Sciacca, un cattolico contro il male occidentale
di Marcello Veneziani - 24/08/2025
Fonte: Marcello Veneziani
“L’occidentalismo nelle due forme neocapitalista e comunista in avanzata via di convergenza dell’una nell’altra per una società universale tecnologica, provoca e alimenta la secolarizzazione di tutte le grandi religioni, e con l’empietà, la perdita di tutti i valori e la loro riduzione a quelli vitali, i soli bastevoli per la felicità in terra”. Sono parole vecchie ormai di decenni e appartengono a un autore scomparso cinquant’anni fa, nel 1975, un filosofo cattolico in disparte: Michele Federico Sciacca. Pur lontano dalla temperie politica del suo tempo, spesso isolato – “io che avevo pressoché ignorato il fascismo, come del resto ho sempre ignorato e ignoro tutti i partiti politici” – Sciacca è stato uno dei più acuti e a tratti profetici pensatori del novecento. Siciliano d’origine greca, cattolico, idealista di scuola gentiliana e poi rosminiano, Sciacca ha raramente varcato la notorietà accademica, in cui era uno dei più riconosciuti “baroni”, pur avendo al suo attivo una copiosa attività di saggista e di pubblicista. Era più noto in Spagna e nella cultura latinoamericana, dove le sue opere circolavano anche più che in Italia. Sciacca scrisse anche una vasta storia della filosofia dedicata al XX secolo, sommari di filosofia per i licei, saggi e pamphlet. Negli anni della Scuola di Francoforte, Sciacca svolse una critica implacabile alla moderna società occidentale, più radicale di quella di Marcuse, al totalitarismo permissivo fondato sulla tecnocrazia e sul consumismo. Ne L’oscuramento dell’intelligenza, Sciacca prefigurò l’avvento di un nuovo totalitarismo che si insinua attraverso “la violenza occulta e sottile, le oppressioni maliziose o dorate”, tende a sopprimere la cultura mediante la tirannia dei consumi, “più pericolosa delle dittature politiche, che almeno provocano l’ansia della libertà e non l’addormentano”. Monarchico, amato dai seguaci di Franco e Salazar, Sciacca notava che la tecnocrazia “ha un’anima illiberale e reazionaria”, che impone un ordinato progresso gestito dai funzionari. Lo sviluppo tecno-industriale per costituirsi in potere tecnocratico totalitario mira a eliminare le opposizioni e soprattutto le culture divergenti, a castrare le ideologie e le religioni, in modo che vi sia una borghesia senza l’ideale della libertà, un comunismo senza l’ideale rivoluzionario di giustizia sociale, un cattolicesimo (e un islamismo) senza fede né eternità. Eliminati i dissensi “è facile far scivolare tutti sulla piattaforma dell’optimum della felicità per tutti” e amalgamarli “in un amorfo compatto senza più sogni ideologici”. Oggi lo chiamiamo pensiero unico. Sciacca denunciava la colonizzazione tramite le merci veicolata dal mercantilismo che schiaccia “con la barbarie industrializzata le culture locali, sradica quei popoli dalla loro tradizione e controlla il pianeta tramite l’Organizzazione mondiale tecnologica”: globalizzazione ante litteram. Dietro la tolleranza umanitaria si celava per lui una violenza profonda. Una diagnosi parallela a quella di Marcuse o Pasolini e affine a quella di Del Noce.
In quest’universo che posto è lasciato al cristianesimo e alla Chiesa? Secondo Sciacca il neocapitalismo ha prima utilizzato il cattolicesimo “contro il comunismo” al punto da sostenere anche un’affermazione politica delle forze cattoliche, ma “senza una rinascita della fede cattolica e della carità cristiana”, accelerando anzi “il processo di secolarizzazione” verso il laicismo. E’ il compito assegnato ai partiti popolari d’ispirazione democratico-cristiana. Non fece in tempo Sciacca a conoscere il ruolo di Papa Woytila nella caduta del comunismo, in un primo tempo usato in funzione antisovietica e poi silenziato quando criticava l’irreligione occidentale. L’obbiettivo non è diffondere l’ateismo ma eliminarlo perché “incompatibile, al pari dell’affermazione di Dio, con la società universale autosufficiente”. L’ateismo è una forma di attenzione alla trascendenza, una riflessione su Dio, e dunque un ingombro di cui liberarsi per una più compiuta indifferenza. E’ quel che sosteneva Voegelin quando notava che le società autoritarie del passato esercitavano il controllo delle risposte, mentre la società atea e nichilista pone il divieto di fare certe domande, e solo di interrogarsi sul senso del divino (“quesiti oziosi” per Marx).
Da qui sorge quel che Sciacca definiva il nuovo cristianesimo come religione laica, impegnata a favorire “l’unificazione dell’umanità in una specie di Organizzazione mondiale” che uniforma gli uomini prima di eguagliarli, dove la pace “sarà perpetua giacché l’opulenza dà la sicurezza vitale e la libera soddisfazione di tutti i desideri soprattutto sessuali, senza il pericolo di “scommetterli” per un valore o una verità superiore alla vita”. Acuta descrizione del nostro presente, con decenni d’anticipo, tramite i primi segnali della società opulenta, consumista e libertaria del ’68. Nella nuova religione confluiscono per suicidarsi tutte le religioni. Così come sul piano culturale, nel nuovo illuminismo tendono a confluire liberalismo, comunismo e modernismo. Processo rigorosamente avverato negli anni, dopo che il comunismo ha ceduto all’orizzonte liberal e radical, nella sintesi finale di tecnocrazia e irreligione. Qui la visione della “destra” gentiliana di Sciacca, d’ispirazione cristiana, collima con la visione della “sinistra” gentiliana di Ugo Spirito. Per entrambi l’universo tecnico avrebbe ereditato l’umanesimo uscito dalla dimensione religiosa. Muta però il giudizio, critico per Sciacca e positivo per Spirito, seppure in modo “problematico”.
Rigorosa e imperdonabile è la critica di Sciacca al liberalismo e al rovesciamento illiberale e anti-individualistico delle sue premesse. “La religione della libertà”, notava, è “la pseudo-religione di essere liberi solo nelle cose, nei fatti, nelle opere terrene, cioè di essere schiavi del mondo”. Nel liberalismo crociano, per Sciacca, l’individuo è strumento dello sviluppo storico ed economico, e da esso è schiacciato. Non c’è trascendenza dell’individuo, ridotto a mezzo della storia o della produzione. Così deperisce la stessa “religione della libertà”. Il liberalismo prelude al nichilismo, di cui Rosmini in positivo e Nietzsche in negativo sono stati “la buona coscienza”.
“Rosmini me l’ha rubata” disse Gentile a Sciacca nel loro ultimo incontro, nel luglio del ’43. Alla filosofia morale di Rosmini, Sciacca aveva dedicato un denso saggio che sanciva il suo allontanamento dall’attualismo gentiliano, già profilato nei tuoi testi sulla metafisica di Platone, la crisi dell’idealismo e lo spiritualismo critico. Sciacca andò in cattedra giovanissimo, diresse in età precoce Logos insieme con Antonio Aliotta e nel dopoguerra fondò il Giornale di Metafisica. Il suo pensiero fu d’ispirazione platonico-agostiniana, oscillante tra idealismo oggettivo e personalismo cristiano, poi definito filosofia dell’interiorità o dell’integralità, quasi a rimarcare il suo antistoricismo e antiattualismo. “Con la storia mi accendo la pipa” scrisse nel saggio Come si vince a Waterloo, trent’anni prima che quel motto divenisse con Roland Barthes un emblema del postmoderno. La pipa di Sciacca mandò in fumo il Novecento. Sciacca descrisse in modo penetrante il carattere nazionale; per lui l’Italia è formata da “molte Italie”, la politonia è stata la sua forza e la sua debolezza rispetto alle altre nazioni più monotone. Alla fine però anche da noi prevalse la monotonia ideologica e Sciacca fu dimenticato. Il suo pensiero restò inattuale ma vivo.