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Afghanistan senza uscita?

di Michele Paris - 14/03/2010

 


Nel pressoché totale silenzio dei principali organi di stampa americani, qualche giorno fa la Camera dei Rappresentanti di Washington ha votato su una risoluzione per disporre l’immediato ritiro delle truppe a stelle e strisce dall’Afghanistan e la fine di un conflitto che si trascina da oltre otto anni. Il breve dibattito si è concluso - ovviamente - con un voto contrario bipartisan. Un esito che ha messo in luce il divario abissale creatosi ormai tra una classe politica e un presidente che continuano a sostenere quella che era stata lanciata come una “guerra giusta” contro i presunti responsabili dell’11 settembre ed una popolazione che, al contrario, é sempre più sfiduciata nei confronti di una campagna planetaria contro il terrore che ha mietuto oltre mille vittime solo tra i militari americani.

Nonostante i chiari segnali domestici di contrarierà alla guerra in Afghanistan, sul finire dello scorso anno, la Casa Bianca, su richiesta dei vertici militari, aveva dato il via libera al dispiegamento di altri 30 mila soldati da ultimare entro l’estate del 2010. Così, la progressiva trasformazione di un conflitto appartenente all’Occidente (NATO) in uno sostenuto in grandissima parte dagli USA, è giunta ironicamente proprio in concomitanza con il crescente scontento dei cittadini americani; quanto meno, di una parte dello stesso Partito Democratico.

Per contrastare i malumori largamente diffusi nel paese nell’anno delle delicatissime elezioni di medio termine, Obama e il Pentagono hanno dato il via lo scorso febbraio all’offensiva propagandistica di Marjah (Operazione Moshtarak). Questa località, situata nella provincia meridionale di Helmand, è stata descritta dal comandante delle truppe NATO in Afghanistan, Generale Stanley McChrystal, come un’importante città densamente popolata e come una vera e propria roccaforte talebana.

E’ stata una rappresentazione totalmente fuori dalla realtà, ma prontamente ripresa e diffusa dalla stampa “mainstream”, dettata dalla necessità di diffondere un qualche ottimismo con un’operazione relativamente agevole in un’area tutt’altro che essenziale. Marjah, infatti, appare piuttosto come un distretto rurale nel quale vivono meno di 100 mila abitanti in un’area poco più vasta della città di Washington.

Sull’onda del malcontento di una parte consistente dei propri elettori, una manciata di deputati democratici liberal, guidati dall’ex candidato alla presidenza Dennis J. Kucinich (Ohio), hanno allora spinto con i leader della Camera per portare in aula una risoluzione che chiedeva il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan entro 30 giorni dalla sua approvazione. Per quanto le speranze di vedere approvata una simile misura - fondata sul Wars Power Act del 1973, che consente al presidente l’impiego di militari solo in seguito all’autorizzazione del Congresso - fossero minime anche tra gli stessi promotori, l’auspicio era di avere almeno un dibattito pubblico che facesse finalmente emergere le frustrazioni per una guerra senza prospettive.

Prima della votazione finale, che ha bocciato l’iniziativa con 356 contrari e 65 favorevoli, la discussione coperta da uno sparuto gruppo di giornalisti si è risolta in realtà in brevi dichiarazioni che, in gran parte, hanno completamente ignorato l’opposizione alla guerra della maggioranza degli americani. Se pure non sono mancati interventi incisivi, come quello del deputato democratico della Florida, Alan Grayson, il quale indossando una cravatta con il simbolo della pace ha definito la guerra in Afghanistan una “occupazione” e perciò “incostituzionale”, l’opinione più diffusa tra la maggioranza ha ricalcato la posizione interventista della Casa Bianca. Agli albori della nuova strategia anti-talebana, già trionfale secondo la propaganda ufficiale, sarebbe insomma un errore abbandonare l’Afghanistan.

Con l’opposizione alla risoluzione di Kucinich, già chiaramente espressa alla vigilia dai leader di entrambi gli schieramenti, alla fine 189 democratici hanno votato contro e 60 a favore. Tra i repubblicani, i contrari sono stati 167 e i favorevoli 5, tutti per motivi di bilancio, tra cui un altro ex candidato alla presidenza, il deputato libertario del Texas Ron Paul. Anche in caso di esito positivo, la misura non avrebbe avuto praticamente nessun effetto: il Senato avrebbe dovuto infatti ratificarla e, anche in tal caso, si sarebbe fermata di fronte al sicuro veto presidenziale. In aggiunta, Obama avrebbe in ogni caso avuto la possibilità di mantenere le truppe in Afghanistan fino al 31 dicembre, invocando ragioni di “sicurezza nazionale”.

Secondo quanto annunciato dal presidente lo scorso dicembre, il contingente militare americano dovrebbe teoricamente iniziare il ritiro dal paese pochi mesi dopo tale scadenza, nel luglio del 2011. Previsione ribadita recentemente anche dal Segretario alla Difesa, Robert Gates, ma che appare in realtà solo una vaga promessa per placare l’opposizione della sinistra del Partito Democratico e dell’opinione pubblica. Infatti la smobilitazione, a partire dall’estate del prossimo anno, come è stato più volte sottolineato dal Pentagono e dall’amministrazione Obama, avverrà solo se “esisteranno le condizioni sul campo”. Un’eventualità che appare remota, alla luce dell’andamento del conflitto.

A sottolineare la distanza tra il sentimento del popolo americano e i suoi rappresentanti a Washington, in concomitanza col voto alla Camera, lo stesso Gates si è recato prima a Kabul per incontrare il presidente afgano, Hamid Karzai, e successivamente nelle basi americane situate nelle province di Helmand e Kandahar per discutere della prossima escalation militare. Proprio nella città di Kandahar, realmente un baluardo della resistenza talebana, dovrebbe concentrarsi a breve la nuova offensiva delle forze ISAF in Afghanistan. Un’operazione che nei prossimi mesi testerà l’efficacia della strategia statunitense e, soprattutto, la disponibilità dell’opinione pubblica americana ad accettare un probabile ulteriore massacro per una guerra nella quale non crede più da tempo.