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Baghdd: finzione compiuta

di Roberto Zavaglia - 14/03/2010

 

Nonostante l’abitudine, ci sorprende sempre che quanti hanno perennemente sulla bocca i peana sulla sacralità dei diritti dell’uomo, siano del tutto disinteressati alla sorte reale degli uomini,  delle donne e dei bambini di cui si proclamano difensori. L’importante, per loro, è affermare il principio e che le regole auree dell’ ideologia liberale siano rispettate. Lo abbiamo verificato, ancora una volta, leggendo i commenti della stampa sulle recenti elezioni irachene.
  Dai media Usa è giunta la “direttiva” di considerare la consultazione elettorale come la prova che l’invasione dell’Iraq ha, finalmente, raggiunto i suoi obiettivi, avviando il Paese verso la pace e la democrazia. Missione compiuta è il messaggio da trasmettere, dimenticando quanto prematuramente il presidente Bush avesse dato, nel marzo del 2003, lo stesso annunzio. Un po’ di prudenza, insomma, non guasterebbe. C’è però l’urgenza di  giustificare un inaudito bagno di sangue con il trionfo finale del Bene. Chissà se le vedove e i figli di quanti nel frattempo sono stati massacrati condividono.
  E’ utile verificare come tre importanti giornali italiani, di orientamento differente rispetto alla politica interna, abbiano usato, nelle loro cronache, più o meno gli stessi toni esultanti per descrivere la “vittoria della democrazia”. Ovviamente, “il Giornale”, più accanitamente favorevole sempre e comunque agli Usa, rispetto al “Corriere della Sera” e a “Repubblica”, è quello che ha sciolto maggiormente le briglia alla fantasia nel celebrare la “grande prova democratica” del popolo iracheno, ma anche i resoconti degli altri due quotidiani erano immuni da dubbi. Nei commenti dei rispettivi esperti di politica internazionale, il quotidiano di via Solferino è, invece, apparso un po’ più equilibrato, mentre “il Giornale” e “Repubblica”, così aspramente divisi nel giudizio rispetto al Cavaliere, si sono mostrati in quasi totale sintonia. Sul “Corriere”, Franco Venturini non ha celato alcune delle incognite che gravano sul futuro dell’Iraq, ma ha ugualmente definito “storiche” le elezioni, rappresentandole come un sicuro successo, senza alcun dubbio circa la loro effettiva regolarità e, soprattutto, senza ricordare quale devastazione il Paese abbia dovuto subire per celebrare il “sospirato” rito democratico.
  Di vittoria nella “battaglia della democrazia” ha scritto Bernardo Valli su “Repubblica”, rimarcando come la partecipazione al voto dei sunniti rappresenti un primo segnale di riconciliazione tra le diverse confessioni che, durante gli anni passati, si erano confrontate con le armi in pugno piuttosto che col voto. Da questa sottolineatura di un’armonia ritrovata -in un Paese, si badi bene, dove i quartieri misti, nelle città, sono solo un ricordo dopo l’orgia di violenze settarie-  ai toni lirici di Fiamma Nirenstein sul ”Giornale”, che si vanta personalmente del successo di quella “misteriosa aspirazione umana che è la libertà”, come fosse merito suo, c’è una differenza di stile, ma un uguale giudizio di fondo sulle conseguenze dell’invasione. Il confronto tra questi editoriali mostra la sostanziale unanimità della stampa di impronta liberale, ovvero di tutta la grande stampa nei Paesi occidentali, rispetto alla tragedia irachena.
  L’essenziale era, quindi, arrivare a una contesa accettata anche dai sunniti, ricostruendo così l’unità della nazione. Ne consegue che l’invasione statunitense è stata una scelta giusta e che le violenze, le devastazioni, i crimini accaduti sono stati un prezzo indispensabile per raggiungere l’obiettivo supremo della liberaldemocrazia dal volto islamico. In questa concezione incredibilmente “formalistica” della politica, nessuno poi si fa domande sulla regolarità delle elezioni, cui non risulta abbiano partecipato osservazioni stranieri. Eppure, qualche dubbio dovrebbe suscitarlo quella “Commissione Elettorale Irachena” che ha ammesso solo 1.800 candidati su 6.172, respingendo, tra l’altro, oltre 500 candidature con il pretesto di una vicinanza ideologica agli ideali del disciolto partito Baath. In Iraq, diversi giornalisti indipendenti affermano che non c’è da fidarsi per quanto riguarda la conta dei voti che, tra l’altro, non si sa in quali tempi avverrà. E’, insomma, un processo elettorale un po’ misterioso e stupisce che quanti sono ultrasospettosi riguardo alle votazioni in Iran, dimostrino così poca curiosità dall’altra parte del confine.
  Intanto, a sette anni dall’invasione, la violenza, anche se diminuita di intensità, continua a martoriare l’Iraq. Ne soffrono particolarmente i cristiani, che durante il regime di Saddam erano una comunità abituata a vivere in piena libertà la propria fede religiosa. In questo caso, i cantori delle radici giudaico-cristiane minacciate dall’islamismo, non sembrano molto preoccupati di tale “danno collaterale” verificatosi dopo la presa di Baghdad da parte delle truppe Usa. Si risponde che la democrazia è una lezione difficile da imparare, ma che col tempo tutto si sistemerà perché, quando la gente capisce di avere cominciato a vivere nel migliore dei mondi possibili, la smette di scannarsi e affina le proprie virtù civiche.
  Quanto sia costata la lezione, però, ancora nessuno lo sa con sicurezza. Gli occupanti, infatti, tengono il conto dei propri morti, ma si disinteressano del numero delle altre vittime. La differenza tra le diverse stime è enorme: si va da una cifra di 100mila vittime come conseguenza più o meno diretta dell’invasione a oltre un milione. Di sicuro si è verificato un massacro di proporzioni enormi, che tutta la ferocia di Saddam non sarebbe riuscita a produrre in altri decenni di potere. Il Paese in “via di pacificazione” è ancora devastato, i profughi, all’interno della nazione o all’estero, sono molte centinaia di migliaia, quasi tutte le famiglie piangono uno o più caduti, gli odi tra gruppi etnici e fedi diverse mietono, ogni giorno, nuove vittime e ipotecano negativamente il futuro del Paese.
  Il regime di Saddam sarà stato feroce quanto si vuole (probabilmente molto meno di come si racconta sui nostri giornali), ma era riuscito a costruire uno Stato sociale che, relativamente agli standard della regione, era più che decoroso ed ora non esiste quasi più. La classe intellettuale dell’Iraq –medici, scienziati, avvocati, professori universitari- era vasta e attiva, ma è una di quelle che è stata colpita più duramente. Molti dei sopravvissuti sono fuggiti all’estero e si calcola che ci vorrà più di una generazione per ricostruire un ceto intellettuale come quello di un tempo, con le conseguenze negative immaginabili.
  E, però, dice la stampa occidentale, si è riusciti a celebrare le elezioni. Bene, visto il bel risultato ci si predisponga ad invadere qualche altra decina di Stati nel mondo retti da dittatori : con qualche   milione di morti si dovrebbe riuscire a trasformali in tante meravigliose democrazie come le nostre. Cosa potrebbero volere di meglio?