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L’inutile «vittoria» del Re Buffone

di Francesco Lamendola - 23/12/2010


C’era una volta, c’era, c’era… un Re Buffone.
Oh, cari bambini; era tanto, tanto tempo fa, in un Paese lontano, lontanissimo da qui: in un altro continente, anzi, a pensarci bene, credo che fosse addirittura su un altro pianeta, in un altro sistema solare, in un’altra galassia.
Questo Re Buffone, dunque, era stato acclamato dal popolo perché, ricco sfondato com’era, era riuscito a convincere tutti quanti che nessuno meglio di lui avrebbe saputo governare il Paese: se era stato così bravo a curare i suoi affari privati, dicevano i suoi propagandisti e i suoi ingenui estimatori, chissà che meraviglie avrebbe fatto, qualora gli fossero stata affidati gli interessi della cosa pubblica…
Nessuno badò al fatto che egli aveva saputo curare così bene i suoi affari privati, proprio perché aveva calpestato tutte le regole e perché era stato smaccatamente favorito dal precedente governo, naturalmente ricambiando ogni favore ricevuto in moneta sonante; e pochi si curarono del fatto che, avendo raggiunto il controllo della pubblica informazione, era in grado di persuadere occultamente i propri concittadini mediante una propaganda insidiosa, diuturna, martellante e, soprattutto, senza contraddittorio.
Si diceva alfiere della libera concorrenza, ma, di fatto, agiva in condizioni di monopolio; faceva leva sull’orgoglio nazionale, ma, pur di arrivare al potere, si era alleato con coloro i quali dicevano apertamente di voler dividere il Paese; si proclamava difensore della famiglia e dei valori tradizionali, ma intanto divorziava più volte e si concedeva generose feste con ragazze di facili costumi, alcune delle quali minorenni, che poi faceva in modo di far rilasciare, se venivano fermate dalla polizia per qualche reato comune; diceva di voler pensare innanzitutto al bene del Paese, ma intanto faceva approvare tutta una serie di leggi e provvedimenti a suo uso privato.
Sosteneva, addirittura, di aver fondato il partito dell’amore, ma non passava giorno senza che insultasse e diffamasse qualcuno: ora i giudici che avevano il torto di intralciare i suoi affari meno trasparenti; ora le casalinghe che, a suo dire, spendevano troppo perché  non sapevano fare la spesa; ora gli studenti i quali, invece di studiare, protestavano per il degrado della scuola; ora i giornalisti che mentivano sul suo conto; ora i suoi oppositori politici, che erano tutti in malafede; ora dei centri di potere internazionale non meglio identificati, che avrebbero tramato una campagna di disinformazione ai suoi danni, ad esempio mostrando in televisione le migliaia di tonnellate di spazzatura che ingombravano le strade di una delle città più belle, dopo che lui aveva dichiarato non esservi più alcuna immondizia da smaltire.
Si era circondato di una pletora di camerieri, maggiordomi e lacchè travestiti da ministri, funzionari e direttori di giornali e reti televisive, i quali, per servilismo, bassa adulazione e interesse personale - giacché li ricompensava molto bene per i loro servigi -, non gli dicevamo mai una parola di saggezza e di moderazione, ma piuttosto lo aizzavano ad assumere un tono sempre più spavaldo, più arrogante, più sfrontato. Decisi a conservare poltrone e privilegi, tutti costoro facevano a gara tra di loro a chi si distingueva maggiormente per zelo dissennato, del tutto incuranti del bene pubblico e sprofondati fino al collo in un mare di menzogne spudorate.
Se la gente comune faticava ad arrivare alla fine del mese, oppressa dal costo della vita sempre più elevato e strangolata dai debiti, essi ripetevano, come un ritornello, che tutto andava bene, che presto sarebbe andato ancora meglio, grazie alla guida geniale e infallibile del Re Buffone; ma se, davanti alle situazioni più incresciose e drammatiche, erano proprio costretti ad ammettere che sì, forse non tutto andava sempre per il verso giusto e qualcosa, qua e là, non funzionava come avrebbe dovuto, la colpa era tutta, sempre e soltanto, degli incoscienti oppositori, dei denigratori, dei calunniatori: gente che non amava la propria Patria e che agiva al servizio di non si sa quale losco interesse straniero.
In breve, non aveva un solo amico, ma soltanto dei solerti adulatori, ragion per cui aveva perso completamente il senso della realtà e si immaginava che le sue rodomontate, le sue promesse piene di aria, le sue spacconate e le sue fanfaronate corrispondessero alla realtà vera, tale e quale; che, insomma, bastasse dire, per esempio: «La gente è soddisfatta e felice»; oppure: «Tutti gli impegni che avevo preso col popolo sono stati mantenuti», perché tali cose diventassero vere, all’istante, come per un colpo di bacchetta magica.
Era un uomo solo e, in fin dei conti, gravemente malato: chissà quali e quanti complessi di inferiorità si celavano dietro le sue pose ridicole da grande condottiero, da grande statista, da grande amatore di donne; basti dire che non aveva esitato a ricorrere ai servizi delle cliniche internazionali più costose per ringiovanire il suo aspetto, per far scomparire le rughe, per rinfoltire l’esigua capigliatura, proprio come fanno certe attrici in declino e talune stelle dello spettacolo ormai avviate malinconicamente sul viale del tramonto.
Innumerevoli furono le figuracce che questo Re Buffone fece fare al proprio Paese davanti agli altri governi: megalomane, narcisista, vanitoso fino al ridicolo, si prendeva terribilmente sul serio anche quando umiliava la dignità della sua funzione con scherzi da osteria, con battute volgari condite di bestemmie, con comportamenti goffi, inadeguati e riprovevoli, fedelmente ripresi dalle telecamere delle televisioni internazionali; ma ogni volta si giustificava dicendo che i giornalisti non avevano capito nulla, che avevano stravolto le sue parole e i suoi gesti, che lo volevano ridicolizzare per ostilità preconcetta: senza essere mai sfiorato dal sospetto che stava facendo tutto da solo, con le sue stesse mani, e che le sue rampogne contro la stampa erano a dir poco bizzarre, venendo da colui che controllava, direttamente o indirettamente, gran parte della rete di informazione del Paese, sia pubblica che privata.
Senza vergogna, senza dignità, senza onore, il Re Buffone si considerava il migliore dei governati che la sua Patria avesse mai avuto e lo diceva apertamente, tessendo le proprie lodi in maniera tale che perfino un bimbo di sei anni si sarebbe vergognato di fare; al punto che anche un imbonitore da fiera si sarebbe sentito avvampare le guance, nel dire tanti spropositi.
Finalmente arrivò il tempo in cui persino alcuni di coloro che lo avevano fino allora approvato e sostenuto, cominciarono ad averne abbastanza di lui e dei suoi modi e si vennero a trovare nel più grande imbarazzo, confrontando il suo stile di vita da satrapo persiano con le misere condizioni di milioni e milioni di cittadini, specialmente gli operai, i piccoli commercianti, i pensionati: confronto che appariva, ed era, scandaloso a chiunque avesse avuto non già un particolare acume politico, ma anche soltanto un minimo di sensibilità umana.
A quel punto, si decise di tenere una grande votazione nei Palazzi del potere, che avrebbe dovuto negargli la fiducia a suo tempo accordata.
Tuttavia, con ingegnosa abilità e con consumata malizia, il Re Buffone riuscì a far posticipare la data della votazione e utilizzò il tempo così guadagnato per avviare una febbrile opera di convincimento di una parte di questi suoi nuovi oppositori, affinché tornassero sui passi dell’ovile smarrito e gli rinnovassero la fiducia, invece di togliergliela. Che in tale opera di convincimento entrassero non solo e non tanto ragioni di tipo ideale, quali il bene comune e simili alti valori, ma anche argomenti di tipo assai più concreto, quali ricompense materiali alquanto tangibili, fu voce comune, ma non provata e non dimostrata; per cui non aggiungeremo null’altro su tale aspetto della cosa.
Giunse, così, il giorno fatidico della votazione: l’intero Paese tratteneva il fiato, per vedere come sarebbe andata a finire.
Per la verità, i problemi quotidiani dei cittadini comuni erano molto più immediati, come trovare i soldi per pagare l’affitto della casa o per riuscire ad acquistare il cibo e gli altri generi di prima necessità; non pochi si recavano ormai abitualmente ai mercati generai per portare a casa la merce avariata, la frutta e la verdura mezza marcia; oppure si mettevano in fila davanti alle mense gratuite per i poveri, al freddo, in attesa di un piatto di minestra calda, mentre le aziende continuavano a chiudere e i lavoratori a perdere il posto di lavoro. E questo nonostante che il Re Buffone e i suoi ineffabili ministri continuassero a proclamare che tutto andava bene e che sarebbe andato sempre meglio, se solo li si fosse lasciati rimanere al potere ancora per un po’ di anni, onde portare a termine l’eccellente opera di risanamento a suo tempo iniziata.
Eppure, nonostante tutto, molti cittadini erano ansiosi di sapere cosa sarebbe successo nelle stanze più alte del Palazzo, al momento della annunciata votazione; forse, in fondo al cuore, speravano che qualcosa sarebbe successo, qualcosa che avrebbe potuto mitigare un po’ le loro sofferenze e le loro quotidiane amarezze.
Intanto, fuori, nelle strade, gruppi di giovani esasperati si scontravano con la polizia e dalle barricate e dagli automezzi incendiati salivano le fiamme ed alte colonne di fumo, che davano al centro della capitale un aspetto desolato e inquietante di guerra civile.
Per il grande appuntamento, tutti i sostenitori del Re Buffone, nonché i suoi antichi e recenti oppositori, si erano dati convegno, animati da grandi propositi, gli uni di rivincita, gli altri di liberazione; perfino alcune donne incinte, in stato di gravidanza avanzatissimo, si recarono a deporre il proprio voto, col rischio di partorire lì, nella sala del palazzo.
Volarono parole grosse, insulti, da una parte e della’altra; poi si fece la conta dei voti e si vide che, per tre soli voti, il governo del Re Buffone aveva dato nuovamente la fiducia a se stesso, e ciò con l’apporto decisivo di taluni oppositori, i quali improvvisamente, folgorati da una subitanea ispirazione circa il bene del Paese, avevano votato in modo a sostegno del governo, sconfessando tutto ciò che avevano detto e fatto sino a quel momento.
Dalla parte degli uomini e delle donne del Re Buffone si levò un clamore immenso: furono fatte sventolare bandierine e gagliardetti, furono intonati cori di vittoria, come e peggio che se fossero stati dei tifosi scatenati in uno stadio di calcio, dopo la vittoria della squadra del cuore; si gridava, si esultava, si rideva scompostamente, inneggiando alla rinnovata fiducia che la nazione tutta, per opera dei suoi rappresentati, aveva dato al Re Buffon. Tutti i suoi fedeli lo acclamavano, mentre lui, che poco prima del voto si era allontanato per non udire le fiere rampogne dell’opposizione, ora tornava gongolante e non perdeva neppure un minuto nel circuire altri uomini dell’opposizione, prendendoli paternamente per le spalle, come un vecchio amico, e facendo loro intravedere la possibilità di sedere nelle poltrone del suo governo, se avessero deciso di voltare pagina e tornare a lui con spirito di sottomissione.
Più gonfio di superbia e più impettito che mai, dall’alto dei suoi tacchi rinforzati per sembrare più imponente, egli rinnovò le lodi di se stesso, gongolò vedendo umiliati i suoi avversari, si vantò senza freno delle proprie doti politiche, ribadendo che in lui solo stava la salvezza della Patria e che nessun altri che lui era qualificato a governarla, dato che, al suo confronto, tutti gli statisti precedenti impallidivano come delle ombre inconsistenti.
Appena pochi giorni dopo, una banale nevicata metteva in ginocchio l’intero Paese, tagliandolo letteralmente in due e costringendo migliaia di persone a trascorrere una intera notte bloccati in autostrada, nel gelo di un inverno polare: al mattino, quegli stessi cittadini, intirizziti, abbandonati da tutti, videro procedere gli spazzaneve e la scorta di motociclisti che aprivano la strada, trionfalmente, ad un ministro del governo, mentre di loro non si era curato nessuno…
Questo era accaduto un venerdì notte: e l’uomo che il Re Buffone aveva posto a capo del settore dei trasporti, con meravigliosa tempestività, annunciò che avrebbe convocato subito un consiglio delle autorità responsabili di tanti disagi e di tanta inefficienza… subito, vale a dire per il giorno di lunedì: perché, pur pagati con stipendi da favola, quegli illustri personaggi ritennero inconcepibile doversi privare del fine settimana, per il loro ben meritato riposo. Tanto, ormai, chi aveva trascorso una intera notte al gelo, non poteva essere più risarcito; in compenso, analoghe disavventure avrebbero potuto capitare a molti altri, fra il sabato e la domenica; ma, dopotutto, a che pro scaldarsi?  In fondo, si trattava di cittadini qualsiasi, non di ministri del Palazzo.
E quando, infine, lorsignori si degnarono di riunirsi intorno a un tavolo, il lunedì, decisero… che le nevicate, nel mese di dicembre, sono un evento altamente imprevedibile (!) e che, pertanto, nessuno aveva colpa di nulla per quanto era successo.
Come dite, bambini?
Volete sapere come andò a finire la vicenda del Re Buffone?
Oh bella, non me lo ricordo più; e poi, volete che ve la dica tutta?, questa storia non piace tanto neanche a me; non so perché me la sono inventata.
Dimenticatela più presto che potete.
E ora tutti a nanna, e sogni d’oro.