempre più si è lasciato prendere la mano dal gioco della narrazione fine a se stessa e dal gioco, altrettanto sterile, di un linguaggio elaboratissimo, ironico e cifrato, che vorrebbe essere allusivo, mentre finisce per essere solamente noioso e stucchevole oltre ogni limite di sopportazione.
Eco è stato un eccellente semiologo, negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, che, a un certo punto, ha deciso di trasformare in moneta spendibile la sua rara conoscenza e la sua notevole perspicacia nella decodificazione del linguaggio pubblicitario e di quello delle forme di comunicazione tanto amate dai giovani e da certa controcultura «facile», dal fumetto all'art brut: il tutto con una spruzzata di esistenzialismo pirandelliano, di cinismo alla Cioran e di affabulazione metafisica alla Borgés, ma senza dimenticare l'inevitabile omaggio al thriller vecchia maniera, condito però in salsa gotica e medievale.
Così, in un minestrone dove bollono insieme Tommaso d'Aquino e Lacan, Anselmo d'Aosta e i sociologi dell'ultima generazione, passando per Conan Doyle e per Indiana Jones, ha finito per specializzarsi in un nuovo genere letterario che è l'essenza del kitsch, dietro l'elegante sipario del pensiero debole, di cui l'Autore è un convinto assertore, e della polifonia semiologica, ove è in grado di sfoggiare un camaleontismo linguistico brillante ma superficiale, che non riesce a nascondere la penosa mancanza di contenuti.
O meglio, i contenuti ci sono: ma sono di un genere così modesto, e, per giunta, così scopertamente raffazzonato, spulciando qua e là tra i filosofi che poco o nulla hanno da dire, che li si potrebbe sintetizzare in poche frasi fatte, da «Baci Perugina».
In breve, si direbbe che la passione semiologica abbia preso la mano al Nostro, fino al punto di condurlo in un paese degli specchi dove tutto quel che gli resta da fare è contemplare narcisisticamente il proprio virtuosismo nel creare parole, storie e tematiche, allineando centinaia di pagine (i suoi romanzi sono tutti piuttosto voluminosi) per girare e rigirare sempre la medesima aria fritta, e spacciarla per merce di primissima qualità.
Tanto, se qualcuno scopre il trucco e se ne lamenta, a Umberto Eco resta pur sempre l'ultima difesa, quella dell'ironia: ma come, dirà al lettore deluso e un po' arrabbiato, possibile che tu non abbia capito che era tutto uno scherzo; possibile che tu sia una persona così terribilmente povera di spirito, da non sapere distinguere il teatro dell'assurdo di Becket e Godot, da un teatro che vorrebbe sembrare impegnato, ma è solamente patetico?
Ci sembra che a lui si potrebbero riferire perfettamente le parole che, ne «Il pendolo di Foucault», Lia rivolge a Casaubon (p. 47): «Tu vivi di superfici. Quando sembri profondo è perché ne incastri molte, e combini l'apparenza di un solido - un solido che se fosse solido non potrebbe stare in piedi.»
Così sono i romanzi di Eco: hanno l'apparenza della sostanza, in virtù della loro complessità; ma è un complessità tutta di testa, anzi, tutta di astuzia: sono dei furbi prodotti di successo preconfezionati, dalla formula collaudata e ormai quassi irresistibile. Si rivolgono a quell'individualista di massa che il Nostro, a suo tempo, aveva così bene analizzato nei suoi saggi sociologici: velleitario, frustrato, smanioso di emergere, ma privo di originalità e di creatività. In breve, i romanzi di Eco stanno al riflusso intellettuale della fine del secondo millennio, come le canzonette pseudo-intelligenti e pseudo-trasgressive dell'ineffabile coppia Battisti-Mogol, stavano al riflusso musicale degli anni Settanta.
Quello che manca loro in maniera vistosa e irrimediabile, vorremmo dire perfino impietosa, è lo spessore dei contenuti e la capacità di trasformarli in una parola scritta che sia evocativa e poetica, non solo tecnicamente suggestiva. Umbero Eco è il Giambattista Marino della post-modernità: potrebbe scrivere un romanzo di tremila pagine senza perdere una sola battuta in senso tecnico, anzi, sfoggiando ogni sorta di lampi d'arguzia barocca; ma senza dire assolutamente niente, perché non ha assolutamente niente da dire.
Un buon esempio di tale capacità narrativa, strepitosa dal punto di vista linguistico, ma vuota e addirittura involontariamente caricaturale, lo offre il brano che abbiamo scelto qui di presentare: il dialogo che si svolge al bar da Pilade, fra Jacopo Belbo e Casaubon (stucchevole è il gioco dei nomi allusivi e beffardi, che già aveva tenuto banco ne «Il nome della rosa» e che Eco, come tutti gli scrittori privi di senso della misura, ha reiterato e aumentato, fino a portarlo a dosi intollerabili per il lettore), in pieno 1968.
Da «Il pendolo di Foucault» (Milano, Bompiani, 1988, pp. 57-61):

«Ma dicevo del mio primo incontro con Belbo. Ci conoscevamo di vista, qualche scambio di battute da Pilade, ma non sapevo molto di lui, salvo che lavorava alla Garamond, e di libri Garamond me ne erano capitati alcuni tra le mani all'università Editore piccolo, ma serio. Un giovane che sta per finire  la tesi è sempre attratto da qualcuno che lavori per una casa editrice di cultura.
"E lei cosa fa?" mi aveva chiesto una sera che ci eravamo appoggiati tutti e due all'angolo estremo del banco di zinco, pressati da u folla da grandi occasioni. Era il periodo in cui tutti si davano del tu, gli studenti ai professori e i professori agli studenti. Non parliamo della popolazione di Pilade: "Pagami da bere, diceva lo studente con l'eschimo al caporedattore del grande quotidiano.  Sembrava di essere a Pietroburgo ai tempi del giovane Sklovskij. Tutti Majakovskij e nessun Zivago. Belbo non si sottraeva al tu generalizzato, ma era evidente che lo comminava per disprezzo. Dava del tu per mostrare che rispondeva alla volgarità con la volgarità, ma che esisteva un abisso tra prendersi confidenza ed essere in confidenza. Lo vidi dare del tu con affetto, o con passione, poche volte e a poche persone, Diotallevi, qualche donna. A chi stimava, senza conoscere da molto tempo, dava del lei. Così fece con me per tutto il tempo che lavorammo insieme, e io apprezzai il privilegio.
"E lei cosa fa?" mi aveva chiesto, ora lo so, con simpatia.
"Nella vita o nel teatro?" dissi, accennando al palcoscenico Pilade.
"Nella vita".
"Studio".
"Fa l'università o studia?"
"Non le parrà vero, ma le due cose non si contraddicono. Sto finendo una tesi sui Templari".
"Oh che brutta cosa," disse. "Non è una faccenda per matti?"
"Io studio quelli veri. I documenti del processo. Ma che cosa sa lei sui Templari?"
"Io lavoro in una casa editrice in una casa editrice vengono savi e matti. Il mestiere del redattore è riconoscere a colpo d'occhio i matti. Quando uno tira in ballo i Templari è qsasi sempre un matto".
"Non me lo dica. Il loro nome è legione. Ma non tutti i matti parleranno dei Templari. Gli altri come li riconosce?"
"Mestiere. Adesso le spiego, lei che è giovane. A proposito, come si chiana?"
"Casaubon."
"Non era un personaggio di 'Middlemarch'?"
"Non so. In ogni caso era anche un filologo del Rinascimento, credo. Ma non siamo parenti."
"Sarà per un'altra volta.  Beve ancora una cosa? Altri due, Pilade., grazie. Dunque. Al mondo ci sono i cretini, gli imbecilli, gli stupidi e i matti."
"Avanza qualcosa?"
"Sì, noi due, per esempio. O almeno, non per offendere, io. Ma insomma, a ben vedere, chiunque partecipa di una di queste categorie. Ciascuno di noi ogni tanto è cretino, imbecille, stupido o matto. Diciamo che la persona normale è quella che mescola in misura ragionevole  tutte queste componenti, questi tipi ideali."
"Idealtypen"
"Bravo. Sa anche il tedesco?"
"Lo mastico per le bibliografie."
"Ai miei tempi chi sapeva il tedesco non si laureava più. Passava la vita a sapere il tedesco. Credo che oggi succeda col cinese."
"Io non lo so abbastanza, così mi laureo. Ma torni alla sua tipologia. Cos'è il genio, Einstein, per dire?"
"Il genio è quello che fa giocare una componente in modo vertiginoso, nutrendola con le altre." Bevve. Disse: "Buonasera bellissima. Hai ancora tentato ili suicidio?"
"No," rispose la passante", ora sono in un collettivo."
"Brava", le disse Belbo. Ritornò a me: "Si possono fare anche suicidi collettivi, non crede?"
"Ma i matti?"
"Spero non abbia preso la mia teoria per oro colato.  Non sto mettendo a posto l'universo. Sto dicendo cosa è un matto per una casa editrice. La teoria è ad hoc, va bene?"
"Va bene. Adesso offro io".
"va bene. Pilade, per favore, meno ghiaccio. Se non entra subito in circolo. Allora. Il cretino non parla neppure, sbava, è spastico.  Si pianta il gelato sulla fronte, per mancanza di coordinamento.  Entra nella porta girevole per il verso opposto."
"Come fa?"
"Lui ci riesce. Per questo è cretino.  Non ci interessa, lo riconosci subito, e non viene nelle case editrici. Lasciamolo lì."
"Lasciamolo."
"Essere imbecille è più complesso. È un comportamento sociale.  L'imbecille è quello che parla sempre fuori del bicchiere. 
"In che senso?"
"Così". Puntò l'indice a picco fuori del suo bicchiere, indicando il banco. "Lui vuol parlare di quello che c'è nel bicchiere, ma com'è come non è, parla fuori. Se vuole, in termini comuni, è quello che fa la gaffe, che domanda come sta la sua bella signora al tipo che è stato appena abbandonato dalla moglie. Rendo l'idea?"
"Rende. Ne conosco."
"L'imbecille è molto richiesto, specie nelle occasioni mondane. Mette tutti in imbarazzo, ma poi offre occasioni di commento. Nella sua forma positiva, diventa diplomatico. Parla fuori del bicchiere quando la gaffe l'hanno fatta gli altri, fa deviare i discorsi. Ma non ci interessa, non è mai creativo, lavora di riporto, quindi non viene a offrire manoscritti nelle case editrici.  L'imbecille non eice che il gatto abbaia, parla del gatto quando gli altri parlano del cane.  Sbaglia le regole di conversazione e quando sbaglia bene è sublime.  Credo che sia una razza in via di estinzione, è un portatore di virtù eminentemente borghesi. Ci vuole un salotto Verdurin, o addirittura casa Guermantes. Leggete ancora queste cose voi studenti?"
"Io sì."
"L'imbecille è Gioacchino Murat che passa in rassegna i suoi ufficiali e ne vede uno, decoratissimo, della Martinica.  'Vous êtes nègres?" gli domanda. E quello: "Oui mon général!". E Murat: "Bravò, bravò, continuez!" E via. Mi segue? Scusi ma questa sera sto festeggiando una decisione storica della mia vita.  Ho smesso di bere. Un altro? Non risponda, mi fa sentir colpevole. Pilade!"
"E lo stupido?"
"Ah. Lo stupido  non sbaglia nel comportamento. Sbaglia nel ragionamento.  È quello che dice che tutti i cani sono animali domestici e tutti i cani abbaiano, ma anche i gatti sono animali domestici e quindi abbaiano. Oppure che tutti gli ateniesi sono mortali, tutti gli abitanti del Pireo sono mortali, quindi tutti gli abitanti del Pireo sono ateniesi."
"Che è vero."
"Sì, ma per caso. Lo stupido può anche dire una cosa giusta, ma per ragioni sbagliate."
"Si possono dire cose sbagliate, basta che le ragioni siano giuste".
"Perdio. Altrimenti perché faticare tanto ad essere animali razionali?"
"Tutte le grandi scimmie antropomorfe discendono da forme di vita inferiori, gli uomini discendono da forme di vita inferiori, quindi tutti gli uomini sono grandi scimmie antropomorfe."
"Abbastanza buona. Siamo già sulla soglia in cui lei sospetta che qualche cosa non quadri, ma ci vuole un certo lavoro per dimostrare cosa e perché. Lo stupido è insidiosissimo. L'imbecille lo riconosci subito (per non parlare del cretino), mentre lo stupido ragiona quasi come te, salvo uno scarto infinitesimale. È un maestro di paralogismi. Non c'è salvezza per il redattore editoriale, dovrebbe spendere un'eternità. Si pubblicano molti libri di stupidi perché di primo acchito ci convincono.  Il redattore editoriale non è tenuto a riconoscere lo stupido.  Non lo fa l'accademia delle scienze, perché dovrebbe farlo l'editoria?"
"Non lo fa la filosofia. L'argomento ontologico di Sant'Anselmo  è stupido. Dio deve esistere perché posso pensarlo  come l'essere che ha tutte le perfezioni, compresa l'esistenza.  Confonde l'esistenza nel pensiero con l'esistenza nella realtà."
"Sì, ma è stupida anche la confutazione di Gaunilone. Io posso pensare  a un'isola nel mare anche se quell'isola non c'è.  Confonde il pensiero del contingente col pensiero del necessario."
"Una lotta tra stupidi."
"Certo, e Dio si diverte come un pazzo. Si è voluto impensabile solo per dimostrare che Anselmo e Gaunilone erano stupidi.  Che scopo sublime per la creazione, che dico, per l'atto stesso in virtù del quale Dio si vuole. Tutto finalizzato alla denunzia della stupidità cosmica."
"Siamo circondati da stupidi."
"Non si scappa. Tutti sono stupidi, tranne lei e me. Anzi, non per offendere, tranne lei."
Mi sa che c'entra la priva di Gödel."
"Non lo so, sono cretino. Pilade!"
"Ma il giro è mio."
"Poi dividiamo. Epimenide cretese dice che tutti i cretesi sono bugiardi. Se lo dice lui che è cretese, e i cretesi li conosce bene, è vero."
"Questo è stupido."
"San Paolo. Lettera a Tito.  Ora questa: tutti coloro che pensano che Epimenide sia bugiardo, non possono che fidarsi dei cretesi, ma i cretesi non si fidano dei cretesi, pertanto nessun cretese pensa che Epimenide sia bugiardo."
"Questo è stupido o no?"
"Veda lei.  Le ho detto che è difficile individuare lo stupido. Uno stupido può pretendere anche il premio Nobel."
"Mi lasci pensare… Alcuni di coloro che non credono che Dio non abbia creato il mondo in sette giorni non sono fondamentalisti, ma alcuni fondamentalisti credono che Dio abbia creato il mondo in sette giorni, pertanto nessuno che non creda che Dio abbia creato il mondo in sette giorni è fondamentalista. È stupido o no?"
"Dio mio - è il caso di dirlo. Non saprei… Lei che dice?"
"Lo è in ogni caso, anche se fosse vero.  Viola una delle leggi del sillogismo. Non si possono trarre conclusioni universali da due particolari."
"E se lo stupido fosse lei?"
"Sarei in buona e secolare compagnia."
"Eh sì, la stupidità ci circonda.  E forse per un sistema logico diverso dal nostro, la nostra stupidità è la loro saggezza. Tutta la storia della logica consiste nel definire una nozione accettabile di stupidità. Troppo immenso.  Ogni grande pensatore è lo stupido di un altro."
"Il pensiero come forma coerente di stupidità."
"No. La stupidità di un pensiero è l'incoerenza  di un altro pensiero."
"Profondo. Sono le due, tra poco Pilade chiude e non siamo arrivati ai matti."
"Ci arrivo. Il matto lo riconosci subito.  È uno stupido che non conosce i trucchi. Lo stupido  la sua tesi cerca di dimostrarla, ha una logica sbilenca ma ce l'ha.  Il matto invece non si preoccupa di avere una logica, procede per cortocircuiti.  Tutto per lui dimostra tutto. Il matto ha una idea fissa, e tutto quel che trova gli va bene per confermarla.  Il matto lo riconosci dalla libertà che si prende nei confronti  del dovere di prova, dalla disponibilità  a trovare illuminazioni. E le parrà strano,  ma il matto prima o poi tira fuori i Templari."
"Sempre?"
"Ci sono anche i matti senza Templari, ma quelli coi Templari sono i più insidiosi. All'inizio non i riconosci, sembra che parlino in modo normale, poi di colpo…" Accennò a chiedere un altro whisky, ci ripensò e domandò il conto. "Ma a proposito dei Templari. L'altro giorno un tizio mi ha lasciato un dattiloscritto sull'argomento. Credo proprio che sia un matto, ma dal volto umano. Il dattiloscritto  incomincia in modo pacato. Vuole darci un'occhiata?"
"Volentieri. Potrei trovarci qualcosa che mi serve."
"Non credo proprio. Ma se ha mezz'ora libera faccia un salto da noi. Via Sincero Renato numero uno.  Servirà più a me che a lei. Mi dice subito se le sembra un lavoro attendibile."
"Perché si fida di me?"
"Chi le ha detto che mi fido? Ma se viene mi fido. Mi fido della curiosità."
Entrò uno studente, col volto alterato: "Compagni, ci sono i fascisti lungo il Naviglio, con le catene!"
"Io li sprango", disse quello coi baffi alla tartara che mi aveva minacciato a proposito di Lenin" Andiamo compagni!" Tutti uscirono.
"Che si fa? Andiamo?" chiesi, colpevolizzato.
"No," disse Belbo. "Sono allarmi che fa mettere in giro Pilade per sgombrare il locale. Per essere la prima sera che smetto d bere, mi sento alterato. Dev'essere la crisi di astinenza. Tutto quello che le ho detto, sino a quest'istante compreso, è falso. Buonanotte, Casaubon."»

Certo, non è facile immaginarsi un dialogo del genere, alle due del mattino, in un bar rigurgitante di studenti di sinistra e altri compagni dalla spranga facile: a meno che i suoi due protagonisti non avessero voglia di assaggiare personalmente il sapore della spranga. Di fatto, si esprimono come due checche insopportabili e si sbrodolano di reciproci complimenti, che farebbero arrossire le battone più incallite della tangenziale.
Quei giochini verbali a base di sillogismi sornioni e di piccoli rompicapi e di ossimori graziosi e di rebus che somigliano a dei veri e propri scioglilingua, non hanno altra ragion d'essere che quella di celebrare l'intelligenza superiore dei due intellettuali da strapazzo; e, dopo aver infilato una serie di perle d'ineffabile trivialità, culminano in una vera e propria apoteosi del narcisismo in chiave grottesca, con quell'acuto impareggiabile:
«Siamo circondati da stupidi.»
«Non si scappa. Tutti sono stupidi, tranne lei e me. Anzi, non per offendere, tranne lei.»
Il tutto dopo aver qualificato come stupidi, e liquidato sprezzantemente in due parole, sant'Anselmo da Aosta e Gaunilone, due delle più forti menti dialettiche del pensiero medievale.
Ci si potrebbe consolare pensando che Eco, forse, ha voluto fare qui non la descrizione, bensì la satira di un certo snobismo culturale, eternamente compiaciuto di se stesso e irrimediabilmente sprofondato in un kitsch ancor peggiore di quello delle gondole di Venezia in plastica o dei cappelli di paglia con il nastro con su scritto «Capri», ad uso e consumo dei turisti di non eccelse pretese intellettuali, e specialmente di quelli nordici.
Ahimé: molti, troppi indizi ci inducono a scartare questa compassionevole interpretazione, e a propendere decisamente per l'altra: che Eco, cioè, non abbia voluto affatto mettere in caricatura i suoi due personaggi attraverso i loro dialoghi grotteschi, degni di Ionesco ma senza la sua raffinata intelligenza; bensì rievocare, non senza una punta di nostalgia, i «bei tempi» di sessantottesca memoria, quando attempati studenti eternamente fuori corso e ambigui intellettuali borghesi che amavano l'assidua frequentazione della vita notturna, celebravano i propri fasti e potevano abbandonarsi senza pudore, a vele spiegate, all'esercizio  più sfrenato e inutile narcisismo intellettuale.
No: sembra proprio che il personaggio di Belbo sia stato pensato con simpatia, con affetto, persino con tenerezza; e, forse, con un chiaro riflesso autobiografico, come una di quelle creature care agli scrittori, perché vi riconoscono la parte più autentica di se stessi.
Ebbene, Belbo è uno scrittore fallito, che ha deciso di non affliggere il mondo pubblicando qualche altro romanzo senza talento e senza originalità, e che si vota al mestiere di redattore editoriale per profondervi con onestà le proprie doti di mente e di cultura, ma restando spettatore e senza alcuna pretesa a svolgere un ruolo da protagonista.
Sa di non avere la stoffa di colui che arriva a presentire cose nuove, e non vuole aggiungersi alla lunghissima schiera di ex promesse mancate, che intasano le biblioteche di mezzo mondo con i loro inutili volumi.
Un bel proponimento.
Che bisognerebbe rispettare sino in fondo, però: senza scivolare in quella forma di melensa civetteria, che consiste nell'esibire con impudicizia il proprio fallimento e, poi, nel tediare il mondo con l'amarezza del fallito (fallito in senso artistico, e non in senso commerciale), camuffandola da humour a denti stretti o, peggio ancora, da saggezza di vita, intinta nell'inchiostro dell'ironia brillante.
Per non parlare del cattivo esempio e del messaggio distorto che può trasmettere un libro come «Il pendolo di Foucault», messo insieme collezionando tutti i più vieti luoghi comuni sul complottismo mondiale, sulla disinformazione globale e perfino, udite udite, sui cavalieri Templari, che non sono mai scomparsi, ma che continuano ad agire dietro le quinte, a cospirare e a tramare chissà quali inconcepibili disegni lovecraftiani.
Già abbiamo visto un bel numero di giovani scrittori partire a loro volta sulle tracce del Sacro Graal, specialmente dopo aver visto che la posta in gioco è, se tutto va bene, piuttosto remunerativa. Non c'è bisogno di fare nomi, ce ne sono anche troppi.
A tutti costoro, l'immeritato successo di libri come «Il pendolo di Fouclault» non può apparire che come un incentivo e un miraggio: facendo loro credere che basti prendere un po' di materiale alla moda e saperlo mescolare nelle dosi giuste, con un linguaggio postmoderno e tanti, tantissimi dialoghi all'americana, per vedersi promossi al rango di scrittori di talento.
Anche se non si ha uno straccio di idea nuova da portare avanti, e anche se, tecnica a parte, non si possiede il dono di un rapporto creativo con la parola.
Avviene, un po', come per i ragazzotti e le ragazzotte che ingorgano gli studi di Canale 5, in programmi come «Amici» di Maria De Filippi, o, peggio ancora (se ciò fosse umanamente possibile), come la decima edizione de «Il Grande Fratello»: convinti che un po' di fortuna e molta sfacciataggine, possano creare dal nulla quella cosa che nemmeno un lungo studio potrebbe sostituire, se già non esiste: il talento personale.
Individualismo di massa, appunto.
È la personale visione del mondo di individui comunissimi, conformisti, banali, che vorrebbero diventare, con un colpo di bacchetta magica, individui assolutamente eccezionali e carismatici: e pretendono di riuscirci adoperando, ancora, i mezzi più comuni, più conformisti e più banali che esistano, e che adoperano altri cento, mille e diecimila altri piccoli ambiziosi privi di talento, come loro.