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I socialisti devono sinceramente e felicemente considerarsi reazionari

di Stefano D’Andrea - 04/10/2010

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Mi vado convincendo sempre più che viviamo tempi nei quali chi è socialista è reazionario.  Intendo il termine socialista nel senso generico, che esprime ciò che accomuna, con riferimento alla tradizione europea, comunisti, socialisti, socialdemocratici, cristianosociali e persino la cosiddetta destra sociale (il socialismo nazionale). Mi riferisco, dunque, al nucleo indiscutibile del socialismo, al massimo denominatore comune a tutte le dottrine socialiste

Reazionario è colui che reagisce o che intenderebbe reagire o che spera in una reazione. L’essere reazionari implica che l’organizzazione politica, sociale ed economica di una società abbia subito, nel recente passato, un grande mutamento. Quando ciò accade, c’è chi intende proseguire oltre; chi, per mero riflesso di una psicologia (il conservatore è conservatore ovunque e in ogni tempo), accetta di conservare la nuova situazione ma non desidera ulteriori mutamenti; e chi, invece, si propone di reagire e reintrodurre istituti, valori e prassi spazzati via dalle idee e dalle forze (ormai) dominanti.

Non mi sembra che abbia alcun senso continuare ad utilizzare, per l’eternità, il termine reazionario nel significato originario di sostenitore dell’ancien regime o in quello, estensivo, ma pur sempre storicamente determinato, di maschilista o di sostenitore di una legislazione antisociale o di propugnatore di una società governata dagli ottimati. Infatti, salvo rari casi, le critiche al concetto di progresso, che si vanno viepiù diffondendo, non sono portatrici di un auspicato ritorno a una società gerarchica, bensì esprimono la volontà: i) di eliminare le conseguenze più nefaste delle teorie  e delle politiche economiche che hanno dominato l’ultimo ventennio; ii) di salvaguardare l’uomo europeo da uno o altro condizionamento tecnologico; iii) di eliminare o ridimensionare i non luoghi abitati dall’uomo contemporaneo; e così via. Si tratta sempre di volontà di reagire. Soltanto per convenienza – e quest’ultima è sempre maschera dell’ipocrisia – si tende ad evitare la qualifica di reazionario, che invece è implicita se per reazionario si intende colui che è contro il progresso e con quest’ultimo concetto si allude non ad un periodo secolare o addirittura a tutto il tempo che ci separa dalla Rivoluzione Francese, bensì ai caratteri (teorie, politiche, ideologie, istituti giuridici) che negli ultimi decenni ha assunto la storia delle civiltà europee (e, a rigore, non solo europee).

In particolare, il socialista moderno non vuole introdurre nell’ordinamento principi nuovi, che fondino conquiste sociali, bensì intende reintrodurre principi vecchi: reintrodurre l’equo canone; reintrodurre lo sviluppo di edilizia popolare e cooperativa; reintrodurre la stabilità del lavoro subordinato; rendere di nuovo vigente il principio secondo il quale il salario deve garantire una esistenza libera e dignitosa; rinazionalizzare e comunque collocare sotto il controllo pubblico le principali banche e alcune imprese strategiche; tutelare il lavoro autonomo eseguito per conto del grande capitale o svolto in concorrenza di quest’ultimo. Chi è socialista non vuole andare avanti; intende tornare indietro.

Peraltro, per reintrodurre gli istituti tipici del socialismo europeo e per rivitalizzare quelli ancora vigenti e che tuttavia hanno perduto vigore o rischiano di essere travolti dal cosiddetto processo di globalizzazione, non vi è altra possibilità che reintrodurre barriere alla libera circolazione delle merci, del lavoro e del capitale: dazi; divieti di importazione di taluni beni; vincoli alla esportazione dei capitali e alle delocalizzazioni; aiuti di stato; limiti all’acquisto di aziende strategiche da parte del capitale straniero; sottrazione, per quanto possibile, dell’economia reale al dominio dei mercati finanziari.

Infatti, “l’ordinamento globale”, ossia la costruzione, attraverso leggi degli stati nazionali, del “mercato globale” è intrinsecamente incompatibile con i tradizionali istituti socialistici europei: lo stato sociale è uno stato nazionale sociale (per la dimostrazione dell’assunto rinvio a Il socialismo è un carattere degli stati nazionali o non è nulla: http://www.appelloalpopolo.it/?p=1742). Orbene, anche la introduzione dei suddetti limiti al “mercato globale” sarebbe una reintroduzione. E quindi anche per questo aspetto, strumentale agli istituti del socialismo europeo (ma in realtà potenzialmente strumentale alla tutela di molti altri valori e interessi di fondamentale rilevanza e, nell’ordinamento giuridico italiano, di rango costituzionale), il socialista europeo, che sia consapevole del carattere nazionale di ogni socialismo e dunque coerente con sé stesso, è un  reazionario.

So bene che moltissimi socialisti si professano progressisti e che forse addirittura la totalità dei socialisti crede di essere progressista. Ma quando il termine progressista non è riferito ad altri profili, diversi da quelli della distribuzione della ricchezza, dell’esistenza e della tutela di beni pubblici, della tutela del lavoro (subordinato ed autonomo) e del diritto dell’economia in generale, esso contrasta inesorabilmente con il fatto incontestabile che non è dato individuare un solo istituto che i socialisti vogliono introdurre ex novo e che sia sconosciuto alla nostra tradizione politico-giuridica. In particolare i socialisti sono contro la concorrenza, perché il socialismo nasce come pensiero politico contro la concorrenza; mentre tutte le politiche attuate negli ultimi decenni sono state a favore della concorrenza (cfr. Proposte per l’Alternativa: valorizzare il lavoro, non soltanto subordinato ma anche autonomo, in tutte le sue forme: http://www.appelloalpopolo.it/?p=1431 .

 E’ soltanto per il fatto che gli antichi predecessori dei socialisti contemporanei (essenzialmente coloro che sono stati socialisti fino agli anni settanta) erano “progressisti”, e in quanto tali erano ostili ai conservatori e ai reazionari del tempo, che oggi i socialisti continuano a definirsi progressisti. Invece sono reazionari, perché propongono di reagire a venti anni di politiche liberiste, mercatiste e monetariste, volte a valorizzare il capitale (profitti e rendite) a discapito del lavoro, reintroducendo istituti che sono stati abrogati o modificati, nonché le condizioni (la legislazione contro la concorrenza) che rendono possibili quegli istituti. Insomma, i socialisti europei sono reazionari senza saperlo o senza volerlo confessare.

Si tratta di una questione meramente terminologica? Non credo. Scoprire e dire pubblicamente di essere reazionari sarebbe un modo per conoscere noi stesi, per riconoscerci, per unirci e per non cadere nell’abbaglio del “progresso”, il quale se forse, come reputano alcuni, era un abbaglio già prima dell’ultimo ventennio (ma personalmente credo che ci sia una grande forzatura in questa posizione e una buona dose di irrealismo), è stato certamente un abbaglio negli ultimi due decenni (ricordate “i progressisti”?), quando “progresso” ha designato il puro regresso politico, sociale, economico e antropologico. Senza chiarezza dei concetti, nessuna incisiva azione politica è pensabile e possibile.