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Chi ha ucciso Vittorio Arrigoni?

di Alessandro Iacobellis - 05/05/2011

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La morte di Vittorio Arrigoni, blogger e attivista dell’International Solidarity Movement, ha colpito profondamente tutti coloro che si interessano alla situazione in Palestina. Arrigoni negli anni era riuscito a diventare punto di riferimento per chi volesse sapere quello che accade realmente nella Striscia di Gaza, quella lingua di terra affacciata sul Mar Mediterraneo in cui più di un milione e mezzo di palestinesi vive da anni una punizione collettiva per la sola colpa di avere scelto democraticamente nel 2006 Hamas come forza di governo.

Le parole spese sulla vicenda sono state tante. Purtroppo i grandi organi di informazione sono scaduti come al solito in un misto di malafede vera e propria e semplice superficialità.

La parola magica su cui concentrarsi è diventata “salafiti” per descrivere l’ambiente politico e religioso in cui si presume sia maturato il rapimento e l’uccisione del nostro connazionale.

Per prima cosa è necessario chiarire che il salafismo è una delle tante correnti interpretative dell’Islam, e non coincide necessariamente con la lotta armata jihadista e con il terrorismo. Esso si ricollega a tutto quel filone di studi coranici che vagheggia un ritorno alle fonti originali della religione. Il termine stesso “Salaf” in arabo è un riferimento ai “predecessori”, ossia alle prime tre generazioni di musulmani e al loro stile di vita.

L’ideale del ritorno alle fonti e a una purezza teoretica che l’Islam avrebbe perso nel corso dei secoli ricorre in diversi studiosi in diverse epoche. A sua volta si possono identificare diverse dottrine che prendono spunto da questa interpretazione della religione: l’hanbalismo da cui a sua volta discese nel XVIII secolo il wahhabismo, la setta oggi dominante in Arabia Saudita. Il salafismo moderno va ricollegato soprattutto agli studi dell’egiziano Rashid Rida (fine ‘800).

Di per sé il salafismo (comunque aspramente criticato da altre correnti e tacciato talvolta di eresia) non è quindi automaticamente violento. Gran parte dei gruppi armati che negli ultimi decenni stanno facendo parlare di sé nel mondo arabo e non solo sostengono però di fare riferimento (quasi sempre in maniera rozza e grossolana) a questa particolare interpretazione della dottrina islamica. Non a caso una delle più note organizzazioni della guerra civile algerina degli anni ’90 era proprio il “Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento” (Gspc), una delle tante formazioni nate all’indomani del golpe militare che depose il governo eletto del Fis (Fronte Islamico di Salvezza) e della susseguente guerra civile nel Paese nordafricano.

In ogni caso, tutta la vasta e nebulosa galassia etichettata come “Al Qaida” oggi viene fatta risalire direttamente o indirettamente a questa matrice ideologica.

A livello puramente religioso, il salafismo in Palestina ha sempre avuto un ruolo assolutamente marginale. Soprattutto se consideriamo che la società palestinese è stata fino a non molti anni fa la più laica dell’intero mondo arabo-islamico, anche per il forte apporto politico e culturale dato dalla comunità cristiana. Anche i maggiori gruppi di matrice islamica palestinese non vanno assolutamente confusi con questa realtà. Né la Jihad Islamica né ancor meno Hamas (Movimento di Resistenza Islamico), nata ufficialmente nel 1987, le quali traggono entrambe ispirazione da tutt’altro ambiente, a grandi linee riconducibile ai nuclei della Fratellanza Musulmana palestinese creatisi a partire da fine anni ’60 come associazioni caritatevoli all’interno dei campi profughi. Questo anche per ragioni pragmatiche: Hamas, dopo una prima fase di gruppo armato, ha elaborato anche una propria strategia politica, culminata con le elezioni vinte nel 2006; la partecipazione elettorale è un’idea che al contrario tutte le diverse forme del “puritanesimo islamico” come il salafismo rigettano a priori.

La Seconda Intifada (cominciata a fine settembre del 2000 in seguito alla passeggiata di Ariel Sharon presso la Spianata delle Moschee di Gerusalemme) vede a differenza della prima del 1987 (ancora monopolizzata dalle forze laiche della Resistenza palestinese, la Fatah di Arafat e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina) una larga partecipazione dei movimenti di ispirazione islamica, il che porta fra le altre cose a un mutamento delle tattiche utilizzate (anche l’uso di attentatori suicidi, comunque impiegati pure da Fatah e dall’Fplp), ma nonostante ciò l’informazione occidentale non evoca mai nemmeno in un’occasione il mantra del terrorismo internazionale in quella che rimane comunque la lotta nazionale palestinese. Così come in questo periodo non si ha notizia di un solo attacco portato da organizzazioni extra-palestinesi.

Lo spauracchio del terrorismo globale e delle sue mille (presunte) ramificazioni arriva solo dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Da quel momento Al Qaida appare improvvisamente dappertutto, anche (soprattutto) dove non c’è: nell’Iraq di Saddam Hussein per giustificare la guerra del 2003, e ovviamente nei Territori Palestinesi.

La situazione politica palestinese in quei mesi si fa già caotica per la feroce rivalità tra Fatah e Hamas, sfociata in diversi scontri armati fratricidi. A complicare ulteriormente le cose, tanto nella Cisgiordania occupata quanto a Gaza, ci si mette la “Guerra al Terrorismo” dichiarata da George W. Bush, per cui non esistono differenze tra il terrorismo internazionale e i movimenti di resistenza nazionale, cosa di cui Israele non tarda ad avvantaggiarsi. Nel maggio 2002 Sharon comincia a parlare di presenze qaidiste a Gaza e nel sud del Libano (“in cooperazione con Hizbollah”; balla colossale che non sta in piedi per chi sappia un minimo di come Al Qaida considera i musulmani sciiti, eppure la stampa internazionale se la beve, nonostante gli anni successivi abbiano dimostrato l’esatto contrario). Ad agosto dello stesso anno succede qualcosa di interessante: le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese (all’epoca ancora sotto il controllo di Arafat) smantellano una rete di otto palestinesi che, secondo le dichiarazioni ufficiali rilasciate dal colonnello Rashid Abu Shbak, erano state finanziati e armati da operativi israeliani per formare un gruppo qaidista palestinese. Tel Aviv ovviamente rigetta l’accusa con sdegno, bollandola come “propaganda” (il che potrebbe pure essere vero, ma da che pulpito, vien da dire).

Successivamente si verifica una serie di eventi destinati a stravolgere decenni di equilibri consolidati della politica palestinese. L’11 novembre 2004 muore Arafat, e Fatah passa nelle mani di Mahmud Abbas (Abu Mazen) e della sua cerchia, e un paio di anni dopo, nel 2006, le prime e ad ora uniche elezioni legislative nei Territori vengono stravinte da Hamas, che vede premiata la sua politica di lotta senza compromessi associata all’attenzione per le fasce più indigenti della popolazione in aperto contrasto con la corruzione dilagante nei ranghi dei rivali. Nel mezzo (estate 2005), c’era stata la machiavellica mossa israeliana nota come “Piano di disimpegno unilaterale”, in pratica lo sgombero delle colonie ebraiche della Striscia di Gaza (in tutto 21, poche e in linea di massima non più sostenibili in termini di sforzo militare ed economico). Così facendo Israele coglieva due piccioni con una fava: dava al mondo l’impressione di effettuare un gesto distensivo, di fatto sigillava un milione e mezzo di palestinesi in 360 km quadrati. Parallelamente sta avvenendo qualcos’altro su scala regionale: il Vicino e Medio Oriente stanno diventando terreno di una partita a scacchi tra la Repubblica Islamica dell’Iran da un lato e l’Arabia Saudita (storico bastione filo-occidentale) dall’altro. In tutto questo gli Stati Uniti ma anche Israele scelgono un ruolo defilato, lasciando che lo scontro tutto interno al mondo islamico divampi a loro vantaggio (con la prima linea nell’Iraq “liberato”). Questa divisione trova terreno fertile anche in ambito palestinese: Hamas, alla disperata ricerca di appoggi internazionali per uscire dall’isolamento cui è sottoposta, si avvicina a Teheran. Con gli scontri del 2007 che porteranno alla rottura nel fronte interno palestinese (ricomposta solo in questi ultimi giorni), il Movimento Islamico passa a governare la Striscia, mentre Fatah si prende la Cisgiordania. E’ importante notare in questo senso che Gaza e la West Bank presentano profonde differenze di carattere sociale ed economico. La Cisgiordania, benché anch’essa occupata nonché soffocata dal muro “anti-terrorismo” imposto da Israele, ha maggiori margini di crescita e diverse città in cui va costruendosi tra mille difficoltà una parvenza di classe media e borghese. Gaza, drammaticamente sottoposta a un assedio nell’indifferenza ipocrita di tutto il mondo o quasi, si fonda necessariamente su un’economia di sussistenza che non può prescindere dagli aiuti internazionali e che fa sì che la società sia ancora legata a vecchie logiche di clan. Di questo ne risente anche la scena politica: diversamente dalla Cisgiordania, a Gaza i partiti non possono fare a meno di cercare il consenso delle famiglie più influenti. Ed è proprio tra questi clan che negli anni hanno trovato spazio ambigui e oscuri gruppi armati. Una delle prime operazioni dei sedicenti qaidisti di Gaza è il rapimento nel 2007 del reporter della Bbc Alan Johnston. I responsabili sono gli appartenenti al cosiddetto “Esercito dell’Islam”, che in realtà altro non è che la fazione armata della potente famiglia Doghmush, clan che gestisce diversi traffici illeciti nella Striscia (in particolare quelli legati ai tunnel sotterranei, vitali per contrabbandare dall’Egitto beni di prima necessità).

Stando a diverse fonti la predominanza dei clan nella Striscia e una loro permeabilità ad infiltrazioni di ogni tipo non conosce distinzioni nemmeno tra le fazioni legate alla pur laica Fatah. Fonti di Hamas hanno infatti accusato l’ex ras di Fatah a Gaza, Muhammad Dahlan, di essere il finanziatore occulto dei gruppuscoli salafiti spuntati negli ultimi anni per minare la stabilità interna della Striscia. Dahlan si era fatto notare per la ferocia con cui ha perseguitato i militanti di Hamas prima del 2007, instaurando un vero clima di terrore in tutta Gaza e approfittandone al tempo stesso per creare un piccolo impero economico personale attraverso traffici illeciti di ogni genere anche con gli israeliani (in particolare nel settore dell’edilizia). Egli aveva stabilito anche contatti con l’amministrazione repubblicana della Casa Bianca (ha avuto diversi incontri con Condoleeza Rice). Insomma, non certo quel che si direbbe un patriota irreprensibile, tanto più che in Palestina si dice che sia stato lui a fornire le soffiate utili al Mossad per eliminare l’anno scorso a Dubai Mahmud El Mabhuh, il cui compito era di acquistare armi per la Resistenza palestinese. Naturalmente è lecito pensare che le accuse rivolte a Dahlan siano strumentali, ma c’è da dire che provengono anche da quegli ambienti all’interno della stessa Fatah che male hanno digerito la politica compromissoria degli ultimi anni, in particolare l’ala che fa riferimento a Farouk Qaddumi. Va sottolineato che Dahlan, dopo essere stato cacciato da Gaza (dove però mantiene tuttora parecchi contatti) ufficialmente non ricopre più alcun ruolo all’interno di Fatah per sospetti di cospirazione ai danni dello stesso Abu Mazen. Un altro esempio dell’ambiguità dell’agenda seguita da questi misteriosi gruppi qaidisti palestinesi la troviamo anche fuori dalla Palestina, in Libano, dove Fatah Al Islam, insediatasi nei campi profughi presso Tripoli (in particolare a Nahr Al Bared) si era dedicata unicamente ad attacchi contro cristiani maroniti e membri di Hizbollah prima di essere sconfitta dall’esercito libanese.

Il pugno di ferro è l’unica lingua che questi gruppuscoli paiono capire: lo dimostra anche la battaglia del 14 agosto 2009 a Rafah, nel sud di Gaza, quando le Brigate Ezzedine Al Qassam furono costrette a ricorrere alla forza nei confronti di una banda auto-denominatasi “Esercito per la Difesa di Allah”, il cui sceicco, Abdel Latif Mussa, aveva annunciato la nascita di un emirato per implementare la sharia in contrasto col governo di Hamas. Il problema maggiore relativo a questi movimenti, oltre alla loro evidente irrazionalità (che ricorre anche nell’omicidio di Arrigoni,ucciso a sangue freddo benché amico della causa palestinese e voce scomoda per gli israeliani) è stabilire esattamente quanti siano. Si parla di una decina di cellule in tutto, ma è probabile che molte sigle siano di semplice copertura per fare credere che il numero dei militanti sia superiore a quelli reali. Nella maggior parte dei casi queste bande appaiono per rivendicare un’azione (o anche solo per minacciare via web) per poi scomparire nel nulla, un po’ come le inedite “Brigate del profeta Muhammad Bin Muslima” coinvolte nel caso di Arrigoni. Una strategia di depistaggio impiegata anche del terrorismo nostrano durante gli Anni di Piombo. Godono di un risalto mediatico enormemente superiore al loro numero e alle loro capacità anche grazie all’uso spregiudicato di Internet (particolare quantomeno bizzarro per dei salafiti nemici della modernità…). Spesso si presentano in maniera folkloristica e grottesca anche agli occhi dei palestinesi stessi, visto l’uso di vestirsi con abiti tipicamente afgani in una società che invece è araba. Il sedicente “Esercito dell’Islam” del clan Doghmush pare abbia cambiato nome in “Jaljalat” (“Tuono dirompente”), rivendicando un fallito attentato all’ex presidente statunitense Jimmy Carter in visita per incontrare il premier Ismail Haniyeh. Anche in questo caso viene naturale chiedersi a chi sarebbe giovato un atto del genere.

In questa lunga lista di nomi pittoreschi e roboanti figura di tutto: gruppi i cui obiettivi sono minacciare le giornaliste della televisione palestinese che non indossano il velo (“Le Spade della Verità”), l’”Esercito dell’Ummah” (neutralizzato dalla Forza Esecutiva di Hamas senza spargimento di sangue, riuscendo ad arrestarne il responsabile, tale Abu Hafs) e altri su cui gravano sospetti di attacchi terroristici in Egitto (come quello del 24 aprile 2006 nella località turistica di Dahab, addossato alla sedicente “Tawhid wal Jihad” di Gaza, stesso nome del primo movimento di Al Zarqawi in Iraq). Le provocazioni portate avanti da questi individui sono di diverso genere, e vanno dagli attentati dinamitardi ai danni di esercizi pubblici giudicati “immorali” fino a giungere addirittura a un attacco a un campo estivo gestito dall’Unrwa avvenuto la scorsa estate. Sempre il solito “Esercito dell’Islam” fu sospettato dal governo egiziano (ancora presieduto dal fido Mubarak) di essere dietro all’autobomba esplosa a Capodanno davanti a un luogo di culto copto ad Alessandria d’Egitto che ha provocato decine di vittime. Ciò che fa più riflettere è che in seguito alla deposizione di Mubarak per questo attentato sia stato messo sotto accusa l’ex ministro degli Interni Habib Al Adly. Il che fa sorgere tante domande sulle forze che foraggiano la fronda estremista contro Hamas: l’Egitto di Mubarak si era sempre distinto per lo zelo nell’embargo della Striscia, e non aveva mai nascosto la propria ostilità nei confronti del governo di Haniyeh, sia durante i giorni dei bombardamenti di “Piombo Fuso” sia in seguito, arrivando persino a progettare un muro sotterraneo di acciaio per bloccare i traffici dei tunnel.

Gli unici atti contro Israele imputabili a queste formazioni estremiste sono sporadici lanci di razzi (che non hanno mai causato vittime), che hanno l’unico effetto concreto di mettere a rischio ogni volta la tregua imposta da Hamas a tutte le fazioni armate di Gaza, e che forniscono sempre la scusa per risposte sproporzionate da parte dell’esercito israeliano, che considera ogni atto ostile responsabilità di Hamas al di là di chi l’abbia effettivamente compiuto e rivendicato.

Ovviamente in un quadro tanto caotico è difficile stabilire con certezza chi rientri nella categoria degli “utili idioti” e chi sia a tutti gli effetti un soggetto eterodiretto. Resta il dato di fatto inoppugnabile che le azioni di questi gruppi sono perfettamente funzionali alle strumentalizzazioni e alla propaganda mediatica anti-palestinese che dipinge la Striscia come un territorio governato da pericolosi fanatici (fornendo in questo modo una giustificazione morale alla politica israeliana su Gaza) e minano le ragioni e l’unità della Resistenza palestinese agli occhi del mondo, giungendo fino a colpire chi la sostiene attivamente come Vittorio Arrigoni.

Gruppi che, in questi giorni in cui un riavvicinamento tra Hamas e Fatah è tornato possibile, potrebbero tornare utili a chi desidera il caos nel panorama politico palestinese, secondo il mai fuori moda “Divide et Impera”.