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Le mani sulle terre: un altro assalto all’Africa

di Ama Biney - 26/11/2009

 

 


 Ama Biney scrive per “Pambazuka News” sulla corsa ad acquisire terra in Africa da parte di governi ed investitori privati stranieri, alimentata dalle apprensioni per la sicurezza alimentare mondiale a fronte delle variazioni climatiche e della instabilità dei prezzi degli alimentari sui mercati internazionali. Avvertendo che “i rischi politici ed economici di queste acquisizioni di terre sono colossali e vanno ben oltre a qualsiasi profitto,” la Biney conclude che “i governi Africani dovrebbero  procurare la sicurezza e la sufficienza alimentare primariamente per i loro popoli.”

Come è possibile che nel XXI secolo, in un mondo che ha la potenzialità di sfamare ogni essere umano sul pianeta, la maggioranza dei popoli dell’Africa e del resto del Sud del Mondo, che è povera – mentre l’obesità spicca il volo in Occidente – stia soffrendo in modo dilagante la fame?  

Inoltre, perché di recente vi è stato un “accaparramento delle terre” in Africa da parte di paesi ricchi?  La risposta immediata alla prima domanda sta nella distribuzione ineguale e nel controllo delle ricchezze del mondo e del loro possesso in poche mani. La risposta alla seconda domanda è strettamente collegata alla prima e costituisce il punto focale di questo articolo.   

La fretta recente, vale a dire di questi ultimi 12 mesi, di acquisire terra in Africa ha la sua origine in un numero di fattori relativi alle preoccupazioni per la sicurezza alimentare globale, in particolare suscitate dall’aumento dei prezzi mondiali dei cereali fra il 2007-2008, aumento che ha scatenato sommosse per il cibo in più di 20 paesi in tutto il mondo, fra i quali Haiti, Senegal, Yemen, Egitto e Camerun.
Hanno contribuito allo stato di questi avvenimenti l’instabilità dei prezzi sui mercati internazionali e la speculazione sui prezzi a termine delle derrate alimentari. I paesi produttori di risorse alimentari hanno imposto dazi doganali sui raccolti di prodotti di base per minimizzare le quantità che venivano esportate. La conseguenza è stata un ulteriore aggravamento della situazione.

I Paesi del Golfo, Arabia Saudita, Bahrain, Oman, Qatar (che controllano il 45% del petrolio mondiale), constatavano di non essere più a lungo in grado di dipendere da mercati regionali e globali per procurare alimenti alle loro popolazioni. Perciò si sono affrettati ad accaparrarsi terre in Africa e sono i pionieri di questo agri-colonialismo per assicurare risorse alimentari alle loro popolazioni. Le implicazioni geopolitiche di ciò hanno avuto l’effetto che il cibo è probabilmente diventato l’ambita materia prima, al pari del petrolio, in un prossimo futuro.

Altri fattori comprendono il fallimento nell’affrontare le congiunture ambientali, come le variazioni climatiche, che hanno causato le carenze idriche e siccità in molti posti nel mondo. L’impatto della siccità in zone come la Rift Valley per il popolo Masai in Kenya e per i contadini del Punjab in Pakistan è stato totalmente disastroso.

In breve, questi sviluppi globali hanno indotto paesi come la Cina, la Corea del Sud, l’Arabia Saudita e il Kuwait, che hanno insufficienti terreni da arare, a ricorrere ad investimenti agricoli in Africa. A questi paesi si sono aggiunti la Malaysia, Qatar, Bahrain, India, Svezia, Libia, Brasile, Russia e l’Ucraina.

Visto che la popolazione mondiale è proiettata verso una crescita da 6 miliardi a 9 miliardi nel 2050, le potenzialità del pianeta a produrre in modo tanto abbondante come è avvenuto finora iniziano a ridursi. Il mondo deve cambiare le modalità di produzione del cibo, di cui molto viene consumato nelle zone più ricche del pianeta, e rallentare il relativo impatto negativo sull’ambiente. In caso contrario, le crisi generate dall’insicurezza alimentare a causa dell’aumento della domanda  diverranno catastrofiche negli anni a venire, quando la produzione di cibo non terrà più il passo con l’aumento della domanda.

Questo è evidente per paesi come l’Arabia Saudita che non possono più a lungo procurare cibo alle loro popolazioni, e per correre ai ripari cercano aggressivamente di acquisire terreni in altri paesi.

Questa “presa di possesso di terra” è proprio allarmistica?

Negli ultimi quattro mesi, sui media Occidentali è apparso un fiume di articoli con titoli di testa come: “La corsa al cibo: la domanda in aumento in Cina e in Occidente accende l’accaparramento di terra in Africa” [1] “La presa di possesso di terra si allarga al mondo” [2] e “Gli investimenti in Africa innescano il timore di tentativi di impadronirsi delle terre” [3] – tutti questi articoli hanno reso di pubblico dominio questo andamento emergente.

Mettendo da parte i titoli a sensazione, comunque questa tendenza risulta decisamente preoccupante per le implicazioni politiche ed economiche che suggerisce. La ragione di allarme fra gli Africani è giustificata, dato che la tendenza viene qualificata come un “sistema neo-coloniale” addirittura dal Direttore Generale dell’Organizzazione per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO) delle Nazioni Unite, Jacques Diouf.

Il Direttore Aggiunto della FAO, David Hallam, ammette: “Potrebbe trattarsi di una situazione in cui tutti hanno da guadagnare oppure di una sorta di neo-colonialismo con conseguenze disastrose per molti dei paesi interessati. Esiste un pericolo, che i paesi ospitanti, in modo particolare i più labili politicamente e privi di sicurezze alimentari, potranno perdere il controllo delle loro stesse risorse alimentari, quando invece ne hanno più bisogno.”

Parimenti, altri hanno fatto riferimento a questa situazione come “il nuovo colonialismo” e un “colonialismo agrario”. La realtà è che nell’ultimo anno milioni di ettari di terreno sono stati dati in affitto per la produzione agricola e per bio-carburanti da paesi quali il Ghana, Etiopia, Mali, Tanzania, Kenya e Sudan. Ad esempio, nell’aprile 2008 l’Arabia Saudita ha stretto un accordo con il governo della Tanzania per prendere in affitto 500.000 ettari di terreno coltivabile per la produzione di riso e di grano.[4]
I pro e i contro di queste nuove acquisizioni di terra su larga scala sono stati di recente analizzati in un documento dal titolo Land Grab or Development Opportunity? Agricultural Investment and International Land Deals in Africa – Appropriazione di terre o opportunità di sviluppo?Investimenti in agricoltura e affari internazionali con oggetto le terre in Africa - , pubblicato in giugno dalla FAO, dall’Istituto per l’Ambiente e lo Sviluppo (IED) e dalla Fondazione Internazionale per lo Sviluppo in Agricoltura (IFAD).

La posizione liberale degli autori è che il loro “scopo non è quello di presentarsi con risposte definitive, ma di facilitare un dibattito chiaro e deciso fra governi, settori privati e gruppi di interesse della società civile.” [5]

Gli autori fanno rilevare che “esiste una grande differenza tra piani annunciati [di vendere o dare in affitto terre] e l’acquisizione effettiva delle terre – e meno che mai il dare inizio alla loro coltivazione.”  Sostengono che molti degli acquisti di terra sono senza precedenti e di assoluto rilievo. Concordano con l’Economist che “gli investimenti in aziende agricole all’estero non sono una novità.” [6]  

In primo luogo, è senza precedenti la dimensione delle transazioni commerciali di terre che sono state oggetto di trattative. Il centro studi di Washington DC, l’International Food Policy Research Institute – Istituto Internazionale delle Ricerche sulle Politiche Alimentari (IFPRI), valuta che le transazioni si aggirano fra i 20 e i 30 miliardi di dollari USA e riguardano 15 – 20 milioni di ettari di terra coltivabile in paesi poveri in Africa, Cambogia, Pakistan e nelle Filippine.

Secondo il rapporto della FAO, queste gigantesche operazioni potrebbero costituire solo “la punta di un iceberg”.  Già 2,5 milioni di ettari (6.2 milioni di acri ) di terreno agricolo in cinque paesi dell’Africa sub-Sahariana sono stati acquistati o presi in affitto negli ultimi cinque anni per una cifra complessiva di 920 milioni di dollari USA (563 milioni di Lire Sterline) .[7]
La seconda importante caratteristica di queste nuove acquisizioni di terra è che sono incentrate sulla coltivazione di prodotti di base (grano, mais, riso) o per la produzione di bio-carburanti (jatropha curcas). Ad esempio, nel 2002 il Sudan ha sottoscritto con la Siria un Accordo Speciale di Investimento Agrario. Questo implica una cessione di terra in affitto cinquantennale da parte del governo Sudanese in favore del governo Siriano.

Secondo il documento della FAO, “la compagnia Hadco dell’Arabia Saudita, da quel che si dice, ha acquistato in Sudan 25.000 ettari di terra da semina con il 60% del costo del progetto a carico della Fondazione governativa Saudita per lo Sviluppo Industriale.” [8]

In Etiopia, il governo di Meles Zenawi ha di recente accettato un affare da 100 milioni di dollari USA per terreni agricoli per consentire all’Arabia Saudita di coltivare orzo e grano. 

In terzo luogo, in passato, gli investimenti in agricoltura all’estero venivano perseguiti da investitori privati. Attualmente, molte nuove transazioni avvengono da governo a governo. A volte gli acquirenti sono compagnie straniere. I venditori sono i governi ospitanti, come la Cambogia che nell’agosto 2008 ha dato in concessione terre ad investitori Kuwaitiani. Nello stesso anno, i governi del Sudan e del Qatar hanno costituito joint venture in Sudan.

Di solito la terra è data in affitto o messa a disposizione tramite concessioni, ma a volte viene venduta. In aggiunta alla complessità delle operazioni di acquisto della terra resta il fatto che, come sottolineato dal documento della FAO, “non vi è un unico modello dominante per accordi finanziari e di proprietà ma piuttosto una larga varietà di contratti localmente specifici fra governi e settori privati.”[9]

Si tratta di una situazione in cui tutti hanno da guadagnare?

Il documento FAO cerca di destreggiarsi fra il magnificare i vantaggi delle transazioni affaristiche sulle terre e di presentare critiche a queste.  Gli autori scrivono: “Questo contesto in rapida evoluzione crea opportunità, sfide e rischi. Gli investimenti crescenti possono produrre vantaggi su scala macro (aumento del Prodotto Interno Lordo ed entrate per i governi), e creare opportunità per l’aumento degli standard di vita locali. Per i paesi più poveri con terra abbastanza abbondante, l’arrivo di investitori può portare capitali, tecnologia, know-how ed accesso ai mercati, e può giocare un ruolo importante nel catalizzare lo sviluppo economico in zone rurali.

D’altro canto, le acquisizioni su larga scala possono avere come risultato sui popoli locali la perdita dell’accesso alle risorse da cui essi dipendono per la loro sicurezza alimentare e per i mezzi di sostentamento.”[10]
Quello che queste operazioni non spiegano chiaramente è l’impatto ambientale di un’agricoltura altamente intensiva – vale a dire terreni devastati, falde acquifere prosciugate e sistemi ecologici rovinati da contaminazione chimica. Questi saranno i costi da pagare da parte dei paesi ospitanti – nulla di diverso dalla distruzione dell’ambiente prodotta dallo sfruttamento in Nigeria nella regione del Delta del Niger dalla Compagnia Anglo-Olandese Shell.
La Dr.ssa Vandana Shiva, Direttrice della Fondazione per la Ricerca Scientifica, Tecnologica ed Ecologica in India, pone questioni sull’attuale entusiasmo in Occidente per i bio-carburanti, che non solo richiedono milioni di ettari di terra, ma, come lei puntualizza, “coltivazioni intensive e a livello industriale”. [11] I bio-carburanti costituivano un fattore in ombra prima dell’aumento dei prezzi alimentari mondiali del 2007-8, e comunque Shiva sottolinea che la produzione di bio-carburanti come alternativa ai combustibili fossili sta costringendo molti coltivatori a cambiare la loro produzione agricola, che altrimenti sarebbe stata dedicata a coltivare prodotti per alimentazione.   
Nell’India centrale, la regione del Chattisgarh ha visto diversi campi di jatropha devastati dagli abitanti dei villaggi (la jatropha produce semi oleosi che possono produrre biodiesel). Una donna arrestata per avere partecipato alle devastazioni ha dichiarato decisamente: “Il problema che noi abbiamo con la jatropha è che non la possiamo mangiare. Non la possiamo bruciare, non la possiamo usare in alcun modo. Il povero ricava i suoi mezzi di sostentamento dalla terra. La jatropha è utile solo come carburante. Visto che noi non possediamo alcun veicolo, la jatropha per noi è di nessun valore. Inoltre, un problema grosso è che se i nostri animali la mangiano muoiono.”[12]

Recentemente, è stato asserito che ad una compagnia Norvegese per bio-carburanti è stata offerta della terra nel Ghana settentrionale per creare una piantagione intensiva di jatropha. La gente del nord del Ghana dovrebbe prestare attenzione all’esperienza degli abitanti espropriati dei villaggi del Chattisgarh, che vogliono essere auto-sufficienti nella produzione alimentare, quando le loro terre sono state consegnate alla coltivazione della jatropha per il profitto.
Walden Bello giustamente sostiene che, divenuti indipendenti, molti paesi Africani erano auto-sufficienti nella produzione alimentare ed erano anche esportatori di prodotti alimentari. Questa situazione è drammaticamente cambiata.

Le politiche dei Programmi di Aggiustamento Strutturale (SAP), imposte dal Fondo Monetario Internazionale (IMF) e dalla Banca Mondiale (WB) durante gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, hanno contribuito a distruggere l’agricoltura Africana attraverso l’imposizione di condizionamenti come prezzo per ricevere da IMF e WB assistenza per pagare gli interessi sul debito. I governi Africani sono stati obbligati a rinunciare ai controlli governativi e ai meccanismi protezionistici e per giunta ad “abolire i controlli sui prezzi dei fertilizzanti e contemporaneamente a ridurre i sistemi di credito agricolo; chiaramente questo ha portato ad una domanda ridotta, a rendimenti più bassi e a più bassi investimenti.”[13]
Anche se IMF e WB insistevano che le loro politiche avrebbero indotto ad immediati investimenti stranieri, “le predizioni della dottrina neoliberista fruttavano precisamente l’opposto, paese dopo paese: il mettersi da parte dello stato ‘lasciava fuori per troppa ressa’ gli investimenti privati più che il loro ‘arrivo in massa’.” In breve, “come in molte altre regioni, in Africa gli aggiustamenti strutturali non consistevano semplicemente in sottoinvestimenti ma in dismissioni statali.”  Generalmente, i governi Africani, come quelli dell’Etiopia e del Sudan, stanno utilizzando l’argomento della ricerca di investimenti esteri immediati come motivo per cui hanno invitato i paesi ricchi ad acquisire terra nei loro paesi.

Anche prima di queste acquisizioni di terre senza precedenti, gli agricoltori in Africa erano stati costretti a coltivare prodotti richiesti dai mercati, se volevano guadagnarsi da vivere.

Pochi agricoltori hanno potuto fare scelte naturali. Spesso si indebitano per acquistare o prendere a noleggio macchinari, acquisire crediti per comprare sementi, fertilizzanti, o abbandonano del tutto l’agricoltura per trasferirsi in aree urbane alla ricerca di mezzi di sostentamento alternativi.   
Soprattutto, i rischi politici ed economici di queste acquisizioni di terre sono colossali e vanno ben oltre a qualsiasi profitto. Molte sono le ragioni.

In primo luogo, i rapporti di forza impari in queste operazioni mettono in pericolo i mezzi di sussistenza dei poveri. In buona sostanza, gli investitori esteri si fanno forti del potere del denaro per corrompere i gruppi dirigenti locali e di governo per i loro interessi.  In questo modo, i piccoli proprietari terrieri verranno calpestati, dislocati, se non spossessati della loro terra.

Ruth Meinzen-Dick, una ricercatrice dell’Istituto Internazionale delle Ricerche sulle Politiche Alimentari (IFPRI ) afferma: “Il potere di contrattazione nel negoziare questi accordi sta dalla parte degli investitori esteri, specialmente quando le loro mire sono appoggiate dallo stato ospite o dai dirigenti locali.”  

Spesso questi piccoli proprietari hanno scarsa educazione formale e non comprendono il complesso delle implicazioni dei paragrafi scritti a caratteri minuti nei documenti legali. Per giunta, l’ONU ed altre agenzie mettono in guardia che molti agricoltori Africani spesso non possiedono diritti formali sulla terra che coltivano e quindi verranno cacciati via in favore degli investitori.  
Secondariamente, molti paesi Africani non prevedono meccanismi o procedure legali tali da proteggere i diritti di questi piccoli proprietari. Ad aggravare la situazione, in queste negoziazioni contrattuali spesso ci si trova in presenza di insufficiente trasparenza e mancanza di controllo e di giusti equilibri. Questo crea un terreno fertile per la corruzione, particolarmente quando si riscontra un enorme divario fra quello che sta scritto nei codici legislativi e la realtà oggettiva che può essere manipolata a causa di interessi particolari. 
Ci si trova davanti ad un bisogno solo di maggior trasparenza o è necessario un codice di comportamento? Nell’incontro di luglio a L’Aquila, città del Centro-Italia, il gruppo G8 dei paesi più ricchi si è impegnato a sviluppare un protocollo sulle norme e le pratiche più opportune relativo all’acquisizione di terra nei paesi in via di sviluppo. Questo codice di comportamento viene in aiuto all’IFPRI e all’Unione Africana (AU).
Il discorso del “vantaggio per tutti” dell’agro-business Occidentale nasconde il fatto sottolineato da Raj Patel: “Quando gli agricoltori soccombevano di fronte alle banche, che rientravano in possesso e riacquisivano le loro terre, il tasso di suicidi nei contadini in tutto il mondo andava alle stelle.”[14] Mentre i dati rilevati di suicidi fra i contadini Africani non sono noti, secondo P. Sainath, tra il 1997 e il 2007, il numero ufficiale di agricoltori Indiani che hanno commesso suicidio ha raggiunto il numero di 182.936. Egli scrive: “Coloro che si sono tolti la vita erano profondamente indebitati – le famiglie di contadini indebitate erano raddoppiate nel primo decennio delle cosiddette ‘riforme economiche’ neoliberiste.” [15]

Intanto, risulta ironico che, mentre i contadini Indiani si suicidano, il governo dell’India vada alla ricerca di acquisire terra in Etiopia e in Sudan per coltivare prodotti alimentari.

Il barometro dell’angoscia sociale rileva l’aumento dei tassi di suicidio in paesi come lo Sri Lanka, la Cina e la Corea del Sud.

Patel sottolinea : “Tutto ciò non rappresenta solamente tragedie individuali, ma anche una tragedia sociale.”[16].

I suicidi parlano di una storia di impotenza politica ed economica di una comunità. Rappresentano il sintomo acuto dell’incapacità di una società ad assicurare non solo la sua sovranità alimentare, ma anche la sicurezza economica nelle mani del popolo. Per di più, i suicidi sono indicativi dell’assurdità della logica capitalista del libero commercio, tanto cara all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), che impone la validità della competizione che, a suo dire, eliminerà i produttori inefficienti.  
Nel frattempo, i contadini in Occidente continuano a ricevere sovvenzioni agricole che forniscono loro vantaggi nel gioco capitalistico e che permettono loro di mettere fuori mercato i contadini Africani.

Perché l’accaparramento delle terre è un argomento cruciale per gli Africani

Per la maggioranza degli Africani la terra rimane un problema politico carico di emotività.

Basta gettare lo sguardo sulla storia della colonizzazione in Africa, in paesi come lo Zimbabwe, il Kenya e il Sud Africa, per vedere come la terra non riveste solo una problematica relativa a risorse economiche, e quindi ai mezzi di sussistenza, ma è anche collegata all’identità.  

L’acquisizione continua di terre Africane è un argomento cruciale per l’Africa, dato che costituisce una dimensione integrale del rapporto di collaborazione neo-colonialista che esiste fra i gruppi dirigenti nei paesi Africani, i governi Occidentali e le corporation trans-nazionali.

Queste classi dirigenti continuano ad interpretare il ruolo dei guardiani dello Stato “redditiere”, che  stanno svendendo le risorse dello Stato, si tratti di petrolio, diamanti, coltan o terra, che dovrebbero essere utilizzate a profitto della maggioranza degli Africani, al fine di consolidare la loro propria base politica ed economica e di puntellare i loro illegittimi regimi in termini di difesa e di sicurezza.     A tal proposito, Frantz Fanon ha descritto queste classi dirigenti come una elite che considera se stessa come “non avere nulla a che vedere con la trasformazione della nazione; prosaicamente, questa elite rappresenta la cinghia di trasmissione tra la nazione e il capitalismo rampante, comunque camuffato, che oggi porta la maschera del neo-colonialismo.” [17]

Coscienti di questa maschera, noi dobbiamo domandarci: “ In che misura i dirigenti del Sudan e dell’Etiopia sono differenti dai capi e re Africani, che durante i giorni del colonialismo hanno ceduto per iscritto la loro terra, non avendo l’esatta consapevolezza di quello che stavano sottoscrivendo? Oggi, a differenza dei capi Africani dell’era coloniale, i leader Africani come Meles Zenawi e Omar Bashir firmano questi contratti in piena coscienza e calcolo meditato. 

Inoltre, in che misura si sarebbero sviluppati nelle modalità che attualmente rivestono l’Europa, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, se avessero venduto o dato in affitto enormi quantità di ettari delle loro terre ad altri paesi? Questa esternalizzazione di terra Africana è un aspetto profondamente negativo della globalizzazione ed è necessario che noi blocchiamo i nostri dirigenti che di proposito vogliono trasformare l’Africa ancora in una colonia. Queste collaborazioni neo-coloniali sono indirettamente una ri-colonizzazione delle risorse dell’Africa, che poco verosimilmente porta profitti equamente distribuiti a tutte le parti.”  
Per esempio, nel 2008 l’Unione Europea (UE) ha versato a paesi in via di sviluppo 125 milioni di Lire Sterline per permettere a moderne flotte Europee di pescare nelle acque di questi paesi. Queste operazioni commerciali hanno dato origine a polemiche e continuano a farlo.

Per anni motopescherecci a strascico provenienti da tutto il mondo e in particolare dall’Europa hanno pescato lungo le coste del Senegal, alcuni legalmente, altri fuori legge. Ogni anno, circa 25.000 tonnellate di pesce sono esportate verso l’UE. Molti grandi pescherecci battono bandiera del Senegal e probabilmente sono battelli Senegalesi.

Ma Moussa Faye di ActionAid, che ha fatto una campagna contro l’esaurimento delle risorse ittiche, direttamente fa notare: “Costoro stanno frodando il governo del Senegal e il popolo Senegalese, dal momento che in effetti si tratta di imprese Europee che vengono qui per le nostre risorse, esportano il pesce ed anche i loro profitti.  Io penso che questa rendita dovrebbe andare a favore del popolo Senegalese e dovrebbe essere fonte di beni di sussistenza per lo stesso popolo. Inoltre, esiste una seria limitazione del numero dei pescherecci a strascico autorizzati alla pesca.   

In Senegal, siamo in particolar modo dipendenti dalla pesca come fonte di proteine animali, il che significa che noi abbiamo a disposizione meno proteine animali per la gente, che non può permettersi di comprare da mangiare. Il risultato sarà la malnutrizione.” [18]

Come i pescherecci Europei sono impegnati nelle acque Africane per rifornire di pesce i loro popoli, così non vi sono dubbi che i paesi interessati all’acquisizione delle terre in Africa, gli Stati del Golfo, l’India, la Corea del Sud e la Cina, stanno cercando di assicurare cibo a buon mercato per i loro cittadini.

Analogamente, durante il tempo della tratta degli schiavi e del colonialismo in Africa, le nazioni Europee hanno saputo amministrare la tenuta di un tacito contratto sociale con le loro classi lavoratrici: la classe dirigente si sforzava di conservare al basso, quanto più le era possibile, il livello della fame e della deprivazione, garantendo quantità sufficienti di cibo che veniva messo a disposizione.

Questo contratto veniva mantenuto sulle spalle di milioni di schiavi Africani nel Nuovo Mondo e dei sudditi nelle colonie nell’Africa coloniale, che producevano a basso prezzo zucchero, the, cotone, caucciù, stagno, olio di palma, che venivano imbarcati verso i paesi metropolitani colonialisti.

Allora, come oggi, lo zucchero e gli altri prodotti agricoli a buon mercato venivano destinati a rendere calmi i lavoratori Europei. Alla luce delle sommosse che si sono scatenate in più di 20 paesi negli anni 2007-2008, la piena di transazioni di nuove terre gioca un identico ruolo, tenendo tranquilli quei cittadini a spese dei poveri dell’Africa ed in particolare delle comunità contadine Africane. In una tale situazione, chi darà da mangiare agli affamati dell’Africa?


Che fare?


Recentemente, i contadini Malgasci hanno mostrato agli agricoltori di tutto il mondo un esempio di quello che bisogna fare. In effetti, il loro esempio richiede la più ampia copertura mediatica a favore della divulgazione di una resistenza globalizzata e per la diffusione delle vittorie contro queste transazioni di terre. 

Gli agricoltori del Madagascar hanno fatto resistenza alla transazione neo-coloniale fra la Sud-Coreana Daewoo Logistics e il governo di Marc Ravalomana. L’annuncio dell’affare ha causato la caduta del governo di Ravalomana, quando la gente del Madagascar è stata informata che il governo di Ravalomana aveva intrapreso una trattativa per una transazione di terre, che prevedeva l’affitto di 1,3 milioni di ettari nel Madagascar orientale ed occidentale in concessione per 99 anni alla South Korean Company Daewoo Logistics. Il contratto dava alla Daewoo Logistics il diritto di coltivare ed esportare mais ed olio di palma verso la Corea del Sud per un ammontare di 6 miliardi di dollari USA. Il nuovo presidente del Madagascar, dell’età di 34 anni, dichiarava che nel suo paese la terra non era in vendita.

La Confederazione degli Agricoltori Malgasci (Fekritana) aveva mobilitato i suoi aderenti e lavoratori a resistere al contratto. Un suo funzionario operativo, Rihatiana Rasonarivo, affermava che non era nell’interesse del Madagascar dare in concessione terre in cambio di cibo:

“Noi non siamo d’accordo con l’idea di stranieri che vengono in Madagascar a comprare terra. La nostra preoccupazione è che prima di tutto il governo dovrebbe facilitare l’accesso alla terra agli agricoltori locali prima di trattare con degli stranieri. Uno dei più grandi problemi per i contadini del Madagascar è la proprietà della terra, allora noi pensiamo che sia ingiusto che il governo dia in acquisto o in concessione terre agli stranieri nel momento che i coltivatori locali non ne hanno a sufficienza.”

Allo stesso modo, nelle Filippine, un paese povero del Sud-Est Asiatico di 90  milioni di abitanti,  un uomo politico, Rafael Mariano, che rappresenta gli agricoltori Filippini, ha presentato una risoluzione che domanda un’inchiesta immediata su ciò che ha definito come il “grande accaparramento di terra da parte dello straniero”.  

Mariano ha dichiarato: “È il massimo della stupidità per il nostro paese contrattare le nostre terre nell’interesse della sicurezza alimentare di altre nazioni, quando è dipendente dalle importazioni per i nostri stessi bisogni di sicurezza alimentare.” 

Dunque, è necessario porsi la domanda, come sia possibile che l’Etiopia, un paese che in larga misura è messo in relazione con le carestie e con Live Aid, sia stato in grado di sottoscrivere accordi per la terra con l’Arabia Saudita, quando non può dare da mangiare alla sua stessa popolazione, ma promette di fornire cibo al popolo dell’Arabia Saudita?

Ugualmente, perché il governo del Kenya sta considerando di dare in concessione lotti di ricche terre costiere nel delta del fiume Tana, dove risiedono comunità di contadini e pastori, quando il Kenya al presente non solo deve fare fronte ad un’immensa penuria alimentare e a prezzi elevati, ma anche al terzo anno consecutivo di siccità?

Campagne di protesta, che hanno ricevuto scarsa copertura mediatica in Occidente ed in Africa, sono state portate avanti dal luglio 2009 al novembre 2009 in dieci paesi asiatici dalle organizzazioni militanti Asian Peasant Coalition – Coalizione Contadina Asiatica (APC) e International League of Asia Wide Peasants Caravan for Land and Livelihood – Grande Carovana Contadina della Lega Internazionale Asiatica per la Terra e il Sostentamento.  

Il tema della Carovana dei Contadini è “Stop all’accaparramento mondiale della terra! Lotta per un’autentica riforma agraria e per la sovranità alimentare dei popoli.”  

Questo movimento contadino di base sta cercando di portare alla luce la condizione dei coltivatori poveri i cui mezzi di sostentamento sono stati peggiorati dalle politiche neo-liberiste di corporation trans-nazionali, dal WTO e dall’industrializzazione su larga scala dell’agricoltura.

Gli obiettivi del movimento sono di “divulgare le vittorie degli agricoltori e le storie di successi nella lotta in favore di un’autentica riforma agraria, che ispirerà e porterà ad un cambiamento in agricoltura nell’interesse dei contadini asiatici.”

In risposta alla domanda “Che fare?”, esiste tutta una serie di azioni e di teatri di lotte che possono essere intraprese. 

Prima di tutto, i governi africani devono dare assoluta priorità alla sicurezza e alla capacità alimentare per i loro stessi popoli. Gli investimenti in agricoltura devono costituire una necessità e la priorità numero uno, così come è indispensabile aiutare i piccoli coltivatori a produrre raccolti migliori per arginare la fame sia nelle campagne che nelle città.  Gli agricoltori africani hanno bisogno di venire retribuiti in modo decente per produrre per la nazione e non per gli investitori stranieri.

Secondariamente, la società civile, che comprende anche sindacati e cooperative di coltivatori africani, deve insegnare alla popolazione locale e ai contadini su piccola scala che queste operazioni commerciali sulla terra non riguardano i loro interessi, anche se termini dal significato positivo o espressioni come “win-win, vantaggioso per tutti”, sembrerebbero affermare il contrario.  In terzo luogo, la resistenza su queste linee dell’Unione dei coltivatori Malgasci e della Coalizione Contadina Asiatica ha bisogno di essere condivisa dai sindacati degli agricoltori nel Sud del Mondo, non solo per spirito di solidarietà ma anche come prova concreta che un mutamento collettivo può fornire potenzialità e una realtà contro queste transazioni agrarie.    

Per ultimo, dobbiamo lottare per il diritto dei popoli africani a controllare le loro terre e le loro altre risorse fondamentali, e questo deve essere messo in atto nell’interesse della gente Africana.           

Note

[1] The Guardian, venerdì 3 luglio 2009.  
[2] http://farmlandgrab.org/6623
[3] http://news.bbc.co.uk/go/pr/fr/-/1/hi/business/8150241.stm
[4] Christian Science Monitor, 8 luglio 2009.
[5] Pag.16.
[6] 21 maggio 2009.
[7] The Guardian,  venerdì 3luglio 2009.
[8] documento FAO, pag.39.
[9] Ibid, pag.35.
[10] Ibid, pag.15.
[11] Future of Food, British Broadcasting Corporation, Channel BBC2 documentario, presentato da George Alagiah, 24 agosto 2009.
[12] Ibid.
[13] Walden Bello, ‘Destroying African Agriculture’ in Global Research, 5 giugno 2008.
[14] Raj Patel, Stuffed & Starved: Markets, Power and the Hidden Battle for the World’s Food System, Portobello, 2007, pag. 15.
[15] P. Sainath, ‘The Largest Wave of Suicides in History’ in CounterPunch, 12 febbraio 2009.
[16] Raj Patel, Stuffed & Starved, pag. 27.
[17] Frantz Fanon, The Wretched of the Earth, pag. 122.
[18] Future of Food, British Broadcasting Corporation, Channel BBC2 documentario, presentato da George Alagiah, 24 agosto 2009.

 

 In blu: Terre in vendita  | In rosso: Paese compratore


 Cliccare qui per avere un quadro più ampio dell’“ Accaparramento di territori da parte di investitori esteri nei paesi in via di sviluppo” .

 


 

Originale da: Pambazuka News Nr. 448-Land grabs: Another scramble for Africa


Articolo originale pubblicato il 17 settembre 2009

L’autore

Curizo Bettio è membro di Tlaxcala, la rete internazionale di traduttori per la diversità linguística. Questo articolo è liberamente riproducibile, a condizione di rispettarne l'integrità e di menzionarne autori, traduttori, revisori e la fonte.

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