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Democrazia ed Euro

di Francesco Mario Agnoli - 03/11/2011

Che l'Unione  Europea soffra fin dalla nascita di un deficit di democrazia  è opinione comune, condivisa anche da molti  convinti e autorevoli europeisti.  Alcuni di loro nel corso del tempo  hanno anche avanzato proposte (in genere un non troppo convincente aumento dei poteri del Parlamento europeo) per porvi rimedio.
     Il guaio è che con l'introduzione della moneta unica  e la crisi che l'ha colpita   il deficit si è allargato fino a ridurre al minimo le tracce di democrazia reale non solo  nell'Unione, ma nei paesi del gruppo  euro.
     Forse proprio perché  sono stati abbastanza saggi da tenersi ben stretta la loro sterlina, gli inglesi,  coinvolti anch'essi in una crisi economica che ha dimensioni mondiali,  ma non dagli aggravamenti  e dagli effetti collaterali  comportati dalla moneta unica, godono di una maggiore indipendenza e  acutezza di giudizio. E' così il britannico Telegraph può  qualificare l'ultima settimana di ottobre come  quella “in cui la democrazia è morta in Europa»  nell'intitolazione di un articolo nel quale si legge:  ”La ‘stabilità dell’unione’ trionfalmente esposta a Bruxelles avrà il potere di approvare o disapprovare i bilanci di previsione degli Stati dell’euro  prima che essi siano sottoposti ai parlamenti eletti da questi Paesi». Il che significa che «i parlamenti che hanno il mandato diretto dalle loro popolazioni, e rispondono ad esse, non controlleranno le più essenziali funzioni di governo: le decisioni di tassare e spendere (...). Ogni potere effettivo sulla politica fiscale sarà sottratto dalle mani dei capi nazionali. E se, in quanto elettore, non puoi influenzare le politiche di tassazione e di spesa, per cosa precisamente voti?”.
    A dare conferma hanno prontamente provveduto i leader  dei vari governi europei, capeggiati dal presidente francese Sarkozy, democratico libico, che hanno espresso  rabbia e indignazione (proprio così “indignazione”) per la decisione del presidente ellenico Papandreu di sottoporre a referendum popolare il piano della Ue per il cosiddetto salvataggio della Grecia, in modo che i  greci possano esprimere la loro opinione sugli immani sacrifici pretesi dal  potere finanziario europeo.
     Di fronte alle violente critiche dei colleghi il socialista Papandreu ha replicato che “Il referendum fornirà un mandato chiaro, ma anche un messaggio chiaro all'interno e all'esterno della Grecia”, perché si deve “fare in modo che le cose siano chiare da tutti i punti di vista, e io dirò al G20 che si dovranno finalmente adottare  politiche che garantiscano che la democrazia sia mantenuta al di sopra degli appetiti dei mercati".
     Ma sono appunto queste politiche a risultare indigeste all'Ue e ai poteri finanziari.
    Se, come scrive sempre sul Telegraph  Evans Pritchard, “La Grecia è spogliata di ogni finzione di sovranità e ridotta di nuovo a un sangiaccato” (come ai tempi del dominio ottomano) e se   il leader socialista portoghese Carvalho da Silva  definisce  il  suo paese in  “stato di occupazione”, la  posizione dell'Italia non è molto migliore. Se non addirittura  peggiore. Non vi  si avvistano, difatti, né un Papandreu né  un Da  Silva.  Le smanie indipendentiste del Berlusca sono state (anche per sua colpa)  vanificate  e messe sotto controllo, e l'opposizione di centro-sinistra legittima  le proprie ambizioni di governo, proponendosi espressamente all'Ue e ai mercati come la più pronta e la più idonea alla rigida applicazione  nella penisola dei loro ukase.
                                               
dalla
Voce di Romagna