Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Le mani cinesi sulla torta irachena

Le mani cinesi sulla torta irachena

di Nicola Sessa - 06/07/2010






La Cina ha soldi, coraggio e una diplomazia avveduta. Ecco perché sta vincendo la guerra commerciale in Iraq e gli Usa la stanno perdendo.

Dev'essere che nessuno negli Stati Uniti prese sul serio George W. Bush quando nel maggio del 2003, salito sul ponte di comando della portaerei Uss Abraham Lincoln dichiarò che la missione irachena era compiuta. Dev'essere che sette anni dopo e con i marines pronti a tornare a casa i grandi investitori americani valutano l'Iraq un posto altamente insicuro, politicamente instabile e schiavo di una corruzione velenosa che strozza l'iniziativa economica. Sarà, ma non tutti la pensano così e la Cina, fra tutti, è il paese che più sta traendo vantaggi dall'indecisione degli americani. Pechino, come Parigi e Berlino, non ha preso parte alla 'festa irachena', non ha perso un solo uomo in battaglia eppure sta prendendo i pezzi più grossi della torta.

Cina pigliatutto. Dal 2007 a oggi la Cina ha messo nel proprio portafogli partecipazioni in tre degli undici contratti che il ministero del Petrolio iracheno ha firmato per aumentare l'estrazione del greggio nella misura del 450 per cento nei prossimi sette anni. L'ultimo colpo, realizzato insieme alla British Petroleum (Bp), è stato messo a segno dalla China National Petroleum Corporation (Cnpc) aggiudicandosi le concessioni per vent'anni sul campo di Rumaila, la più grande riserva irachena che, si stima, conserva 17,7 miliari di barili sotto la sua sabbia. Bp e Cnpc hanno accettato il prezzo offerto dal ministero: due dollari a barile. Per intenderci, il gigante petrolifero statunitense Conoco Phillips ha rifiutato il prezzo di quattro dollari a barile offerto per le estrazioni nel campo di Bai Hassan a fronte della pretesa che partiva da 26,7 dollari per barile. 
La Cnpc, il cui capitale è interamente nelle mani del governo cinese, ha rinegoziato anche un altro accordo da  tre miliardi di dollari stipulato quando al potere c'era ancora Saddam Hussein.

La sete di petrolio. Gli interessi della Cina non si fermano solamente al petrolio ma vanno ben oltre: Pechino guarda anche al cemento, alla fornitura di servizi, alle costruzioni e non disdegna di investire nella ricostruzione che presenta le "buone intenzioni" di un buon investitore (strategia, questa, largamente usata con successo anche in Africa). In verità i cinesi possono vantare un ottimo curriculum in Iraq: non hanno partecipato all'invasione, non hanno aderito alle sanzioni e soprattutto erano dei fidati partner commerciali anche durante il regno di Saddam Hussein. Il quasi miliardo e mezzo di cinesi ha sete di petrolio. Solo nell'ultimo anno il fabbisogno ha avuto una crescita mostruosa del 13 per cento e Pechino, per far muovere la macchina cinese, ha bisogno di 8 milioni e mezzo di barili al giorno. Sarà proprio questa sete e la tranquillità economica che gli Stati Uniti adesso proprio non possono vantare a rendere la Cina un concorrente spietato che accetta il rischio dell'instabilità irachena e l'imposizione di un prezzo che abbatte il mercato. 

La crisi e la paura del sangue. Dal Pentagono, fonti anonime danno la colpa alla crisi globale, ma  l'ambasciatore francese a Baghdad Boris Boillon è convinto che gli Usa stiano perdendo la grande occasione irachena per un senso di spossatezza: "Gli americani sono stufi; ci pensano due volte prima di venire a investire in quello che loro ritengono uno ‘Stato sanguinolento'". 
Sebbene il ministro dell'Industria le abbia provate tutte per tirare in ballo gli investitori statunitensi (che a Baghdad sono pur sempre visti come i più affidabili), non c'è stato nulla da fare: "Gli Usa (ndr, le compagnie) proprio non sanno cosa fare in Iraq", ha confessato il ministro Fawzi Hariri al Washington Post. 

La Cina, invece, sì. E sta dimostrando di saperlo fare anche nell'altro teatro di guerra, in Afghanistan, dove ha guadagnato la leadership negli investimenti stranieri con un contratto di 3,5 miliardi di dollari per lo sfruttamento delle miniere di rame di Aynak, trenta chilometri a sudest di Kabul. Anche qui, l'approccio con il popolo afgano non è stato da invasore ma di nazione (confinante) amica che vuole coltivare dei buoni rapporti di vicinato pensando alle turbolenze cinesi nel musulmano Xinjiang, confinante con l'Afghanistan. 
Il sistema di irrigazione nella provincia di Parwan, la sala conferenza del palazzo presidenziale e l'ospedale Jamhuriat di Kabul hanno maggiore appeal delle opere realizzate dagli Usa, che spesso subappaltano a pachistani, indiani e agli stessi cinesi perdendone di fatto la paternità agli occhi della popolazione. I 180 milioni di dollari investiti dai cinesi nella ricostruzione mettono così in ombra i dodici miliardi sborsati dalle casse del Tesoro statunitense.