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Schiavi della rivoluzione industriale

di Michael A. Hoffman - 20/05/2010

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Anni fa, il primo ministro australiano, Paul Keating, rifiutò di mostrare “adeguato rispetto” verso la regina inglese Elisabettta II, durante la sua visita di Stato. In risposta, Terry Dicks, membro conservatore del Parlamento britannico, disse: “E’ un Paese di ex galeotti, quindi non dobbiamo sorprenderci della villania del loro primo ministro”.
Un’onta come questa sarebbe stata impensabile se fosse stata pronunciata contro qualsiasi altra classe o razza eccetto i discendenti della schiavitù bianca. Il commento di Dick fu non solo offensivo, fu da ignorante e falso. Gran parte dei “galeotti” furono inviati alla schiavitù per “delitti” come rubare sette yarde di stoffa, tagliare gli alberi di una proprietà aristocratica o appropriarsi di una pecora per dar da mangiare ad una famiglia che moriva di fame.
di Michael A. Hoffman
L’arrogante noncuranza per l’olocausto inflitto ai poveri ed alle classi lavoratrici bianche in Gran Bretagna dall’aristocrazia, continua ai tempi nostri perchè la storia di quell’epoca è stata quasi completamente estirpata dalla nostra memoria collettiva.
Quando la schiavitù bianca è riconosciuta come realmente esistita in America, è definita quasi sempre come “servitù a contratto”, o parte del traffico dei condannati, il cui centro, dopo la rivoluzione del 1776, fu in Australia e non in America. I “forzati” trasportati in America in base alla legge del 1723 Waltham Act probabilmente furono circa 100.000.
I “lavoratori apprendisti” che lavorarono per un ragguardevole periodo da quattro a sette anni lucidando le stoviglie e le porcellane dei loro padroni e quindi prendendo il loro posto nella società coloniale, furono una piccola frazione delle misconosciute centinaia di migliaia di schiavi bianchi costretti a lavorare fino alla morte in questo Paese dall’inizio del XVII secolo in poi.
Fino a circa la metà del totale degli arrivi nelle colonie americane, erano schiavi bianchi ed erano i primi schiavi dell’America. Questi bianchi erano schiavi per tutta la vita, molto tempo prima che lo fossero i negri. Questa schiavitù fu perfino ereditaria: bambini figli di schiavi bianchi erano anch’essi schiavizzati. I forzati erano venduti in blocco con i bambini, separati dai loro genitori e le mogli vendute e separate dai loro mariti. I proprietari neri si pavoneggiavano nelle strade del nord e sud America mentre schiavi bianchi lavoravano fino a morire nelle piantagioni di canna da zucchero di Barbados e della Giamaica e nelle piantagioni della Virginia. L’establishment ha creato la falsa designazione di “lavoratori apprendisti” per giustificare e minimizzare la “schiavitù bianca”. Ma i bianchi nell’America dell’epoca si chiamavano fra di loro “schiavi”. Nove decimi degli schiavi bianchi furono condotti in America senza apprendistato di qualsiasi genere ma secondo il cosiddetto “uso del Paese”, come era chiamato, che era in realtà schiavitù per tutta la vita amministrata dagli stessi mercanti bianchi.
Nelle “Leggi della Virginia” di George Sandy, i bianchi erano schiavizzati “per sempre”. Il servizio dei bianchi destinati a Berkeley’s Hundred (una delle più grandi piantagioni della Virginia di circa 4.000 acri) era ritenuto “perpetuo”.
Sfido qualsiasi ricercatore: studiate l’America del XVII secolo, vagliate i documenti, il gergo professionale e gli statuti in entrambe le coste dell’Atlantico e scoprirete che la schiavitù bianca era un fatto ben più diffuso di quella negra. E’ a partire dal XVIII secolo che si comincia a parlare di servitù sulla base di contratti di apprendistato Ma anche in quel periodo avvenivano rapimenti di anglosassoni, oltre alla schiavitù per i condannati.
Nel 1855, Frederic Law Olmsted, l’architetto del Central Park di New York, era nell’Alabama per un viaggio di diporto e vide balle di cotone lanciate da una altezza considerevole nella stiva di un mercantile. Gli uomini che lanciavano con noncuranza le balle erano negri, gli uomini nella stiva erano irlandesi.
Olmsted ne chiese il motivo ad un operaio. “Oh”, gli rispose costui, “i negri sono troppo importanti per arrischiarli; se gli irlandesi dovessero cadere in mare o se si rompessero la schiena, nessuno perderebbe niente”.
Prima che i commercianti di schiavi inglesi andassero in Africa occidentale per comperare negri dai negrieri locali, vendevano l’eccedenza in schiavitù dei loro operai (“i poveri in esubero”, come erano conosciuti) catturati nelle strade e città dell’Inghilterra. Decine di migliaia di questi schiavi bianchi erano bambini rapiti. In realtà, la vera origine della parola “kidnapped” è “kidnabbed”, il furto dei bambini bianchi per la schiavizzazione.
Secondo il “dizionario inglese della malavita”, sotto la voce “kidnapper” c’è la seguente definizione: “Un ladro di esseri umani, specialmente bambini, in origine per la loro esportazione nelle piantagioni del nord America”. Il centro del commercio degli schiavi-bambini era nelle città portuali della Gran Bretagna e della Scozia: “Squadre arruolate da mercanti locali percorrevano le strade, catturando con la forza ragazzini che sembravano adatti per il commercio di schiavi. Venivano ammucchiati in capannoni per l’imbarco . . . Così evidente era questa pratica, che la gente del contado nei pressi di Aberdeen evitava di portare i bambini in città per timore che li rapissero; e così diffusa era la complicità dei mercanti, spedizionieri, fornitori, e perfino magistrati che l’uomo che li denunciava era costretto a ritrattare e fuggire dalla città (Van der Zee, Bound Ove, pag.210)”.
Gli schiavi bianchi trasportati nelle colonie lamentarono fortissime perdite di vite umane nei secoli XVII e XVIII. Durante il viaggio in America era usanza tenere gli schiavi bianchi sotto i ponti per l’intero viaggio da nove a 12 settimane. Uno schiavo bianco veniva confinato in una buca lunga non più di 16 piedi, incatenato con altri 50 compagni ad un’asse, con collari chiusi con lucchetto. Le settimane di reclusione sotto i ponti nelle stive soffocanti spesso sfociavano nello scoppio di malattie contagiose che facevano piazza pulita del “carico” o “merce bianca” incatenata ad un’asse della nave.
Le navi che portavano gli schiavi bianchi in America spesso perdevano metà dei loro schiavi (morivano). Secondo lo storico Sharon V. Salinger, “Dati sporadici rivelano che la mortalità dei servi bianchi in certi periodi eguagliava quella dei negri del ‘periodo di transizione’ e durante altri periodi in realtà eccedette la percentuale delle perdite dei negri”. Salinger riporta una aliquota di perdite dal 10% al 20% durante tutto il XVIII secolo di schiavi negri a bordo di navi in viaggio verso l’America, rapportata al 25% degli schiavi bianchi.
Foster R. Dulles scrivendo su “Labor in America: A History”, afferma che altri galeotti catturati nel contado erano “prigionieri politici”; gli schiavi bianchi hanno sperimentato disagi e sofferenze durante il loro viaggio nell’Atlantico che eguagliavano le durezze sopportate da quelli negri.
Dulles dice che i bianchi erano “indiscriminatamente ammucchiati, spesso non meno di 300 passeggeri su piccole navi di 200 tonnellate, sovraffollate, antigieniche... la mortalità raggiungeva picchi del 50% perchè i bambini difficilmente sopravvivevano agli orrori di un viaggio che poteva durare da sette a dodici settimane”.
Il ricercatore indipendente A.B. Ellis nel suo “Argosy” scriveva, a proposto degli schiavi bianchi: “Il carico umano, molti dei quali ancora tormentati da ferite aperte, i bambini non potevano coricarsi sulle assi senza stendersi gli uni sugli altri. Non era mai permesso loro di recarsi sul ponte. Il boccaporto era continuamente sorvegliato da sentinelle armate di archibugi. Nelle galere sottostanti tutto era buio, fetore, lamenti, malattie e morte”.
Marcus Jernegan descrive l’avidità degli armatori che produceva orrenda perdita di vite umane degli schiavi bianchi in viaggio per l’America: “Il viaggio spesso ripeteva gli orrori delle famose ‘Middle Passages’ di fama schiavistica. Un carico medio era di 300, ma l’armatore, per aumentare il guadagno, talvolta ammucchiava fino a 600 schiavi in un piccolo piroscafo . . . La mortalità in questi casi era tremenda, spesso più della metà”. Mittleberger (un testimone oculare) racconta che vide gettare in mare 32 bambini durante un solo viaggio. Le ditte mercantili, importatrici degli schiavi bianchi, non si preoccupavano del loro trattamento, dato che lo scopo più importante della transazione era di far arrivare le navi nella Carolina del Sud per caricare i prodotti locali per l’Europa. Di conseguenza gli irlandesi, come altri, soffrirono moltissimo.
Warren B. Smith, nella “White Servitude in Colonial South Carolina” ci dice: “Era quasi come se i mercanti inglesi avessero dirottato i piroscafi dalla costa africana a quella irlandese, con i servi bianchi che venivano imbarcati allo stesso modo di quelli africani”.
Uno studio del “middle passage” degli schiavi bianchi fu presentato in una petizione al Parlamento britannico nel 1659. Riportava che gli schiavi venivano chiusi a chiave nelle stive per due settimane mentre la nave negriera era ancora in porto. Una volta in viaggio, essi erano “locked up all the way”... con i cavalli”.  Essi erano incatenati dal collo alle caviglie.
Quegli accademici che insistono nel dire che la schiavitù è esclusivamente una condizione razziale negra dimenticano o omettono deliberatamente che la parola “schiavo” si riferisce originariamente ai bianchi originanti dall’Europa orientale – “slavi”.
Inoltre, nel XVIII secolo in Gran Bretagna e in America, la rivoluzione industriale diede luogo alla costruzione di stabilimenti i cui primi lavoratori erano bambini miserabilmente oppressi a partire dall’età di sei anni. Venivano chiusi a chiave negli stabilimenti per 16 ore al giorno e venivano storpiati dalle primitive macchine. Mani e braccia venivano regolarmente strappate. Alle bambine spesso si impigliava la capigliatura nei macchinari e venivano scalpate dalla fronte alla nuca.
Bambini bianchi feriti o mutilati venivano allontanati senza alcun risarcimento e lasciati morire delle loro ferite. I bambini che arrivavano tardi al lavoro o che cadevano in preda al sonno era battuti con spranghe di ferro. Nel caso che immaginaste che questi orrori erano limitati ai primi anni della rivoluzione industriale, bambini bianchi di otto o dieci anni in tutta l’America venivano impiegati in duri lavori in stabilimenti miserabili fino al 1920.
A causa della prostituzione, stupidità e codardia degli insegnanti americani e del sistema educativo, ai giovani bianchi veniva insegnato che gli schiavi negri, peoni messicani e coolies cinesi avevano costruito questa nazione, mentre la gran maggioranza dei bianchi li tiranneggiava con una frusta in una mano ed un bicchiere di giulebbe nell’altra. I documenti, tuttavia, ci dicono una storia ben diversa. Quando il congressista David Wilmot ordinò al Wilmot Proviso di tenere gli schiavi negri fuori dall’Ovest americano, lo fece, disse, per conservare quell’immenso territorio “per i figli della fatica, la mia propria razza e colore”.
Questo è precisamente quello che era gran parte della gente in America, “figli della fatica”, che facevano lavori da rompersi la schiena, che pochi di noi possono immaginare. Essi non avevano un sistema tipo “welfare”; nessun ente dei liberti; non una folla di cuori sanguinanti che si affliggessero per i loro stenti. Questi bianchi erano i soldati di prima linea nella espansione delle frontiere americane. Essi conquistarono il suolo, abbatterono gli alberi, spazzarono e piantarono la terra.
La ricca, educata élite bianca in America è l’erede malata di quello che Charles Dickens chiama un “Bleak House” - filantropia telescopica” - la preoccupazione per le cattive condizioni di gente distante mentre quella della parentela nel cortile di casa viene ignorata.
Oggi quelli che vediamo alla televisione Turner e che Pat Robertson chiama a torto “Canale famiglia” sono film che ci mostrano neri in catene, neri mentre sono frustati, neri oppressi. Da nessuna parte troviamo una cronaca cinematica dei bianchi che erano picchiati e uccisi in schiavitù. Quattro quinti degli schiavi bianchi inviati nelle colonie britanniche delle Indie occidentali della canna da zucchero non sopravvivevano al primo anno di servitù. Soldati e marinai della rivoluzione americana arruolati in marina ricevevano fino a 200 frustate per infrazioni trascurabili; ma nessuno spettacolo televisivo alza la camicia di questi coscritti per mostrare le cicatrici sulla loro schiena.
Poco è cambiato dai primi del 1800 quando i rappresentanti al Parlamento britannico misero fuori legge la schiavitù nera in tutto l’Impero. Mentre il Parlamento era in sessione per emanare questa legge, bambini bianchi di cinque anni, stracciati, orfani, affamati, frustati, erano costretti a pulire i camini del Parlamento. Qualche volta i mattoni dei camini crollavano sopra i bambini. Tal’altra soffocavano per la fuliggine all’interno degli stretti sfiatatoi del fumo.
Molto tempo dopo che la schiavitù fu abolita in tutto l’impero britannico, la Camera dei Lords rifiutò di abolire la pulizia dei camini da parte di bambini sotto i dieci anni. I Lords obbiettarono che il farlo sarebbe stato interferire nei “diritti di proprietà”. La vita dei bambini bianchi non valeva un farthing: non erano considerati degni di attenzione umanitaria.
Le cronache della schiavitù bianca giacciono nello scaffale più polveroso dell’angolo più oscuro della storia soppressa americana. Se la verità su quell’epoca dovesse emergere nella coscienza collettiva americana, l’intera base dell’imbroglio della “azione affermativa”, mettendo da parte i minori e l’ipotesi delle “riparazioni agli afro-americani”, sarebbe spazzata via. Il fatto è che i lavoratori bianchi di questa nazione, non debbono niente a nessuno. Sono essi stessi i discendenti, come dice il congressista Wilmot, “i figli della fatica”.
Ci sarà pace razziale solo quando la conoscenza della verità storica si sarà diffusa ed entrambi i lati negozieranno da posizioni di forza e non con le storie fantastiche della colpa dei bianchi e della unicità della sofferenza dei negri.
Lasciateci dire, in molti casi i negri in schiavitù vivevano meglio dei bianchi poveri nel Sud anteguerra. E’ per questo che c’è stata una tale forte resistenza alla Confederazione nelle aree colpite della povertà del Sud montuoso, come la contea di Winston nell’Alabama e nelle Beech Mountains del Nord Carolina. Quei poveri bianchi non potrebbero immaginare perchè qualsiasi operaio bianco voglia morire per la plutocrazia detentrice di schiavi che, più spesso che non, dedicò più cura ed attenzione ai suoi schiavi negri di quanto ne diede ai “liberi” lavoratori bianchi che disprezzavano come “spazzatura”.
Se questo appare ammirevole dal punto di vista patologico del marxismo o del liberalismo cosmopolita, i “beneficiari” negri del Terzo Mondo della “stima” della classe dominante bianca dovrebbero considerare che sorta di “amici” hanno in realtà: La Bibbia dichiara che l’uomo che non cura la sua famiglia è “peggio di un infedele”. Lo stesso si può dire della appartenenza razziale. L’uomo che trascura i suoi figli per curare i tuoi non ama realmente né questi né quelli.
I bianchi, auto-disprezzatori e conservatori avidi che sostengono di preoccuparsi per i “diritti civili” dei negri e del Terzo Mondo gettano la classe lavoratrice del proprio popolo nel mucchio di spazzatura della storia. Coloro che si curano dei propri figli non praticano “odio”, ma bontà, che è la vera radice del mondo.


  traduz. Alfio Faro