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Noi primitivi e “l’altro”

di Luca Leonello Rimbotti - 24/01/2011



 

Il pregiudizio egualitario neo-illuminista ci costringe da tempo a evitare la categoria “Altro”, quasi si trattasse di una parolaccia. Nessuno, per il bravo progressista, è mai un “altro”. Che diamine, siamo tutti uguali!  La scienza strutturalista aveva abituato a considerare pericoloso il pensare alle società diverse dalla nostra come “altre”: si capisce, l’ombra nera del razzismo era sempre in agguato, l’accusa di sentirsi superiori costringeva l’uomo occidentale bianco a un continuo senso di colpa… Per questo pregiudizio, l’antropologia culturale ha per decenni fatto della pessima ricerca. Dimenticando il fatto elementare che nessuna identità etnica e culturale è mai tracciabile, se non come esito di una differenza di base: il Noi esiste perché esiste l’Altro.

La riedizione di un vecchio e importante testo di Francesco RemottiNoi, primitivi. Lo specchio dell’antropologia (Bollati Boringhieri), risalente al 1990, ci permette, nonostante il peso di un passato scientifico ingombrante, di recuperare quel punto di vista originario, in base al quale fu possibile a un Erodoto gettare le basi della ricerca etnica: la constatazione che gli altri popoli, diversi dal nostro – e chiunque “noi” siamo -, sono portatori di costumi differenti, costituiscono un’altra via alla civiltà, sono insomma una realtà “altra” che proprio per questo si lascia osservare, studiare, magari anche apprezzare. Senza per questo innescare necessariamente il riflesso debilitante della sopravvalutazione dell’Altro e dello svilimento del Noi. Al fondamento dello studio delle civiltà “diverse”, “esotiche”, c’è la consapevolezza che non esiste “l’uomo” universale – come nei sogni illuministi – ma che invece esistono “gli uomini”; che non esiste un’unica società umana, ma ne sono sempre esistite, ed ancora ne esistono, di innumerevoli, ognuna con il suo timbro etnico, con la sua tradizione, con il suo sigillo identitario. Riguadagnare la prospettiva relativista significa liquidare l’universalismo cosmopolita che, per tanti decenni, ha impedito alle scienze antropologiche di studiare le culture senza pregiudizi egualitari, ma dal loro interno, e senza perdere la propria identità, ma anzi rinsaldandola nel confronto con quelle altrui. Si studiano i gruppi umani come mondi, universi ognuno diverso dall’altro, ognuno con sue verità, credenze, simboli, certezze, organizzazioni sociali. Tale è la ricchezza culturale del mondo, che l’ingiuria e la falsificazione più grande è ridurre tutto all’appiattimento universalista, affogando le specificità nell’indifferenziato.

L’antropologia culturale – che studia le etnie dal lato della loro produzione di civiltà, considerando i costumi una rappresentazione dell’anima collettiva – è una ricerca sugli Altri che investe anche il Noi, arricchendolo ogni volta di riflesso. Si tratta propriamente di un metodo schmittiano. Carl Schmitt affermava che è nella categoria dell’Amico e del Nemico che si scopre il proprio Io comunitario, dato che è il confronto, e persino il conflitto con gli altri, che crea la magia del riconoscimento di ciò che siamo e di ciò che non siamo.  Remotti ricorda che una simile attitudine è sempre stata considerata normale presso tutti i popoli, senza bisogno che nessuno Schmitt spiegasse loro la fecondità della differenza che passa tra Noi e gli Altri: «l’identità sociale si ottiene mediante una distinzione e un’opposizione (“noi”/“gli altri”) e quindi mediante una classificazione». Si tratta, dunque, addirittura di una “opposizione”. Si oppone un concetto reale (la nostra civiltà) a un altro concetto reale (la civiltà di un altro popolo). Questo semplice metodo, che rimase in uso anche presso i vecchi illuministi settecenteschi (che difatti, a cominciare da Buffon e Voltaire, esagerando, crearono le basi del moderno razzismo scientifico), è stato contestato a lungo dai progressisti universalisti, per i quali esiste solo la sfinge di un’umanità una e indivisibile. Così si evitava il rischio di incorrere nel razzismo, certo, ma si impediva anche di capirci qualcosa nell’etnologia e nell’antropologia, mettendo nello stesso sacco i polinesiani e i turchi, i bantu e i finlandesi. Remotti ricorda che alla fonte dell’idea collettiva le società del passato ponevano un accento sacrale. L’identità tradizionale non era ancora materia sociale, ma sacro dono ricevuto dalla natura divina. E tale distinzione non era solo un riconoscimento spontaneo della diversità che esiste tra le culture umane, ma anche una loro gerarchizzazione. I modelli umani sono stati per millenni considerati in base a una gerarchia dei gruppi umani: «Se è vero che l’identità sociale è raggiunta mediante una differenziazione esterna, si può allora asserire che la classificazione degli ‘altri’ (vicini, stranieri più o meno lontani) è un momento costitutivo di ogni società, per quanto piccola e insignificante essa sia; e questi ‘altri’ non soltanto sono diversi, ma si collocano su piani diversi di umanità».

La  scienza sa che si può essere ottimi antropologi anche senza aver mai viaggiato. Che la vera conoscenza – oltre che studiando “sul campo” – la si ottiene producendo grande cultura e grande apertura verso la diversità. Aprirsi al “diverso”, volerlo conoscere, diversamente dal pregiudizio odierno, non vuole affatto dire rinunciare a se stessi e diventare qualcosa d’altro. Al contrario, Remotti ricorda non a caso che, ad esempio, Kant non sapeva che farsene dei tahitiani. Nel senso che egli aveva ancora ben vivo quel grado di rischio per la propria identità che è presente in ogni profonda ricerca su ciò che ci è estraneo: l’odio kantiano per i viaggi – momento di «affastellamento di casi, un groviglio disordinato di materiali» – è precisamente «l’odio per il disordine che essi generano o svelano».

Tale insidia nascosta nel viaggio – che sia solo quello banalmente turistico, che non di rado ingenera un immaturo innamoramento per le atmosfere esotiche, oppure quello scientifico dell’antropologo che si immedesima troppo nei soggetti da lui studiati – è il pericolo cui si espone una struttura, al contatto con una diversa e opposta. Certo, non si farà come Platone, che Remotti ricorda essere stato un proibizionista del viaggio, in quanto contenitore del disordine, del caos, ma si vorrà in ogni caso concepire il contatto con la diversità come un momento di conoscenza, ma avendo sempre la coscienza ben desta. Il pericolo è la perdita dell’identità. La perdita del dono prezioso che risiede nella cultura dell’osservatore. “L’acquisizione interiore della scienza” era per Platone la garanzia che una società autarchica, sufficiente a se stessa, che rifugge dall’immischiarsi nelle faccende e nelle realtà altrui. Una posizione estrema, filosofica. Eppure, nascondeva la grande verità. Le culture sono fragili, più fragili di quanto sembri. Esse vivono della separazione dalle altre culture, esistono perché qualcosa le separa le une dalle altre. Senza distinzione, senza frontiere, senza limiti e delimitazioni si avrebbe davvero il cimitero del Villaggio globale, il mondo indifferenziato, la poltiglia universale, e non vi sarebbe allora più bisogno di alcuna antropologia, poiché non vi sarebbe più nessun “altro” da studiare. La verità antropologica dissepolta da Remotti, in opposizione allo strazio della diversità che il fanatismo egualitario impone oggi con sottile violenza, è di una chiarezza solare: «La separazione – egli ha scritto – appare spesso come un’attività meritoria: ci si distingue dagli altri…si può quindi rivendicare il senso profondo della propria civiltà o cultura esercitando l’analisi, compiendo separazioni. La civiltà – come l’umanità – è distinzione: è la scoperta o l’invenzione di un’isola, la quale vanta qualità del tutto peculiari ed esclusive rispetto al mare che la circonda». La stessa sostanza fisica su cui giace una civiltà – il suo territorio – è soprattutto una materia da sottoporre a delimitazione, qualcosa che o è circoscritto, oppure è spazio aperto, un nulla privo di nome e di sostanza. In questo senso, suggerisce Remotti, ogni civiltà è una civiltà “primitiva”, nel significato di “primordiale”, di autentico; ed anche la nostra europea lo sarebbe, se solo rimanesse avvinta alle proprie origini e fosse in grado di raccontarsi agli “altri”, senza mescolarvisi scompostamente.

Che tali osservazioni, in passato ovvie e scontate, appaiano oggi rivoluzionarie e sovvertitrici, nel senso che richiamano ai fondamenti stessi dell’appartenere, e quindi al presupposto primo di ogni società, è un tristissimo attestato che la nostra civiltà troppo a lungo è stata preda di una voluta dimenticanza. L’oblio del Sé cui siamo stati costretti da decenni di arroganza egualitarista impone oggi la svolta, il ritorno alla consapevolezza che la civiltà è radicamento e che il radicamento è qualità non ripetibile nell’ovunque e nel comunque. Come diceva Herder, ricordato da Remotti, «una ragione angelica non la conosciamo…la ragione dell’uomo è umana». E umano è avere limiti, conoscere confini, vivere ognuno la propria forma.