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Dopo l’avvento dell’«homo oeconomicus» saremo ancora capaci di ritrovare noi stessi?

di Francesco Lamendola - 24/11/2011



In un saggio storico-filosofico di forte attualità, Serge Latouche mostrava come l’economia, la “scienza sinistra”, abbia una data di nascita abbastanza precisa: fra il XVII e il XVIII secolo; e come essa fu dovuta essenzialmente a tre fattori che, da allora, non hanno smesso di ossessionare e di attanagliare, tanto sul piano materiale quanto su quello psicologico e morale, gli esseri umani: l’immaginario economico, l’utilitarismo e il mercato.
A partire da quella svolta, quasi contemporanea a quella della cosiddetta Rivoluzione scientifica, la razionalità calcolante, interessata unicamente al profitto e all’accumulazione del capitale, ha fatto sì che l’uomo occidentale moderno non sia stato più lo stesso: una profonda, radicale mutazione antropologica ne ha fatto essenzialmente una macchina per produrre sempre più merci e per accumulare sempre più denaro.
È necessario ricordare che una delle principali funzioni della corporazione medievale era quella di impedire la concorrenza fra le botteghe della stessa arte, di vietare la pubblicità, di mettere al bando i procedimenti produttivi segreti, di vigilare sulle frodi e le alterazioni delle merci: e tutti questo perché l’uomo medievale era ben consapevole che l’economia, lasciata a se stessa, cioè abbandonata alla smania di guadagno fine a se stesso, avrebbe finito fatalmente per ritorcersi contro gli uomini e contro la società nel suo insieme?
Ma l’uomo moderno, l’uomo cartesiano che pretende di misurare tutto e di spiegare tutto con la sola ragione matematica; l’uomo faustiano che vende l’anima al Diavolo in cambio di giovinezza, potenza e ricchezza, ha smarrito quella saggezza; ubriacato dai suoi successi tecnologici, dal benessere materiale realizzato (di cui vede, peraltro, solo un aspetto, quello che conferma la sua ingenua presunzione e non quello che mostra i limiti del suo modello di sviluppo), costruisce le sue torri di Babele e lancia la sfida al Cielo, facendosi Dio di se stesso.
Di fatto, egli si è ridotto a servire, come uno schiavo, le sue più passe passioni: la brama e il timore: la brama di accumulare sempre più ricchezze e il timore della povertà, della malattia e della morte; per cui non ha più tempo da dedicare a se stesso, alla propria anima, alla conoscenza di se medesimo, ma è preso incessantemente nel circolo vizioso dell’agire compulsivo e gettato di qua e di là, come la paglia al vento, incapace di scegliere la giusta direzione e ormai prigioniero di una logica strumentale e calcolante che egli non è più in grado di controllare, ma che lo trascina irresistibilmente verso lidi sconosciuti, a velocità folle.
E così l’uomo si è trasformato, per dirla con Marcuse, in una creatura ad una sola dimensione: l’”homo oeconomicus” ha soppiantato ogni altro aspetto, ogni altra dimensione della propria natura: da quella etica a quella ludica, da quella sociale a quella creativa; chiuso nella sua immanenza, nel breve orizzonte e nel corto respiro della produzione e del consumo, ha smarrito il senso dell’infinito e ha cancellato in se stesso la nostalgia della spiritualità, della trascendenza.
Ora, la domanda che dobbiamo porci onestamente è la seguente: questa nuova creatura uscita dalla modernità, questa appendice del processo tecnico-industriale, ignara e mutilata della sua verità più intima, delle istanze più profonde che, sole, possono dare un significato al suo esserci, al suo lottare, al suo soffrire e al suo stesso morire; questo strano soggetto senza più radici, senza più ombra, che ha obliato la propria essenza e tuttavia delira di onnipotenza e vaneggia di sconfiggere, uno dopo l’altro, tutti i suoi nemici, ivi compresa la morte, è ancora recuperabile alla propria umanità, è ancora riconducibile alla propri verità perduta? O è degenerato irremissibilmente, senza speranza, senza alcuna possibilità di redenzione?
Nell’essere umano vi sono delle riserve pressoché inesauribili di bene e di male, di generosità e di egoismo, di luce ed ombra; dipende, poi, dall’ambiente sociale in cui vive, se egli viene incoraggiato a tirar fuori la propria parte migliore, o la peggiore.
La società consumista, esasperatamente competitiva e sfrenatamente utilitarista, sempre impegnata a manipolare uomini e cose, a trasformare l’ambiente, a sovvertire gli equilibri ecologici, non favorisce certo l’emergere degli aspetti positivi dell’uomo: la bontà, l’altruismo, la solidarietà, la disponibilità, la tolleranza, la capacità di comprendere l’altro e di perdonarlo; nonché quella, non meno importante, di saper perdonare se stesso.
E proprio questo è il punto: si può immaginare che una società siffatta, una società dominata dagli idoli spietati del potere e di un progresso senz’anima, né senso del limite («knowledge is power», asseriva Francis Bacon: «sapere è potere»), non finisca per soffocare ed uccidere la nostra parte spirituale, la nostra essenza luminosa, la nostra vocazione all’assoluto, per lasciare di noi solo l’involucro visibile, simile ad un guscio vuoto ed inerte?
Siamo ancora delle creature sensibili, con un cuore di carne, o siamo divenuti dei morti viventi, delle macchine da lavoro con un cuore di pietra, senza più occhi per la bellezza, senza più un palpito per tutto ciò che è suscettibile di innalzarci, di nobilitarci, di purificarci?
Il futuro che possiamo immaginare per noi stessi e per il mondo dipende, evidentemente, dalla risposta che siamo propensi a dare a tali interrogativi.
Se pensiamo che non ci sia più niente da fare; se pensiamo che la mutazione antropologica indotta dalla modernità sia irreversibile e che l’uomo sia ridotto per sempre a una creatura deforme, malata e patologicamente infelice e distruttiva, allora dobbiamo avere anche la coerenza di lasciar perdere tutte le religioni, tutte le ideologie politiche, tutti i programmi sociali, le proposte, le riforme, per non parlare della cultura e dell’intelligenza: tutte cose ormai prive di senso, anzi destinate ad accompagnare la marcia funebre di una umanità degenerata, che corre impaziente verso la propria distruzione finale.
Anche l’etica e il diritto, in una simile prospettiva, vengono a perdere qualunque significato: che importano il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, il lecito e l’illecito, se non siamo più responsabili, alla lettera, di quel che facciamo, di quel che diciamo, e perfino di quello che pensiamo, che sentiamo, immaginiamo, temiamo e desideriamo?
Che differenza c’è fra una morale e una religione che si sforzano di additarci la via del bene, magari a prezzo di duri sacrifici, e una setta delirante di pazzoidi che aspettano la venuta dei dischi volanti e si suicidano in massa, per essere poi trasportati in un’altra dimensione?
Che importa predicare la pace oppure la guerra; maledire oppure benedire; amare oppure odiare; perdonare oppure inseguire ferocemente la vendetta?
E a che vale coltivare la mente, l’anima, elevare i pensieri e i sentimenti, quando è esattamente la stessa cosa rotolarsi nel male, adorare il Diavolo, seminare intorno a sé dubbio, angoscia, dolore e disperazione?
A chi importa se noi ci sforziamo di restare fedeli a noi stessi, alla nostra parte migliore, alla nostra vocazione, oppure se ci buttiamo via con la prima sirena che chiama, se ci prostituiamo, se ci avviliamo con le nostre stesse mani, se disprezziamo e umiliamo la nostra intelligenza, se mortifichiamo la nostra parte divina?
E perché dovremmo preoccuparci di coloro che verranno dopo di noi; perché dovremmo continuare a mettere al mondo dei figli, prenderci cura di loro, assisterli, educarli; perché dovremmo sforzarci di lasciare loro in eredità una terra ancora abitabile?
Perché non dovremmo limitarci a godere del presente in ogni maniera possibile, senza scrupoli né riguardi per alcuno, senza curarci delle ferite che infliggiamo agli altri, del turbamento che causiamo nei loro cuori?
Se la risposta alle domande che ci eravamo fatti è negativa, allora tutto cade, tutto frana inesorabilmente: il senso del dovere, il valore dell’onestà, il rispetto dovuto agli altri ed a noi stessi, l’amicizia, l’amore; e la società diventerebbe una foresta di belve in cui ogni violenza è lecita, ogni crudeltà è consentita.
Dobbiamo essere leali con noi stessi, guardarci bene allo specchio e poi rispondere lealmente: è questo che vogliamo; è proprio questo?
Se, viceversa, non siamo disposti a lasciare che le dighe crollino una dopo l’altra; che la nostra parte ferina trionfi ed imponga una lotta senza quartiere, una sorta di morale degli artigli e delle zanne insanguinati («homo homini lupus», diceva Hobbes; e ancora: «bellum omnium contra omnes»), allora dobbiamo correre ai ripari e rimboccarci le maniche, finché ancora siamo in tempo a scongiurare la dissoluzione morale e sociale.
Ne abbiamo ascoltati anche troppi, negli ultimi decenni e negli ultimi secoli, di predicatori del nulla, di banditori del pessimismo radicale, di lugubri apostoli del nichilismo più sfrenato: hanno proclamato la morte della bellezza, della bontà, delle verità, in nome di un relativismo tanto cinico quanto cervellotico.
Siamo stati fin troppo accondiscendenti, fin troppo arrendevoli, davanti a questi demoni della distruzione, a questi becchini della nostra umanità; ci siamo lasciati lusingare dall’odore di putrefazione che veniva dalle loro parole e abbiamo battuto le mani, pazzi o in malafede, ai loro sproloqui, ai loro vaneggiamenti, al loro necrofilo “cupio dissolvi”.
È tempo di riscuotersi, di tornare a respirare l’aria pura; è tempo di tornare a vivere, a pensieri di vita e non di morte, ad atti di fede e non più di compiaciuta disperazione.
Lo dobbiamo a noi stessi; a coloro che ci hanno preceduto, e dei quali dobbiamo custodire il ricordo;  e a coloro che verranno dopo di noi, e  ai quali dobbiamo preparare la strada.
Non si vive solamente per se stessi: si vive per ogni altra creatura vivente; si vive per il mondo intero, che lo si sappia oppure no.
Si vive per il passato e per il futuro, oltre che per il presente; si vive per chi ci ha lasciato e per chi verrà dopo di noi; si vive per gli uomini, per gli animali, per le piante, per l’aria e il fuoco, per il mare e la terra, per il cielo e le stelle.
Si vive per l’Essere, dal quale veniamo ed al quale ritorniamo.
Si vive anche quando si soffre, si maledice, si rimpiange d’essere nati; si vive anche quando si odia, si impreca, si bestemmia; si vive non solo quando si spera, ma anche quando ci si raccoglie nel proprio dolore e nella propria solitudine, con i gomiti sulle ginocchia e con la fronte nelle mani, come raccolti in un’urna di pianto.
Si vive anche quando si muore, perché tutto è vita: tutto, tutto, tutto.
E dunque si vive per la vita e non per la morte; per amare e non per odiare; per levare gli occhi al Cielo e non per rotolarsi ne fango.
Si vive anche quando non si vorrebbe più vivere, perché il gran fiume della vita ci porta con sé, sicuro, maestoso, verso il mare sconfinato della pace.
Questa vita che abbiamo, non ce la siamo data da soli; e non ce l’hanno data neppure i nostri genitori: essi non hanno fatto altro che dire “sì” alla vita; che rispondere affermativamente alla chiamata dell’Essere.
Tutto è vita e tutto è grazia; tutto è luce, per chi ha gli occhi bene aperti e sa riconoscere lo spettacolo del mondo per ciò che realmente è.
E dunque non lasciamoci sgomentare dalla bruttezza di un mondo dominato dalle inesorabili leggi economiche: è una fase, nient’altro che una fase.
Potrà durre ancora dieci anni, o forse cento o magari mille: ma passerà.
Noi, invece, rimarremo, o comunque rimarrà la nostra essenza, la nostra parte perenne e luminosa, che non teme le ingiurie del tempo, perché non appartiene al tempo.
Nel frattempo, sforziamoci di restare vigili e di non permettere che le sirene della dissoluzione ci trovino disposti ad ascoltarle compiacenti.
Se anche tutti gli altri si abbandonassero a questo triste sonno dell’anima che oggi dilaga come una epidemia, noi dovremo restare svegli,  simili alle sentinelle che vigilano dall’alto delle torri.
Qualcuno, più grande e più saggio di noi, ci sosterrà, quando vacilleremo per la stanchezza.