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Iraq, la divisione dei beni

di Michele Paris - 20/12/2009

Le grandi assenti dall’asta che la settimana scorsa ha assegnato i diritti di esplorazione di numerosi pozzi petroliferi in Iraq sono state, inaspettatamente, le compagnie petrolifere americane. Le concessioni rilasciate dal ministero del Petrolio di Baghdad hanno premiato in particolare aziende europee e asiatiche, spesso riunite in joint ventures, molte delle quali hanno accettato condizioni imposte dal governo iracheno - e per loro relativamente poco vantaggiose - che avevano rifiutato solo pochi mesi fa. Così che dei dieci giacimenti aggiudicati nel 2009, appena due vedranno compagnie americane impegnate nelle operazioni di sfruttamento ed una sola svolgerà un ruolo di primo piano.

A farla da padrone è stata la compagnia pubblica malese Petronas, la quale ha conquistato i diritti per tre giacimenti, seguita dall’angolana Sonangol con due. Tra le altre, hanno ottenuto concessioni anche China National Petroleum Company (CNPC), le russe Lukoil e Gazprom, e le europee Shell (Olanda), Total (Francia), Statoil (Norvegia), British Petroleum e l’italiana ENI. Su dieci contratti siglati, ben sette sono stati conclusi da consorzi di più aziende, mentre per cinque pozzi situati nel centro e nel nord del paese, dove le condizioni di sicurezza rimangono precarie, non si è registrato alcun offerente.

Le sette compagnie statunitensi presenti alla più recente asta per il petrolio iracheno sono tutte uscite a mani vuote, mentre le sole ExxonMobil e la californiana Occidental Petroleum avevano lanciato offerte andate a buon fine in un’asta tenuta in precedenza. Vani sono stati anche i tentativi di Chevron e della texana ConocoPhilips, nonostante entrambe avessero coltivato rapporti molto stretti con il ministero del Petrolio iracheno negli ultimi anni.

Sintomatico, secondo alcuni, dell’influenza di Washington in declino su scala internazionale, il fallimento delle compagnie americane è dovuto ad una combinazione di fattori. Non da ultima la necessità di dover sostenere costi legati alla sicurezza in misura maggiore rispetto ai concorrenti di diversa provenienza, a causa della profonda ostilità diffusa in Iraq nei confronti della potenza occupante.

Impianti americani in territorio iracheno rappresenterebbero, infatti, un bersaglio facilmente attaccabile da parte delle forze ribelli ancora operanti nel paese. Le offerte americane, inoltre, sono risultate meno competitive rispetto a quelle presentate dalle alleanze euro-asiatiche, in grado di combinare le necessarie competenze tecnologiche a costi di manodopera più contenuti.

Per ironia della sorte, dunque, la promessa di sfruttamento delle enormi riserve di petrolio dell’Iraq, che ha rappresentato uno dei motivi principali della stessa invasione del 2003, è sembrata svanire per le compagnie americane. Le quali, innegabilmente, attendevano con ansia di poter tornare ad operare nel paese dopo che nel 1972, assieme alle altre multinazionali straniere, erano state cacciate in seguito alla nazionalizzazione delle riserve petrolifere voluta dal regime baathista.

Nel tentativo disperato di incrementare le entrate provenienti dall’estrazione del petrolio, l’Iraq si trova ora di fronte alla necessità di modernizzare un sistema di infrastrutture reso obsoleto da decenni di guerre e sanzioni economiche. Secondo il ministro del Petrolio, Hussein Shahristani, il governo iracheno avrebbe già sborsato più di 8 miliardi di dollari per aumentare una capacità estrattiva che a tutt’oggi rimane però attestata attorno ai due milioni di barili al giorno. Una quantità inferiore anche rispetto agli anni precedenti l’invasione americana. Per raccogliere i 50 miliardi necessari a diventare uno dei principali paesi produttori di petrolio e a portare la produzione a 12 milioni di barili entro il 2016, è stato allora necessario fare affidamento sulle compagnie straniere.

Le concessioni finora offerte dal ministero del Petrolio di Baghdad sono relative a riserve di quasi 40 miliardi di barili, vale a dire poco meno di un terzo di quelle stimate complessivamente nel paese (115 miliardi). Tali cifre collocano l’Iraq al terzo posto nel mondo per quantità di petrolio ancora da estrarre, dopo Iran e Arabia Saudita. I giacimenti petroliferi iracheni sono stati in realtà individuati almeno venticinque anni fa, ma da allora le sanzioni internazionali ne hanno, di fatto, impedito lo sfruttamento, congelando l’afflusso dei capitali necessari.

Resistendo alle pressioni americane, nell’assegnazione dei diritti di estrazione, le autorità irachene sono riuscite ad evitare la stipula di contratti troppo favorevoli alle compagnie petrolifere. La condivisione dei profitti derivanti dalla produzione del petrolio, infatti, è stata scartata a beneficio di un compenso fisso da corrispondere alle stesse compagnie per ogni barile estratto. Secondo i contratti ventennali siglati a Baghdad, le aziende appaltatrici hanno accettato somme che variano tra 1,35 e 1,50 dollari per ogni barile di petrolio, così che qualsiasi eventuale aumento del prezzo del greggio nel prossimo futuro andrà a beneficio delle casse del governo iracheno.

L’interesse maggiore nelle aste per la concessione dei diritti di sfruttamento era rivolto ai giacimenti presenti nel sud del paese, attorno alla città di Bassora. Qui si trova il giacimento di Az Zubayr, che dispone di riserve stimate tra i 4 e i 6 miliardi di barili e verrà sondato da una joint venture formata da ENI, Occidental Petroleum e Korea Gas. Ugualmente nel sud del paese, nei pressi del confine con l’Iran, è situato anche il più consistente giacimento iracheno, quello di Majnoon. Ad ottenere i diritti sui 12,58 miliardi di barili stimati sono state Shell e Petronas. Il secondo pozzo potenzialmente più produttivo del paese, West Qurna (12 miliardi di barili), è andato invece ad un consorzio guidato dalla russa Lukoil.

I contratti chiusi dalle multinazionali di mezzo mondo con il governo iracheno poggiano in ogni caso su fondamenta legali piuttosto incerte. Il Parlamento di Baghdad, infatti, non è ancora stato in grado di approvare regole trasparenti per l’industria petrolifera sul proprio territorio, né di fornire adeguate protezioni legali agli investitori esteri. Ad aprire la strada alle multinazionali in Iraq era stato il governo regionale curdo nel nord del paese. A due anni distanza, nonostante le carenze legislative, il governo centrale ha intrapreso ora la stessa strada, spinto dalla necessità di dare un impulso ad un settore che genera da solo il 90% delle entrate del paese.