Cane pazzo
di Enrico Tomaselli - 30/06/2025
Fonte: Giubbe rosse
Sono gli Stati Uniti a guidare Israele, che ne è il docile strumento per il controllo del Medio Oriente, o viceversa è Israele a controllare di fatto gli USA, anche grazie alla capillare azione dell’AIPAC [1], che tra finanziamenti ed ostracismi ad hoc tiene in pugno l’intero Congresso?
C’è da lunghissimo tempo un acceso dibattito sulla relazione tra Stati Uniti ed Israele, sulla natura di questo rapporto – che certamente non può essere semplicemente riassunto in termini geopolitici. L’opinione prevalente, quantomeno negli ambienti del cosiddetto dissenso, sembra essere che siano gli USA a tenere le redini del comando, e come sempre in questi casi, una volta assunta una tesi si finisce per leggere ogni fatto come coerente con la tesi stessa.
La mia personale opinione, in merito, è che la natura di questa relazione sia in effetti assai più complessa di quanto possa essere riassunto nella scelta binaria, A o B. E che, in ultima analisi, entrambe abbiano potenti leve per condizionare le scelte dell’altro, così come – conseguentemente – entrambe abbiano bisogno l’uno dell’altro. Il recente conflitto con l’Iran, la cosiddetta guerra dei 12 giorni, è un’ottima occasione per verificare queste diverse tesi.
Quello che possiamo dare per certo, è che Washington sapeva che Tel Aviv stava preparando l’attacco. E, ovviamente, questo può essere letto in modi diversi. Può significare che il negoziato avviato da Witkoff con la mediazione del Qatar era, sin dall’inizio, null’altro che una cortina fumogena per coprire l’attacco stesso. O, viceversa, poiché la fermezza iraniana stava bloccando le trattative, Trump ha pensato che l’azione israeliana potesse indurre Teheran a più miti consigli. In entrambe i casi, però, la vera domanda è: tenuto conto del fatto che sia a Washington che a Tel Aviv non potevano non essere consapevoli dei limiti strutturali dell’operazione Rising Lion, qual’era il vero obiettivo?
Ovviamente quella del nucleare militare iraniano è una favoletta per il pubblico occidentale, che oltretutto se la beve pari pari da trent’anni [2], quindi ciò che si voleva conseguire non era la distruzione del programma nucleare di Teheran.
L’obiettivo ultimo, su cui concordano sia gli USA che Israele, è ovviamente la riconquista occidentale dell’Iran. Non a caso, per un paio di giorni è riapparso il principe Reza Pahlavi, erede dello shah (un feroce dittatore al servizio delle sette sorelle). Ma portare a termine questo ambizioso disegno non è possibile, almeno non senza mettere boots on the ground – cosa che nessuno dei due partner è nelle condizione di fare.
Se fosse vera l’ipotesi degli USA che pilotano Israele, se ne dovrebbe dedurre che Washington ha consapevolmente mandato avanti il suo alleato mediorientale, in una impresa che nasceva comunque col fiato corto e senza grandi speranze; viene da chiedersi perché avrebbe dovuto farlo. Se, viceversa, fosse vera l’ipotesi opposta, si dovrebbe supporre che l’intento fosse quello di trascinare gli Stati Uniti in una guerra distruttiva per Teheran; ma allora viene da chiedersi perché ciò non sia accaduto.
Fermo restando che va sfatata la mitologia che vede l’occidente – e segnatamente USA ed Israele – sempre vincenti e sempre capaci di fare le mosse giuste (la storia ci dice esattamente il contrario), e quindi mettendo in conto che l’uno o l’altro – o entrambe – abbiano potuto commettere degli errori di valutazione, dobbiamo considerare come si è sviluppata l’intera questione.
In una prima fase, la volontà negoziale statunitense è sembrata reale (tanto che gli iraniani l’hanno presa sul serio), ed è in effetti coerente con l’esito finale degli avvenimenti: l’intento della Casa Bianca era ed è evitare l’esplodere di un conflitto regionale generalizzato – i cui esiti sono imprevedibili, e minacciano gli accordi appena raggiunti con i paesi arabi del Golfo (Arabia Saudita, EAU, etc [3]). La posizione di partenza degli USA (“no allo sviluppo di armi nucleari, no all’arricchimento dell’uranio oltre i limiti necessari per l’uso civile”) era in effetti perfettamente accettabile per l’Iran, poiché questo non ha mai avuto l’intenzione di costruire un’arma nucleare, e lo stesso arricchimento era in effetti nulla più che una forma di pressione per arrivare ad un negoziato, e quindi alla fine delle sanzioni.
Ovviamente la possibilità che si arrivasse ad un accordo, così prevedibile e così facile, agli occhi sia di Israele che delle fazioni più oltranziste nell’amministrazione Trump, appariva come fumo negli occhi.
Pertanto è cominciato una sorta di balletto, con le richieste statunitensi che variavano nel tempo con sempre nuove aggiunte (“stop totale all’arricchimento, stop al programma missilistico, stop al sostegno all’Asse della Resistenza…”), e con un disallineamento tra quanto diceva Witkoff in Qatar e quanto diceva Trump su Truth. La debolezza della presidenza Trump, che è direttamente legata alla sua personalità eclettica, ha dapprima reso possibile questa incertezza, e poi, conseguentemente, ha prodotto un irrigidimento da parte iraniana. Il risultato è stato incartare il negoziato. E questo stallo ha aperto un varco all’iniziativa israeliana.
Probabilmente Trump si è convinto che fosse necessario forzare la mano a Teheran, e Netanyahu gli ha decantato un mirabolante piano d’attacco che, senza coinvolgere Washington più di tanto, avrebbe messo in ginocchio l’Iran.
Trump voleva l’accordo e non voleva una guerra. Netanyahu non voleva l’accordo e voleva una guerra.
Se guardiamo a come sono andate le cose, vediamo che nessuno dei due ha ottenuto ciò che voleva. Non c’è l’accordo, e c’è stata una – sia pur brevissima – guerra. Ergo, nessuno dei due esercita un controllo completo sull’altro.
Ma qual’era il vero disegno israeliano? Innanzi tutto, e tenuto conto degli stretti rapporti che esistono tra i due paesi, è impossibile che Tel Aviv non fosse consapevole che Washington non si sarebbe fatta trascinare in guerra. O quanto meno che questa ipotesi era estremamente remota, e quasi certamente legata ad un pericolo reale ed imminente di sconfitta strategica per lo stato ebraico. Un rischio che nessuno in Israele avrebbe mai messo in conto. Appare pertanto probabile che il disegno fosse un’altro. Come del resto sembra suggerire lo sviluppo stesso dell’operazione militare.
Nei primi due giorni, quelli decisivi, gli attacchi israeliani hanno avuto l’evidente obiettivo di disarticolare il sistema politico-militare iraniano, ancor più che di sminuirne le capacità offensive. Il fatto stesso che Tel Aviv abbia deciso di giocarsi la carta della sua vasta rete di infiltrati ed agenti coperti (frutto prezioso di anni, se non decenni di lavorio segreto da parte del Mossad), mobilitati sia per portare attacchi con droni o per la segnalazione di obiettivi, sia per alimentare il caos e la confusione, testimonia la convinzione di avere una chance di scuotere il regime. Il calcolo della leadership sionista, quindi, appare plausibilmente essere stato quello di aprire un varco; non tanto tirare gli Stati Uniti in una guerra cinetica con la Repubblica Islamica, quanto offrire una opportunità alla leadership statunitense. Produrre uno shock nella società e nella leadership iraniana, tale appunto da aprire una finestra di opportunità in cui, sommando la capacità offensiva di Israele e USA, apparisse possibile portare rapidamente al collasso del regime.
Appare qui evidente che il calcolo non è stato errato soltanto sotto il profilo militare (la capacità di reazione dell’Iran) quanto soprattutto sotto il profilo politico, strategico. Non solo non c’è stato alcun collasso a Teheran, ma dal terzo giorno si è cominciato a delineare il rischio concreto che a collassare fosse la difesa israeliana. Come è stato detto, “la deterrenza iraniana non è soltanto la somma di missili balistici e droni. È una cultura politica, un orizzonte di disciplina, una capacità di stare in guerra senza perdere sé stessi. È un modo di essere realtà organica in un mondo ostile” [4].
Quella che doveva essere (nel disegno israeliano) una chance per liquidare la Repubblica Islamica, o quanto meno (nella visione statunitense) una efficace mossa per costringerla a negoziare alle condizioni di Washington, si è rapidamente trasformata in una trappola.
Il veloce degradarsi delle capacità operative della difesa aerea di Israele [5], dovuta essenzialmente ad una scarsità di missili intercettori (problema questo che riguarda l’intero occidente [6]), ha posto Tel Aviv e Washington dinanzi ad un problema reale ed imminente.
La ridotta capacità di intercettazione, infatti, apriva la strada non tanto a crescenti ondate di missili iraniani – che Teheran era ben consapevole avrebbero offerto agli USA una ragione per attaccare a loro volta pesantemente – quanto ad una serie di lanci meno massicci, ma sempre più efficaci, che avrebbero via via demolito le infrastrutture strategiche israeliane.
Il problema si poneva sotto il duplice profilo di impedire una troppo significativa (e difficilmente occultabile) sconfitta militare israeliana, e di evitare l’innesco di una escalation dagli sviluppi imprevedibili – e certamente sgradita ai paesi arabi moderati.
Da questo punto di vista, la soluzione trovata tra Pentagono e Casa Bianca – ovvero l’attacco simultaneo ai tre siti nucleari di Ferdow, Isfahan e Natanz – è stata per molti versi altamente efficace, ed ha offerto anche l’occasione per esibire una considerevole capacità di proiezione della forza aerea statunitense. Sotto questo profilo, un perfetto esempio del clausewitziano “proseguimento della politica con altri mezzi”.
Purtuttavia, questa operazione – che ha certamente consentito di salvare capra e cavoli in tempi brevi – è non priva di risvolti, politici e militari, negativi, dal punto di vista israelo-statunitense.
Innanzi tutto, e non banalmente, nell’attacco sono state utilizzate 14 GBU-57 MOP bunker buster su 20 totali di cui disponevano gli USA. E soprattutto, nonostante emergano con forza notizie sulla scarsa efficacia degli attacchi stessi [7], sia Washington che Tel Aviv sono costrette a sostenerne a spada tratta l’assoluta efficacia distruttiva. Il che, ovviamente, disarma entrambe rispetto ad un rilancio a breve della trita narrazione sull’imminenza del pericolo nucleare iraniano, e rafforza la posizione di Teheran nel respingere la ripresa di negoziati.
Trump ha dovuto smentire le indiscrezioni della DIA (Defence Intelligence Agency), e la stessa Tulsi Gabbard, per sostenere la tesi dell’attacco risolutivo. A sua volta, Netanyahu – che sta tenendo nascosti agli israeliani i danni effettivamente provocati dai missili iraniani – medita di sfruttare l’onda di questa finta vittoria (che ovviamente si attribuisce) per andare ad elezioni anticipate e fare cappotto: l’80% della popolazione ebraica crede (ancora) al successo militare di Israele e sostiene la decisione di colpire l’Iran. Entrambe, quindi, si trovano nella necessità di capitalizzare politicamente un inesistente esito positivo del conflitto, e devono quindi sostenere sino in fondo l’effettiva consistenza dell’attacco.
A sua volta Teheran ha gioco facile nel capitalizzare a sua volta. Il consenso interno si è rafforzato, le strutture politiche e militari hanno retto benissimo, il rapporto con gli alleati Russia e Cina ne esce più solido che mai [8], il proprio ruolo regionale si consolida.
Ancora una volta, quindi, quel che emerge dall’osservazione fattuale della relazione tra Stati Uniti ed Israele è che difficilmente si può affermare, provatamente, che l’uno sia mero strumento dell’altro. Si tratta certamente di un rapporto dialettico, le cui dinamiche sono mutevoli in base al contesto interno ed internazionale, ed in cui la reciproca capacità di condizionamento non è costante nel tempo e nell’intensità. Ciò detto, è sin troppo evidente che – anche a prescindere dal considerevole potere nel condizionare le scelte statunitensi, da parte delle lobbies sioniste (ebraiche ed evangeliche) – la condizione oggettiva di Israele è quella di una dipendenza esistenziale dal sostegno USA, sotto il profilo militare, economico e politico-diplomatico. In ultima analisi, quindi, è Washington a tenere al guinzaglio Tel Aviv. Anche se, appunto in base alle situazioni contingenti, gli interessi strategici degli Stati Uniti devono in qualche modo essere resi compatibili (o viceversa) con quelli israeliani.
Al tempo stesso, poiché questi interessi non risultano sempre conciliabili, Israele non può fare affidamento esclusivamente sul condizionamento dell’AIPAC, e deve mantenere la possibilità di dare, autonomamente, uno strattone al guinzaglio, sbilanciando chi ne tiene l’altro capo e costringendolo a seguire l’iniziativa della leadership sionista.
Insomma, Israele è un po’ il cane pazzo degli Stati Uniti. Non sempre è ubbidiente, e spesso cerca di sfuggire al controllo, mettendo Washington negli impicci. Ma non può essere lasciato al suo destino, e lo sa.
1 – Come ha detto la deputata M.A.G.A. Marjorie Taylor Greene, nel corso di una intervista sul canale di Tucker Carlson, i membri del Congresso sono sostanzialmente costretti a giurare fedeltà a Israele. Secondo lei, ci si aspetta che i legislatori dichiarino costantemente che “Israele è il nostro più grande alleato” e mostrino pubblicamente il loro sostegno, sia sui social media che di persona. A suo dire, è diventato così routinario e programmato che è impossibile non notarlo. Cfr. il video su X: link
2 – La CNN ha prodotto una raccolta di clip delle ripetute affermazioni di Netanyahu, a partire dal 1996, secondo cui l’Iran sarebbe vicino a un’arma nucleare. Netanyahu lo ripete da quasi 30 anni. Cfr. il video su X: link
3 – Si deve tenere presente che la strategicità del Medio Oriente, per gli USA, non è più tanto legata alla produzione petrolifera (almeno da quando sono autosufficienti), quanto al petrodollaro, cioè all’aggancio tra la valuta statunitense ed il commercio del petrolio, che costituisce oggi uno dei più solidi pilastri su cui ancora regge il predominio del dollaro. Ed in questo risulta fondamentale mantenere un rapporto privilegiato con L’Arabia Saudita.
4 – Cfr. “Iran insubordinato, resistenza e crisi dell’impero: la paura cambia campo”, Pasquale Liguori, L’Antidiplomatico
5 – Circa la metà delle intercettazioni di missili e droni iraniani si deve ai sistemi di difesa dell’IDF (comunque alimentati degli USA). Circa il 22% dei missili balistici iraniani è stato intercettato dall’aeronautica militare giordana, il 25% dai sistemi THAAD e dalle navi statunitensi nel Mediterraneo orientale e nel Golfo Persico, e solo il restante 53% è stato intercettato dai sistemi difensivi israeliani.
6 – Secondo Carolina Lion (analista USA), sembra che Washington abbia esaurito circa il 15% del proprio arsenale THAAD in poco meno di due settimane, per difendere Israele dai missili balistici iraniani. Il che significa che probabilmente le munizioni per la difesa aerea si esaurirebbero in circa 6 settimane, in caso di guerra contro Russia o Cina. Cfr. anche “Israel Is Running Low on Defensive Interceptors, Official Says”, Shelby Holliday, Wall Street Journal
7 – Secondo il presidente del Comitato dei capi di stato maggiore degli Stati Uniti, il generale Dan Cain, che ne ha parlato durante un briefing con i senatori americani, l’USAF non ha nemmeno provato a colpire la struttura di Isfahan con le GBU-57, poiché si trova ad una profondità tale che queste bombe non sarebbero state efficaci. Gli USA hanno utilizzato missili da crociera Tomahawk sulla parte superficiale del complesso e gli ingressi alla parte sotterranea, che sembrano non aver subito grandi danni, poiché gli iraniani li avevano precedentemente protetti riempiendoli di terra. Si ipotizza pertanto che l’impianto si trovi ad una profondità significativamente maggiore di 100 metri, e presumibilmente il centro di Fordow non è molto diverso. Cfr. “US did not use bunker-buster bombs on one of Iran’s nuclear sites, top general tells lawmakers, citing depth of the target”, Natasha Bertrand and Zachary Cohen, CNN
Secondo il direttore generale dell’AIEA, Rafael Grossi, il materiale più sensibile del programma nucleare iraniano si trova ad una profondità di circa mezzo miglio (circa 800 metri) sotto terra. Cfr. “UN nuclear chief Rafael Grossi: ‘I am a calm person. I focus on what I can do’”, Financial Times
Come riportato da Reuters, un altro sito sotterraneo sarebbe stato costruito negli ultimi anni sotto una montagna (Pickaxe), vicino al centro di Natanz. Si ritiene che sia anch’esso più profondo di Fordow e che gli iraniani vi abbiano messo al sicuro parte del materiale fissile. Cfr. “”U.S. strikes on Iran’s nuclear sites set up “cat-and-mouse” hunt for missing uranium””, Francois Murphy and John Irish, Reuters
8 – Come scrive Timofey Bordachev, direttore del programma del Valdai Club, la sicurezza e la stabilità dell’Iran non sono importanti, per Mosca, soltanto in virtù dell’accordo di cooperazione o per il ruolo nell’ambito dei corridoi euroasiatici, ma “l’Iran è un attore chiave nell’equilibrio eurasiatico e una discesa nel caos potrebbe trasformarlo in una rampa di lancio per interferenze straniere mirate a Russia e Cina attraverso l’Asia centrale”. Cfr. “Война на Ближнем Востоке угрожает Центральной Азии”, Timofey Bordachev, Vzglyad
Per quanto riguarda la Cina, come osserva Lorenzo Maria Pacini su Strategic Culture, “il conflitto tocca anche gli interessi di Pechino. (…) Cina e Iran hanno un accordo da 400 miliardi di dollari, fondato su petrolio e tecnologie, ed è diventata il partner commerciale al primo posto con l’Iran, occupando il 30% del mercato iraniano, per oltre 15 miliardi di dollari. Cosa più importate è la partecipazione al corridoio BRI, che configura l’Iran come l’amico insostituibile per una lunga serie di garanzie. (…) l’interesse in gioco è grande e, di conseguenza, non potrà che essere grande l’impegno della Cina come peacekeeper”. Cfr. “La Cina si fa avanti per la pace in Medioriente”, Lorenzo Maria Pacini, Strategic Culture