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L'effetto metadone sugli Usa sta finendo

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi - 31/08/2010

Fonte: Italia Oggi



Nei passati due anni l'economia americana gravemente drogata è stata trattata con il «metadone finanziario di stato», ma i suoi mali profondi non sono stati affrontati e curati. Adesso che gli effetti della droga stanno venendo meno, i vecchi problemi e le grandi dipendenze ritornano alla luce.
Alcuni sintomi sono già visibili. A giugno il deficit commerciale mensile americano ha raggiunto i 50 miliardi di dollari, di cui più della metà con la Cina. Tra i tanti dati questo è forse il più indicativo, in quanto dimostra che l'economia Usa non è per niente decollata e che gli stimoli fiscali e gli incentivi monetari hanno esaurito il loro temporaneo effetto.
Il settore immobiliare, che con i mutui subprime è stato tra i fattori della crisi finanziaria globale, è di nuovo in grande affanno. I due colossi del credito fondiario, Fannie Mae e Freddie Mac, salvati dal governo e sottoposti ad amministrazione controllata, hanno goduto di un sostegno pubblico illimitato, che ha già superato i 210 miliardi di dollari. In aggiunta ora i due enti contano non-performing loans (crediti in sofferenza) per 335 miliardi di dollari! In realtà sono molto di più. Ma il vero problema è che essi hanno in riserva meno di 30 centesimi per ogni dollaro riferito ai suddetti titoli tossici.
Nei giorni scorsi la Federal Reserve ha confermato la sua scelta di mantenere il tasso di interesse vicino allo zero per cento e di acquistare maggiori quantità di titoli di stato a più lungo termine. Mentre si dichiarava di voler ridurre di 200 miliardi di dollari i bond del Tesoro in suo possesso, in realtà si decideva di aumentarli di altri 200 miliardi. Ciò porterà ad un ulteriore aumento di liquidità nel sistema economico con la vana speranza di nuovi investimenti e di nuovi consumi.
Finora è stata una pura illusione. La Fed nei passati 20 mesi ha così portato il suo bilancio a 2.000 miliardi di dollari. Anche le grandi banche e le corporation hanno acceso nuovi crediti a tasso di interesse zero e aumentato enormemente la loro liquidità, senza però riversarla sugli investimenti, sulla modernizzazione tecnologica, sulla produzione e sull'occupazione. Insieme ne mantengono oltre 2.000 miliardi di dollari. È la famosa «trappola della liquidità», che a due anni dalla crisi, rischia di rappresentare la minaccia più grave alla stabilità economica e monetaria negli Stati Uniti e nel resto del mondo.
Tutto questo sta a dimostrare che l'intervento pubblico dello stato ha mancato il suo obiettivo. Ha salvato le banche che fallivano per avere speculato, consegnando nel contempo nelle loro mani un'arma pericolosa, cioè una grande liquidità senza condizione alcuna.
Si è addirittura spacciato lo stimolo fiscale per una moderna forma di New Deal. Sono invece due politiche completamente differenti. Lo stimolo economico è figlio dell'idea di un'economia a breve termine, che è una delle cause della crisi. Si ritiene che gli aiuti economici, quali i bonus per l'acquisto di nuove auto o frigoriferi, possano rimettere in moto l'economia. Sono positivi soltanto gli interventi che vanno a sostegno dei redditi bassi e della disoccupazione. Ma non bastano a far ripartire un motore rotto.
Il New Deal, invece, era un vasto programma a lungo termine per una vera rivoluzione industriale, tecnologica e sociale. Interveniva su tutte le grandi infrastrutture per una globale modernizzazione dell'economia. Si basava in particolare su due istituzioni innovative: la National Recovery Administration per guidare gli investimenti nelle infrastrutture e nelle opere pubbliche e la Reconstruction Finance Corporation per immettere nuovi crediti mirati a investimenti ben selezionati.
Purtroppo questi programmi sono mancati nei passati mesi. Sappiamo che il presidente Obama è sempre stato tenuto sotto scacco dalle lobby della finanza, ma è altresì vero che adesso non può sottostare più a lungo ai ricatti, pena il rischio di un totale fallimento.
È quindi troppo benevolo parlare di una «sindrome giapponese» per gli Stati Uniti, cioè di un prolungato periodo di deflazione con prezzi bassi e stagnazione economica. In Giappone ciò ha portato a un debito pubblico che ha raggiunto il 200% del Pil. Oggi gli Usa sono in un momentaneo periodo di deflazione. L'America ha però di fronte il rischio di nuovi scenari di crisi che parlano di recessione e anche di una possibile spirale di inflazione alimentata dalla «bolla della liquidità».
Tale prospettiva dovrebbe far riflettere anche i paesi della vecchia Europa!