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Robinson Crusoe è l’uomo in fuga da se stesso approdato sull’isola della modernità

di Francesco Lamendola - 16/08/2011




Se c’è un personaggio letterario che merita di assurgere a simbolo dell’uomo moderno, quello è Robinson Crusoe, il naufrago che diventa signore dell’isola; l’uomo che approda chissà dove senza compagni e senza mezzi, novello Ulisse tra i Feaci: solo che qui non vi sono Feaci né altri abitanti, l’isola è disabitata e quindi gli offre un piccolo mondo da plasmare e modellare secondo le sue esigenze e i suoi valori - puritani, capitalistici, eurocentrici - e in cui non mancherà, in seguito, la presenza confortante di un compagno/servitore, il “selvaggio” Venerdì, nel quale specchiarsi e gustare il senso della rivincita sul fato ostile.
Da quando apparve, nel 1719, il romanzo di Daniel Defoe, geniale giornalista e filibustiere senza scrupoli, che rubò perfino l’idea del suo capolavoro ad un uomo di mare che aveva conosciuto di persona la storia del vero Robinson, un marinaio scozzese di nome Alexander Selkirk (e che era vissuto in completa solitudine per oltre quattro anni su un’isola non dell’Atlantico, ma del Pacifico, Mas a Tierra nel gruppo Juan Fernandez) e al quale non volle scucire nemmeno qualche spicciolo della fortuna che l’opera gli avrebbe procurato, la sua fantastica cavalcata attraverso la fantasia di milioni di persone, adulti ma più spesso bambini o ragazzi che ne hanno poi conservato un vivido ricordo per tutta la vita, non si è mai arrestata, conquistandosi indiscutibilmente lo status di “classico”.
Eppure, al di là dei pregi letterari dell’opera, invero assai modesti e tali lasciar trasparire ad ogni pagina l’onesto mestiere di un artigiano piuttosto pedante, quello che conta è l’immenso bagaglio di coinvolgimento emotivo che essa innesca in quanti l’accostano, segno del fatto che compendia, sia pure inconsapevolmente, una ricchissima mole di “topoi” delle più disparate provenienze, dal mito alla psicanalisi, dall’avventura al giallo, dall’economia politica all’utopia di ieri, di oggi e di sempre.
C’è, infatti, chi ha scomodato, fra i suoi antenati illustri l’«Utopia» di Tommaso Moro, religiosa e rinascimentale al tempo stesso, e chi, invece, la «Nuova Atlantide» di Francesco Bacone, scientifica e fieramente antropocratica; chi la tradizione greca dei “nostoi” e chi «La Tempesta» di Shakespeare, che par quasi prefigurare, nella coppia Prospero-Calibano, la coppia Robinson-Venerdì, laddove il primo termine di entrambe rappresenta la “civiltà” ed il potere della tecnica (magica nel primo caso, mercantile nell’altro), il secondo la “barbarie” primitiva, in attesa di lumi e di redenzione da parte dell’uomo bianco.
È stato anche scritto  che, se il «Don Chisciotte» è il simbolo fedele dell’anima spagnola, malinconica e sognante, il «Robinson» lo è, a pieno titolo, dell’anima anglosassone, intraprendente e volitiva; e che altri è Robinson Crusoe, se non un tipico “self made man” proiettato sul suggestivo scenario tropicale di un’isola incontaminata, ma che potrebbe essere benissimo un modello positivo per qualunque inglese o americano delle classi medio-alte, con quella sua intraprendenza indomabile, con quella capacità di non scoraggiarsi mai, con quella volontà di piegare le cose a suo uso e consumo, di trasformarle da valore d’uso in valore di scambio (alla fine della sua avventura, diventa un ricco piantatore e quindi un capitalista “arrivato”), il tutto con una “pietas” protestante che lo fa agire sempre come strumento della Provvidenza divina, in perfetta buona coscienza, anche quando i suoi disegni sono molto, troppo umani - come direbbe Nietzsche -, sì che la divina Provvidenza c’entra poco o niente e molto, invece, la sua stupefacente capacità di costruirsi una ideologia del dominio laica e utilitarista, rivestita però di apparenze religiose?
Eppure, a ben guardare, Robinson Crusoe è molto di più di questo.
Egli non è solo il prototipo dell’inglese o dell’americano W. A. S. P. (white, anglo-saxon, protestant) o del capitalista lanciato verso il successo, partendo dal nulla: è l’eterno eroe occidentale che non sa accostarsi alle cose con stupore, amore e rispetto, che non sa ascoltarle, che non vuole capirle, ma al quale preme soltanto di conformarle alla sua volontà, ai suoi bisogni, al suo interesse: duro, egoista, insensibile, anche se talvolta pare intenerirsi - ma su se stesso, mai sull’altro - ed ama rappresentarsi nelle vesti di umile strumento dell’Altissimo.
è Giasone che ruba il Vello d’Oro al re della Colchide dopo averne sedotto, freddamente e deliberatamente, la figlia Medea; è  il protagonista della galileiana «Favola dei suoni», che viviseziona la cicala per capire come si produca il suo frinire e che infine la trafigge a morte, senz’ombra di un pentimento o ameno di un rammarico; è Faust che vende l’anima al Diavolo in persona, pur di ottenere, in cambio, potenza e giovinezza
Scrive Alberto Cavallari nel suo saggio introduttivo «L’isola della modernità» alla edizione del «Robinson Crusoe» da lui tradotta per Feltrinelli (Milano, 1993, pp. 13-14, 17-19:

«…Generalmente tre sono le letture che s’impongono come principali: quelle fatte da Rousseau, da Kant, da Marx. Certamente Rousseau ha contribuito a fare di Robinson il personaggio-chiave del rapporto tra individuo e società moderna: nell’”Emile” dichiara che Robinson è il primo libro su cui deve fondarsi la formazione dell’uomo nuovo del ‘700 perché significa “il più felice trattato di educazione naturale”. Per lui la parabola del naufrago che si salva senza l’aiuto dei suoi simili, col solo conforto della ragione e di una Fede puramente deista, è quasi una voce dell’”Encyclopédie”: mostra un uomo naturalmente buono, che inventa tecniche e arti di sopravvivenza, che si allea a un altro uomo naturalmente buono, il selvaggio Venerdì. Ma Kant va più in là: nelle sue “Congetture sull’origine della storia” del 1786 fa di Robinson un simbolo dell’etica progressista: perché significa l’uomo moderno nostalgico d’inesistenti età dell’oro, d’impossibili ritorni alla vita naturale, però cosciente d’aver messo in moto lui stesso un processo di civilizzazione che gl’impedisce di rientrare nell’antico stato d’innocenza; un uomo consapevole che l’innocenza non può bastargli, che lui stesso non la desidera veramente, e così rispecchia le vere caratteristiche della natura umana e del percorso umano “che va dal peggio al meglio, non dal bene al male”.»Quanto a Marx, che ne scrive nell’”Introduzione alla critica dell’economia politica” e nel “Capitale”, Robinson, il “sobrio Robinson”, ha tutte le caratteristiche del borghese del ‘700. è un uomo che dice di credere (come gli economisti pre-marxisti) alla Provvidenza, alla “mano invisibile”, ai meccanismi naturali del processo produttivo, come se il mondo fosse uguale nelle società primitive e in quelle moderne. Ma in effetti poi mostra nelle società moderne anche l’individuo isolato agisce all’interno di una società nella quale i rapporti sociali s’incrociano con la cosiddetta natura. Infatti  in Robinson isolamento e dipendenza  dalla società si sovrappongono.  Nell’isola deserta egli diventa imprenditore di se stesso: “salva dal naufragio orologio, libro mastro, penna e calamaio, e comincia da buon inglese a tenere la contabilità della vita, persino della Provvidenza”. […]
“Robinson” è anche un grande “romanzo filosofico” antischiavista  che prelude a Rousseau e al “buon selvaggio”.  È un capolavoro della letteratura puritana che traduce in spregiudicati “fumetti” moderni i suoi vari filoni, quello  EDUCATIVO alla Timoty Cruso, quello delle celebri biografie MORALI seicentesche, quello delle biografie SPIRITUALI alla Baxter o alla Keach, quello  METAFISICO-ALLEGORICO alla Bunyan, e così costruisce una delle più alte super-allegorie  del dramma cristiano sviluppando grandi temi simbolici  che porteranno poi a Hawthorne e a Melville: i temi della ribellione-punizione-espiazione. Ma l’allegoria religiosa può trasformarsi con altre letture  in allegoria laica. Talvolta ancora metafisica, secondo Camus, che dedica a Defoe  la sua “Peste”, perché l’Isola è il Mondo stesso. Talvolta è un’immensa antologia di allegorie puramente storiche. Per lo stesso Defoe è “semplicemente storia”. Secondo Joyce, è un’allegoria storico-ideologica della britannica conquista del mondo che nel libro esprime tutte le sue contraddizioni: schiavismo e antischiavismo, sopravvivenza e perdizione, civiltà e regresso. Secondo Tournier, è “un’allegoria dell’inconscio”, che invece si ribella alla storia, coi simboli più diversi, il mare-avventura, la caverna-madre, l’isola-Inferno, l’isola-Eden. Si può persino giungere a un’immagine audace.  L’isola di Robinson è un’anticipazione della geopolitica futura, del mondo stesso inteso come “world Island” alla Mackinder; forse addirittura dell’”universo-isola” della cosmologia più recente.
Non si può chiudere però questo elenco senza altre fondamentali letture.  “Robinson” è pure il più grande “giallo” del mondo, come dice Poe; un poema della paura che procede per fughe e nascondigli, per alti e bassi, per diastole e sistole, per naufragi e salvataggi, talvolta perfino provvisto di un “côté noir”: perché l’uomo in fuga, che si crede salvato alla Provvidenza, è comunque costretto alla lotta, forzato a riconoscere che talvolta la sua salvezza/provvidenza  sta invece nella guerra, nella violenza,  nell’omicidio, benché l’anima puritana lo spinga a Dio e alla fraternità. Pertanto, Robinson è pure un prepotente racconto moderno giallo/nero dietro al quale c’è la speranza ma pure il suo contrario: diciamo molto Montesquieu, con la sua filosofia della paura come “prima passione dell’uomo”; diciamo qualche goccia di Hobbes e della sua filosofia della sopravvivenza che giustifica il delitto. Ma “Robinson” è soprattutto metafora dell’”uomo economico” moderno e dei suoi drammi, della dialettica materialismo/religione che lo tormenta. Anzi. Di un uomo nuovo “liberal-liberista” che s’affaccia alla storia  tra Locke e Adam Smith.
Quest’”uomo economico” ha tre volti. Da un lato significa l’esaltazione del protestante-capitalista alla Max Weber: un cristiano che rischia, intraprende,  si afferma come individuo perché crede liberamente a Dio senza “papismi” e senza chiese, ma pure un cristiano che mentre trionfa sprofonda nella metafisica puritana, legge gli avvenimenti come provvidenza, poi si scontra con la “provvidenza negativa”, si tormenta con gli esami di coscienza, le introspezioni, i dilemmi esistenziali della Riforma. Da un altro lato, significa l’uomo del mercantilismo evoluto, alla vigilia della rivoluzione industriale, dilaniato tra due dimensioni: il Nuovo Mondo e il Vecchio, la conquista planetaria e la vita elementare, il rischio dell’avventura per l’ideale della “vita media2, la democrazia e la restaurazione: proprio come Robinson attratto dal viaggio e dal mare, in perpetua fuga rispetto a suo padre “uomo medio”; poi naufrago che sogna il benessere medio e se lo fabbrica con le “tecniche del progresso”,  coltivando nell’isola “l’avere secondo il bisogno”, la “democrazia religiosa”, la fraternità con Venerdì; poi colonialista e colono del’isola, felice di sentirsi re, capo di un’organizzazione sociale minima, simbolo di una rivoluzione democratica che può sempre farsi conservazione e reazione. Infine c’è un terzo lato. Robinson significa “l’uomo economico” che oscilla tra due tentazioni dietro le quali ci sono Locke e Newton in lotta con la stessa Riforma. Religione della tecnica contro religione della provvidenza, religione del progresso “obiettivo” e “scientifico”  contro la fatalità del destino, religione dell’ingegno e del coraggio contro la coscienza del limite umano e del naufragio continuo, religione del “progetto” in lotta con la catastrofe…»

Robinson Crusoe, dunque, è il naufrago della società pre-moderna che approda sull’isola della modernità, sulla Nuova Atlantide di Bacone, fermamente intenzionato ad imporre la propria norma alla natura, dimenticandosi di essere una parte di lei; e che, dimentico della terribile lezione di quell’altra Atlantide, quella platonica - distrutta da un cataclisma perché i suoi abitanti, resi folli dall’orgoglio della tecnica, si erano fatti sacerdoti della magia nera -, reitera testardamente il medesimo errore dei suoi predecessori e si lascia travolgere da un bisogno compulsivo di controllare, di manipolare e di dominare ogni cosa.
Anche se ha sempre la Bibbia in una mano (ma il fucile nell’Altra: oh, per legittima difesa, si capisce!), in realtà non conosce altro Dio che se stesso e, se pure riserva un omaggio formale a quell’Altro, arrivando al punto di credersi sincero allorché Lo prega nei momenti di maggiore solitudine e scoraggiamento, il suo è uno spirito essenzialmente laico, pragmatico, utilitarista, implacabilmente calcolatore.
Robinson Crusoe è, quindi, un infelice che ignora le cause della propria infelicità; anzi, che ignora perfino la propria infelicità, perché la sua ignoranza di se stesso è talmente abissale, da spingerlo a nasconderla sotto il tappeto della sua coscienza; e che rinnova incessantemente la sua guerra contro le cose, per cercare sollievo ad un male che non sa neppure riconoscere come tale.
Perché Robinson Crusoe, ahimé, non è altri da noi, ma è appunto la parte oscura di noi stessi…