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Musica per lupi

di Mario Grossi - 04/05/2010


Ascoltateli – i lupi della notte. Che musica che fanno!

Bram Stoker, Dracula

Secondo alcuni, nel 1945, le luminose truppe dell’Armata Rossa avevano riportato la libertà in buona parte delle nazioni dell’Est europeo che avevano rischiato di finire per sempre sotto gli scarponi chiodati del Reich millenario. Secondo altri, orde mongole fanatizzate dall’alcool, stesa una plumbea cortina, avevano imposto governi fantoccio, creati sulla punta delle baionette, in quelle terre che si apprestavano a passare un cinquantennio, o giù di lì, in condizioni di paraschiavitù. Sta di fatto che dall’altra parte della cortina di ferro non trapelò, se non con il contagocce, mai nulla sulla reale situazione di quei paesi. Ogni tipo di dissidenza o di pensiero non allineato era trattato come un’eresia. Il regime sovietico aveva esportato il credo bolscevico in tutto l’Est europeo.

Cominciarono però in modo clandestino a filtrare testimonianze che hanno arricchito sempre di più il quadro. Fu così che in Occidente cominciarono a essere pubblicati, spesso derisi e marginalizzati dall’intellighenzia fiancheggiatrice, i testi di Solgenitsin, I racconti della Kolyma di Salamov, gli scritti di Sakharov, che si erano aggiunti alla già corposa bibliografia che trattava il tema dell’universo concentrazionario sovietico e di come uno stato totalitario si muoveva per ricondurre tutti allo stesso pensiero.

Se dell’Urss si sapeva moltissimo, degli altri paesi satelliti si sapeva meno, forse anche perché, da sempre ai margini della storia, interessavano a pochi. Della Romania del dopoguerra, ad esempio, non si conosceva molto. A restituire parzialmente il clima di quella nazione desolata ha contribuito un romanzo di Dario Fertilio Musica per lupi pubblicato da Marsilio nel marzo scorso.

Romanzo storico che descrive uno dei più osceni atti carcerari del dopoguerra e restituisce in maniera agghiacciante un esperimento che prende le mosse da uno dei dettami fondamentali di ogni totalitarismo: la rieducazione coatta dei dissidenti e l’edificazione di quell’uomo nuovo tanto vagheggiato che sarebbe dovuto nascere dalle spoglie morte dell’umanità precedente.

È il racconto di come il tentativo di raddrizzare il “legno storto” dell’umanità porti inevitabilmente alla barbarie.

La storia è presto raccontata. Tra il 1949 e il 1952, nella prigione di Pitesti, un gruppo di detenuti capitanati da Eugen Turcanu avevano costruito un sistema di assoggettamento dei reclusi volto, nello spirito della rieducazione rivoluzionaria, a ricostruirli e trasformarli in uomini nuovi, mattoni primi del nuovo stato. Non agivano per loro iniziativa ma per conto degli assoluti vertici dello stato.

Il governo di Petru Groza e Ana Pauker aveva lasciato mano libera al Ministro dell’interno Teohari Georgescu, che aveva trasmesso l’ordine al capo della polizia segreta, generale Alexandru Nikolski, che aveva incaricato dell’esecuzione il colonnello Zeller, che l’aveva affidata al direttore della prigione di Pitesti, Dumitrescu, il quale aveva reclutato, fra i dannati, Turcanu perché agisse senza scrupoli.

Il romanzo modella questa pasta vischiosa in uno stile onirico che ne costituisce il pregio maggiore. A rendere il romanzo sconvolgente non è tanto la descrizione delle infinite brutalità fisiche e psichiche cui i reclusi furono sottoposti, quanto la ricostruzione del clima che avvolgeva i detenuti, alle prese con un rituale brutale che ne minava, fin da prima dell’accesso al carcere, la persona.

In ogni breve capitoletto è raccontato lo stato d’animo di un diverso recluso nelle fasi successive della rieducazione che rispettava una precisa liturgia atta a sprofondarlo, come in una bolgia infernale, in una realtà altra dalla sua vita precedente e proiettandolo in un tempo sospeso che non aveva inizio e non aveva fine, tanto da fargli dubitare che il suo completo assoggettamento potesse alfine liberarlo dai tormenti subiti.

L’inizio della liturgia era rappresentato dal viaggio al carcere, durante il quale il detenuto era costretto al silenzio più totale, guardato a vista da un poliziotto che talvolta rompeva il silenzio, insinuando, con qualche frase allusiva, ciò che il detenuto avrebbe trovato dietro le sbarre. Da questa macerazione, fatta di dubbi e ansie crescenti, il detenuto era tradotto in una cella, in completo isolamento, che si protraeva per alcune settimane. Nel buio, nella solitudine e nel silenzio, rotto solo da lontani rantoli e ululati, il dissidente cominciava a perdere la sua baldanza e le sue certezze e iniziava a sprofondare in un mondo notturno in cui i fantasmi di ciò che gli aleggiava intorno si andavano condensando nella sua testa, come tarli, prima di tramutarsi in violenze reali.

Poi il passaggio nella Camera 4 Ospedale, arredata in maniera bizzarra. Ai lati un soppalco con pagliericci e al centro un comodo largo letto offerto la prima notte all’ultimo arrivato.

“Dormirai qui” gli annuncia infine l’atleta, battendo il pugno sul letto dove stanno seduti. “Perché tocca a me?” chiede curioso Angelescu. “Per rispetto al più anziano e irreprensibile di tutti noi” sentenzia Turcanu, seriamente.”

“Dunque, lui sarà l’unico a dormire in un vero letto, questa notte, mentre gli altri quaranta della Camera 4 Ospedale dovranno accontentarsi dei giacigli sul soppalco”.

E nella notte avviene la prima violenza, Angelescu, senza motivo, viene massacrato con un bastone e fa la sua prima raccapricciante scoperta. Ogni detenuto ha, a lui è toccato proprio Turcanu, il capo della banda, “un amico speciale”, che a comando gli riserva le bastonature e tutte le altre violenze di rito.

Carnefice e vittima saldate da un perverso cordone ombelicale. Dividono la stessa cella, uno protegge e brutalizza l’altro, senza soluzione di continuità. L’”amico speciale” non entra nella cella per pestarlo e poi se ne va, lasciandolo tranquillo almeno per qualche ora. La violenza è sempre al suo fianco, per sfinirlo anche quando non è esercitata. Aleggia sempre pesante intorno al detenuto, che non sa mai quando la subirà, anche perché inflitta senza motivo alcuno.

La rieducazione poi procede con quelli che sono chiamati gli “smascheramenti” nei quali il detenuto confeziona la sua “autobiografia”, raccolta da un membro della banda su tavolette di sapone utilizzate per redigere la sua confessione. Negli smascheramenti il detenuto si accusa di tutte le nefandezze possibili, anche inventandosele, per ingraziarsi il suo carnefice. Lo smascheramento passa attraverso l’autoaccusa, poi attraverso l’accusa degli amici, dei familiari, dei conoscenti ed è tesa a smantellare nel rieducando l’apparato di sentimenti e legami con il mondo precedente, per avviarlo su quella strada che lo porterà alla sua nuova personalità, che lo tramuterà a sua volta in carnefice, pronto non solo a denunciare i suoi, ma anche a usare loro violenza all’occorrenza, come capita a un detenuto che zelantemente si premunirà di bastonare a morte un suo zio amatissimo, anch’esso recluso a seguito della sua delazione.

Tutto questo, pur sconvolgente, c’era già noto dalla montagna di scritti che hanno preceduto questo romanzo. Quella che invece è la parte più raccapricciante è la descrizione della liturgia perversamente inversa che Turcanu e i suoi mettono in scena la vigila di Natale. Liturgia che passa attraverso la Comunione, il Battesimo, la Processione e la rappresentazione della Natività.

Eccola la Comunione. “Da oggi in poi, è proibito andare ai gabinetti” avverte con aria gioiosa. “Per nessun motivo e senza eccezioni. Capito? Quando dovete scaricare, ci sono le gavette. Ognuno nella sua, chiaro vero? E dopo naturalmente dovrà svuotarla”. Ogni recluso dovrà cibarsi, se vuole svuotare la sua gavetta, dei suoi stessi escrementi. Operazione che fa da preambolo al Battesimo.

“Oggi” riprende Zaharia “è la santa vigila di Natale, perciò sarà opportuno festeggiarla con cuore puro. Io lo so che la maggior parte di voi crede ancora fermamente nel Bastardo, e nella Puttana che l’ha generato. Perciò, se ci tenete a esserne degni, dovrete essere battezzati”. Al segnale la porta della Camera si apre, entrano due detenuti robusti portando una tinozza traboccante, le feci galleggiano nell’urina e lasciano una scia lungo il percorso; il tutto viene posato accanto al letto usato dagli officianti per i riti degli smascheramenti”.

Ognuno deve immergere la testa, e tenercela fino a soffocare, nella tinozza, mentre un gruppo di officianti, agghindati con lerce tuniche, cantano. “Io ti battezzo” recitano all’unisono i salmodianti “nel lezzo della sacra merda benedetta, e con questo piscio benedetto, nel nome…”.

Terminata questa parte della cerimonia si passa alla Processione “sulla porta della Camera 4 Ospedale, accompagnato da uno scalpiccio di passi, è comparso ora Eugen Turcanu”.

“Pregate, fratelli cari, perché il sacrifico che sta per compiersi giunga alle orecchie del Re di Giudea” ordina il luogotenente di Turcanu. E mentre tutti, nella Camera, si voltano per assistere, avviene alle loro spalle l’ingresso del corteo. Si tratta di cinque personaggi truccati in modo strano e disgustoso, sulle prime del tutto incomprensibile; i due ai lati indossano maschere animali ricavate da sacchetti di carta, mentre i volti di un’altra coppia, truccati in modo grossolano con carbone e parrucche, dovrebbero rappresentare Giuseppe e Maria. Al centro, l’unico senza maschera e immediatamente riconoscibile nella parte di Gesù, è lo studente di teologia Gioga Pintilie. ““Avanti” ordina Popa Tanu al Gesù nel saio, e allora lo studente di teologia si dirige verso i due che portano le maschere dell’asino e del bue, i quali nel frattempo si sono messi in posizione.

Gioga si genuflette davanti alle loro natiche denudate e pronuncia alcune parole a bassa voce chiamandoli sacre icone e infine baciandoli rispettosamente, ciascuno per tre volte”.

“Tutti intonano il canto dei tre Re arrivati da Oriente, pieni non di gioia ma di sperma, e guidati da una stella cometa che si rivela una vulva gigantesca disegnata a colori su un cartello appeso alle loro spalle”.

Per finire con la rappresentazione della Natività “Adesso potete cominciare” ordina di nuovo Popa Tanu. A ognuno è assegnato infatti un ruolo, e così Maria soddisfa in ginocchio un estasiato Giuseppe, il quale a sua volta si fa sodomizzare dall’asino, e Gesù alle spalle di Maria compie quello che deve, mentre il bue lo prende a sua volta”.

“Quando tutto è consumato, Turcanu ammette all’orgia l’intera camerata, concedendo persino il buio assoluto affinchè ognuno possa assumere senza remore il ruolo preferito, salvo poi scambiarsi di posto, a piacimento ma rapidamente, con chi sta accanto”.

Ancor più raccapricciante questa rappresentazione liturgica se si pensa che la maggior parte dei reclusi, sono giovani che hanno un passato nelle file della Legione dell’Arcangelo Michele, intrisa di una religiosità profonda fatta di digiuno, canto, preghiera e militanza. Sembra Salò. Le 120 giornate di Sodoma in salsa bolscevica.

Con questa sacra orgia, cui tutti partecipano, i reclusi di Pitesti varcano una soglia inimmaginabile da loro stessi. Assaggiano una religione selvaggia e violenta che li conduce in un gorgo che spezza la loro vita precedente, annichilisce la loro individualità, li trasforma in pervertiti animali, li mescola in una condivisione luciferina ai loro carnefici.

A questo punto rimane da chiedersi se questo esperimento folle e perverso è frutto di un sadismo criminale individuale o del totalitarismo stesso, implicitamente sadico nella sua ideologia.

E la risposta è che è il totalitarismo, nella sua essenza, profondamente sadico ed è per questo che trova sempre sulla sua strada dei sadici che di buon grado si prestano con cieca dedizione.

Se è stato possibile reperire un Mengele o un Hoss, sarà sempre possibile reperire un Turcanu. Non si sentano esclusi da questo gioco coloro che hanno assunto il liberalismo e il capitalismo occidentale come loro stella polare. In ogni istituto, anche dell’Occidente evoluto e democratico, allignano i germi del totalitarismo.

Come ci ha insegnato Stanley Kubrick nel suo Full Metal Jacket, si trova sempre, in ogni chiesa, in ogni scuola, in ogni sezione di partito, in ogni consiglio di amministrazione, in ogni spettacolo d’intrattenimento TV, magari paludato da spot pubblicitari variopinti, un sergente di ferro pronto ad annientare ogni passato, ad annichilire ogni individualità, a insinuare il sadismo totalitario all’interno anche del più innocuo circolo degli anziani.

Un sergente di ferro pronto, sempre in nome dei più alti ideali democratici, a raddrizzare il “legno storto” dell’umanità.

Turcanu finì fucilato nel 1954, con un’accusa falsa di alto tradimento. Per coprire le palesi e ormai smascherate responsabilità dei vertici dello stato romeno, si disse che avesse ideato l’esperimento di Pitesti con la complicità di fascisti fuoriusciti, capitanati da quel Horia Sima che, negli ultimi anni calamitosi prima dell’invasione sovietica, aveva guidato la Guardia di Ferro.

Turcanu aveva militato, per un brevissimo lasso di tempo, proprio in quella formazione politica, prima di passare alla fede comunista (e questa la dice lunga sulla sua adesione al movimento guardista) e questo bastò per costruire il capo d’accusa falso nei suoi confronti.

Di lui rimane un lungo diario, una sorta di manuale d’istruzione per futuri torturatori che supera di gran lunga in orrore il sistema di rieducazione sovietico teorizzato da Anton Makarenko da cui aveva preso le mosse.

Il merito di Fertilio è quello di aver restituito il clima di Pitesti, l’aria soffocante, il buio che lentamente e inesorabilmente, con lentezza lucida e studiata, si chiudeva ogni giorno di più sui detenuti.

Se si pensa che simile sorte toccò a circa due milioni di romeni (su 18 milioni del totale della popolazione) si comprende anche come l’esperimento di Pitesti, e degli altri innumerevoli impianti concentrazionari, non era solo un tentativo isolato e per pochi. Era un disegno deliberato per ridurre un intero popolo alla schiavitù.

In vista di un radioso futuro progressivo che non si realizzò mai!