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Quel silenzio sopra Bruxelles

di Roberto Zavaglia - 07/11/2010

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Si parla solo di sciocchezze e non ci si occupa delle questioni importanti: lo scrivono gli editorialisti di tutti i giornali. E’ vero, il “dibattito politico” non era mai sceso al livello di questi ultimi mesi, in cui pettegolezzi scandali e scandaletti hanno oscurato ogni altra materia del contendere fra gli opposti (?) schieramenti.  Adesso c’è Ruby, la versione hard di Noemi, ed e’ triste pensare come, all’estero, l’immagine della nostra vita pubblica sia, è il caso di dirlo, andata definitivamente a puttane. Ma se fosse anche la stampa ad avere colpa di questo generale scadimento?
  I giornali sono, in qualche modo, “costretti” dall’incalzare delle notizie a riempire pagine con storie di lenzuola e affini. Di taluni fatti rilevanti l’informazione, però, si occupa superficialmente, come per assolvere a un fastidioso dovere, da liquidare il più in fretta possibile onde non tediare i lettori, immaginati tutti come degli zotici guardoni. Pensiamo, per esempio, alle nuove misure finanziarie dell’Unione Europea. E’noto -ma neanche tanto a giudicare da come “non” ne parla la gente- che si stanno decidendo, in queste settimane, le modifiche del Patto di stabilità, una cosa forse un po’ astrusa, ma decisiva nel condizionare molti aspetti delle società del Vecchio Continente. Opinionisti, politici, sindacalisti e intellettuali pronti a dire la loro su qualsiasi cosa, con più gusto se si tratta di scemenze, non sono stimolati da questo argomento. Il disinteresse per le tematiche comunitarie è un fenomeno che riguarda l’intera Europa, ma l’Italia supera quasi tutti.
  Eppure, le notizie che circolano avrebbero dovuto suscitare interesse e pure un certo allarme. Il 22 settembre, infatti, la Commissione presieduta da Josè Manuel Barroso aveva presentato le sue proposte che, se accettate, avrebbero messo alla prova la tenuta sociale dei Paesi, come il nostro, con un alto debito pubblico. Tra le varie indicazioni, veniva introdotta l’imposizione di un duro piano di rientro per gli Stati il cui debito superava il 60% del pil. All’Italia non sarebbe più bastato rispettare la soglia del 3% del deficit, ma avrebbe dovuto tagliare il debito con una sforbiciata tra i 40 miliardi e i 50 miliardi di euri all’anno. Pena il pagamento di severe multe, alle quali Germania e Francia avrebbero voluto aggiungere anche la sospensione dei diritti di voto.
  Il Consiglio Europeo ha poi modificato al ribasso il progetto, senza però dare indicazioni precise sui cambiamenti da adottare. E’ stato deciso che, entro la metà del 2013, il fondo di salvataggio triennale, varato per sostenere la Grecia, diventerà un meccanismo permanente per aiutare i Paesi  in difficoltà finanziaria. E’ l’anno prossimo, invece, che dovranno essere definiti i contorni del rafforzamento del Patto di stabilità, ma le misure concrete verranno stabilite nei prossimi vertici dei ministri finanziari. E’stupefacente che, almeno a leggere i quotidiani italiani, non si riesca a capire cosa ne verrà fuori, ovvero quando e di quali provvedimenti decideranno i ministri finanziari. A meno di non possedere il numero del cellulare di Tremonti, gli italiani dovranno attendere pazientemente di conoscere quali nuovi tagli gli pioveranno, inopinatamente, sulla testa.
  Alla fine del Consiglio Europeo, Berlusconi ha dichiarato che non ci sarà più solo la valutazione del debito pubblico “ma anche quella della finanza privata, quindi il risparmio delle famiglie, la solidità del sistema bancario, il sistema pensionistico, la bilancia commerciale”. Con questo metro di misura, l’Italia da pecora nera si trasformerebbe, come per magia, nel secondo Paese più virtuoso, dopo la Germania, con enormi ricadute positive di bilancio. Fosse riuscito a fare accettare tali criteri, a Berlusconi si potrebbero perdonare immediatamente tutte le lolite e le barzellette da barbiere. Ma è vero oppure no? Non si sa, perché nessun giornalista prova chiederlo a chi, a Bruxelles, dovrebbe esserne a conoscenza.
  I pochi commenti usciti sui risultati del Consiglio Europeo sono concordi nello stabilire che le misure prese sono un passo decisivo verso la nascita del governo economico comune dell’Europa. Non occorre insegnare ad Harvard per capire che non di governo economico si tratta, ma di meccanismi di stretta sorveglianza sui conti che attribuiranno a Bruxelles il diritto di veto e di modifica delle leggi finanziarie degli Stati. L’economia europea, come quella di qualsiasi altra entità politica, non può basarsi unicamente sul coordinamento dei bilanci che ne rappresenta un solo aspetto. E lo sviluppo? Nessuno ne parla, ma è il fondamento di qualsiasi politica economica. E’ difficile immaginare un governo economico senza una almeno parziale fiscalità comune, che fornisca risorse per gli investimenti.
  Nei giorni più caldi della crisi finanziaria, si era parlato della possibilità, per l’Unione Europea, di emettere obbligazioni, ma la proposta è poi scomparsa. Sembrava una buona idea poiché i soldi reperiti con quei prestiti sarebbero serviti a realizzare le infrastrutture necessarie per reggere la competizione mondiale e per creare nuovi posti di lavoro. Se l’Europa vuole pensare a una economia comune, deve mettere in comune le forze nella ricerca, nell’innovazione tecnologica, nella costruzione di reti materiali e immateriali e, insomma, in tutti quei settori che gli esperti indicano come decisivi per misurarsi con le vecchie potenze e con quelle ormai non più emergenti, ma già protagoniste planetarie, come la Cina.
  E’ evidente che per mirare a un obiettivo di questo genere, perché i cittadini di tutti i Paesi  accettino di mettere a disposizione una parte delle tasse, occorre che chi poi le amministra sia legittimato dal consenso popolare. Non può esistere un vero governo europeo se esso, al pari della Bce, è “irresponsabile” di fronte ai cittadini. Senza la politica non si governa nemmeno l’economia. Sfruttando il clima di demonizzazione della politica, la tecnocrazia pretende di sostituirla nella costruzione europea, ma non riuscirà ad arrivare a risultati definitivi perché i governi nazionali, per mantenersi in sella e per non surriscaldare il conflitto sociale, devono tenere presenti, almeno in parte, le necessità dei propri cittadini.
  Come detto, l’evoluzione di queste dinamiche comunitarie non pare interessare né al mondo politico né a quello intellettuale. A Bruxelles si prendono comunque decisioni importanti, tutte nella stessa direzione: controllo della spesa ovvero tagli alle garanzie sociali. E’incredibile che, a destra come a sinistra, nessuno abbia niente da (ri)dire, che ci sia un implicito consenso politico  trasversale, come se fosse vietato discutere i modelli socio-economici dominanti e immaginarne di alternativi. La miseria della politica e’ causata dalla sua rassegnazione e dalla sua rinuncia a progettare il nuovo. Il malcostume e il cattivo gusto sono la conseguenza, non la causa, di questo impoverimento intellettuale e morale.