Per i saggi la vita è una festa
di Alberto Giovanni Biuso - 15/07/2025
Fonte: GRECE Italia
1. φρόνησις e σοφία
Nel pensare e nel vivere dei Greci σοφία e φρόνησις costituiscono due parole fondamentali.
La prima si riferisce alla comprensione più oggettiva e distaccata del mondo: la ‘sapienza’. La seconda indica il miglior modo di esistere e quindi di vivere dentro il mondo: la ‘saggezza’. E tuttavia una delle peculiarità della filosofia degli antichi Elleni è la coincidenza tra queste due parole, la loro mescolanza, la loro sovrapposizione, il trascorrere l’una nell’altra. È tale plesso esistenziale e scientifico che indico con l’espressione ‘saggezza teoretica’.
La filosofia è infatti anche un modo di vivere all’interno di una comunità, nel dialogo, nel confronto, nel sentirsi esistere in una relazione continua con altri umani animati dalla stessa forma, passione, interesse, intenzione, vita. Non è necessario condividere sempre gli spazi ma sapere che quello che stiamo in questo momento vivendo, pensando, scrivendo, è condiviso dai desideri e dalla lucidità di altri filosofi. Lucidi come noi, strani come noi, indifferenti come noi. Un’indifferenza che significa almeno tre cose:
-consapevolezza dei limiti umani, della nostra infima misura dentro lo splendore e l’immensità dell’intero;
-disincanto nei confronti della condizione di dolore e di morte non soltanto dell’umano ma di tutto ciò che è vivo;
-metamorfosi di questo consapevole disincanto in azione, in opera, in trasformazione della vita propria e delle relazioni, dei legami, della politica.
Questa conoscenza e tale azione si fondano su numerosi presupposti teoretici. Provo a indicare quali sono per i Greci i più significativi tra di essi.
Il primo è l’essere ogni ente una parte dell’intero, un’espressione della potenza della materia generatrice, che sempre sorge da se stessa, dalla propria potenza, dall’energia universale, la Φύσις.
Poi, il coincidere di tale energia e potenza con ciò che tutte le culture chiamano il sacro, il quale non abita in qualche luogo specifico, in un tempo altro, in una realtà lontana ma accade qui e ora, in ogni ente, evento e processo. La realtà stessa è sacra, tutta, come testimonia con semplicità l’aneddoto del filosofo che se ne sta tranquillo davanti al focolare in cucina, rispondendo ai visitatori stupiti che ‘anche qui vi sono dèi’.
Ciò che chiamiamo male è l’ignoranza di questa energia pervasiva e sacra, nella quale e con la quale il mondo in ogni istante esiste; è anche per questo che l’etica è un’espressione dell’ermeneutica ed è per i Greci in ogni caso subordinata all’ontologia.
Ciò che chiamiamo bene è invece l’immersione consapevole in questa dinamica, qui e ora; non quindi l’aspirazione ad altre vite o l’inquietudine senza pace dei progetti più fantasiosi e irraggiungibili ma l’esistere nel presente. Non naturalmente il semplice presente fisico e matematico, infinitamente divisibile e anche per questo di fatto insussistente, ma il presente come percezione della durata e suo significato. Un presente semantico prima di tutto.
Un altro dei presupposti teoretici fondamentali è la necessaria fiducia che tutto questo si possa comunicare, trasmettere, insegnare e in tal modo contribuire a formare altri umani, a plasmare altre vite a partire da ciò che il tempo sacro ha donato alla nostra esistenza, tale è la pratica della παιδεία.
Ne segue la necessità che tale pratica educativa sia sempre intramata e sostenuta dall’approccio teoretico e da prospettive universali che si sforzino di andare oltre la limitatezza dell’orizzonte storico e prassico di ogni individuo e di ciascuna comunità: «Senza questa riflessione, la vita filosofica rischia di cadere nella banalità o nell’insipienza, nei buoni sentimenti o nell’aberrazione. […] Vivere da filosofi significhi precisamente anche riflettere, ragionare, concettualizzare, in modo rigoroso e tecnico, ‘pensare in modo autonomo’ come diceva Kant. La vita filosofica è una ricerca che non si arresta mai1.
Ne segue anche l’accettazione della natura asintotica della vita in generale e dell’esistere filosofico in particolare, vita ed esistere per loro natura sempre aperti e mai definitivi. Vivere significa precisamente questo incompiuto che in ogni suo momento è sempre realizzato.
Un ulteriore presupposto è il convergere di tali pratiche asintotiche e teoretiche verso l’enigma del tempo, il vero e proprio oceano il cui infinito movimento è descritto allo stesso modo in un testo fondante quale la Teogonia (verso 38) e in una sentenza epicurea (la n. 10) attribuita a Metrodoro: «Ricorda che nato mortale, con una vita limitata, tu sei assurto, grazie alla scienza della natura, fino all’infinito dello spazio e del tempo e hai visto ciò che è, ciò che sarà, ciò che fu»2.
La filosofia è quindi conoscenza e pratica del tempo infinito dentro il tempo limitato che siamo, è la consapevolezza che una parte della materia universale ha di esistere per un arco, una parabola, un percorso sempre limitati ma non per questo meno densi. Filosofia è diventare l’infinito che si è.
La sapienza e la saggezza dei paganesimi mediterranei sono confermate anche dal fatto che esse tendevano a guardare e a comprendere il mondo da tale prospettiva, dal ‘punto di vista di Sirio’ – la stella più luminosa che i nostri occhi di terrestri possano vedere –, vale a dire a leggere il mondo come lo leggerebbe una stella o una roccia, con la pacata energia di chi è in se stesso e nel proprio diventare μεταβολή, vale a dire parte di una dinamica e di una struttura che esistono e accadono in una metamorfosi costante, che comprende ciò che alla materia che pensa appare come condensazione, nascita, dissoluzione, scomparsa e il cui portato è il dolore. Della stella Sirio, luminosissima nel cielo dell’inverno, Giorgio De Santillana e Hertha Von Dechend dicono che «paragonata con la durevolezza di Sirio, la Stella polare è un personaggio dalla vita piuttosto breve»3.
Come i corpi hanno bisogno d’aria per vivere, la filosofia richiede la libertà come respiro. Questa è la principale ragione per la quale la filosofia nacque in Grecia e non altrove. Nell’Accademia di Platone vigeva una integrale libertà di pensiero, tanto che i suoi allievi e anche gli immediati successori alla guida della scuola espressero posizioni anche assai lontane dal Maestro. Il più famoso tra questi allievi è Aristotele. L’Accademia era infatti un luogo di libera discussione, dove non vigevano ortodossie.
Gli ultimi filosofi greci, espulsi da Atene dal cristiano Giustiniano, trovarono nell’Oriente persiano, tra i nemici persiani, il luogo estremo nel quale esercitare ancora tutto questo. Nel 529 infatti Giustiniano chiuse l’Accademia platonica e costrinse i filosofi Damascio, Prisciano, Simplicio a lasciare la città: «Le abitazioni venivano perquisite alla ricerca di libri e di oggetti ritenuti inaccettabili. Nel caso fossero trovati, sarebbero stati rimossi e bruciati in trionfali falò che si tenevano nelle piazze delle città Le discussioni pubbliche sulle questioni religiose erano state etichettate come ‘vergognose insolenze’ e vietate per legge. Secondo la legge, chiunque avesse sacrificato agli antichi dèi poteva essere giustiziato»4.
In questa sistole e diastole di esistenza e teoresi, di limite e di infinito, abitano il dolore e la gioia dell’essere filosofi.
2. Stoicismo
Grande è dunque il patrimonio di pensiero e di bellezza che con il tramonto della grecità e della romanità abbiamo perduto. Come ampiamente documentano Giancarlo Rinaldi, Catherine Nixey, Marco Zambon e altri storici, migliaia di testi della cultura greca e romana sono andati perduti5. Una perdita che arriva sino a novanta testi su cento.
Parte di tale patrimonio cancellato è l’insieme di libri e di opere degli Stoici e degli Epicurei. Se dello Stoicismo romano possiamo leggere le opere integrali di Seneca, Epitteto, Marco Aurelio e altri, di Zenone di Cizio, Cleante di Asso, Crisippo di Soli e dei loro successori possediamo soltanto frammenti, citati da fonti indirette e per lo più ostili, vale a dire Scettici, Neoplatonici e Cristiani. Già Simplicio nel IV secolo scriveva che «gli Stoici hanno trattato a lungo di questi temi, però ai nostri tempi la loro dottrina e gran parte dei loro scritti sono andate perdute»6.
Nonostante la parzialità ermeneutica e la frammentarietà di tali fonti, lo Stoicismo greco emerge come una teoresi complessa, molteplice al suo interno, e per molti versi emblematica dello spirito del mondo antico.
Gli Stoici dividono la filosofia in tre grandi partizioni.
La prima è la logica/dialettica che indaga le regole del linguaggio e i modi dell’argomentare. Comprendere il linguaggio significa distinguere la voce come semplice emissione di suoni dalla parola come suono intriso di un significato. Il suono è il significante, il concetto è il significato, l’ente è ciò al quale entrambi – significato e significante – si riferiscono, che definiscono, che comprendono.
Se la logica riguarda il modo in cui gli enti vengono denominati, la fisica indaga il modo in cui gli enti sono. Essa coniuga microcosmo umano e macrocosmo universale. Dalla loro unione deriva Ἀνάγκη, la Necessità che negli eventi umani diventa destino/εἱμαρμένη, inteso come l’infinita concatenazione di cause e circostanze che produce il presente, ciò che accade, gli eventi.
La connessione tra gli eventi è stabilita da sempre, si ripete di continuo, è invincibile. Essa è l’εἱμαρμένη come legge/Λόγος del cosmo, la quale assume anche i nomi mitologici delle Moire – Cloto, Lachesi e Atropo – e delle potenze antiche di Adrastea, Ananke e Prepomene. Quest’ultima denominazione fa riferimento a πέρας, al limite entro il quale ogni ente ed evento si mantiene, anche gli enti ed eventi umani. Per questo, come sintetizza Seneca nella Epist. 107,10, «Ducunt volentem fata, nolentem trahunt; I fati conducono chi <li> vuole, trascinano chi non <li> vuole» ([CA]527, pp. 232-233). Crisippo e Zenone argomentano infatti «che tutto avviene secondo il fato ricorrendo a questo esempio. Se si lega un cane ad un carro, se il cane vuole seguirlo, ad un tempo segue ed è trascinato, compiendo così un atto di autonoma libertà e pure conforme a necessità. Se però si rifiuta di seguirlo, è trascinato e basta. Lo stesso vale per gli uomini: quand’anche non lo volessero seguire andrebbero comunque là dov’è il loro destino» ([B.f]975, p. 845).
L’etica focalizza dunque i risultati di tali indagini sui comportamenti umani individuali e collettivi. Nonostante uno sfondo spesso antropocentrico, infatti, il pensiero greco in generale e quello stoico in particolare non dimenticano mai che le vicende umane non sono separate da quelle dell’intero nel quale si inscrivono e che sempre le trascende. Nessuna forma di soggettivismo è possibile e neppure pensabile in queste filosofie.
Il concetto gnoseologico fondamentale di «rappresentazione catalettica» indica infatti per gli Stoici la piena corrispondenza tra la percezione/interpretazione umana degli enti e la loro reale esistenza e conformazione. Il realismo ontologico è l’ovvio fondamento di ogni prospettiva gnoseologica ed epistemologica: «La rappresentazione catalettica è quella che proviene da ciò che ha reale esistenza, e che è risultato dell’impronta e dell’impressione di ciò che è veramente; e d’altra parte non avrebbe i caratteri che ha se provenisse da qualcosa che non c’è» (Crisippo, [A]59[3]; p. 33); «Per rappresentazione si intende quella che viene dalla realtà ed è conforme alla realtà per il fatto che ne è un sigillo, un’impronta e un’impressione: come tale non potrebbe derivare da una cosa che non esiste» (Crisippo, [B.l]60, p. 325). La rappresentazione acatalettica è invece quella che non proviene dalla realtà ma è frutto soltanto dei pensamenti e delle fantasie della persona umana. Tra le due forme di rappresentazione si pone l’ampio spazio della razionalità umana, per la quale – come molto tempo dopo dirà anche Alexius Meinong – ci sono delle cose che non esistono, per la quale dunque gli enti possibili e indagabili non coincidono soltanto con gli enti che occupano un luogo nello spazio, «et haec autem, quae non sunt, rerum natura complecitur, quae animo succurrunt; e in effetti la realtà comprende anche enti che non sono esistenti, e che però sono oggetti di pensiero» (Seneca [Ep. 58, 15], [B.f]333, pp. 510-511).
Tale concezione che noi chiamiamo gnoseologica si inscrive all’interno di un deciso e chiaro materialismo metafisico, per il quale il cosmo si compone di due principi, uno passivo, la ὕλη/materia, e uno attivo il λόγος/ragione. La materia è eterna, costante, uniforme nello spazio e nel tempo; a essere ‘corruttibili’ e a mutare incessantemente sono gli enti particolari, non la materia in quanto tale. E questo perché la materia/logos coincide pienamente con il divino. La formula spinoziana di Deus sive Natura è infatti di impronta stoica. Dio è la razionalità immanente nel cosmo, è σπερματικός λόγος, la ragione seminale dalla quale incessantemente si genera ogni ente, evento e processo; Dio «non è altro che l’intero cosmo con tutte le sue parti. E affermano che questo è uno solo, finito, vivente, eterno e divino» ([B.f]528, p. 615).
Il cosmo perfetto si compone di vuoto, luogo e spazio. Vuoto è l’assenza di corpi, luogo è la struttura coestensiva ai corpi, spazio è ciò che rende possibili le strutture dei corpi, come la materia delimitata dalle assi in una botte di vino. Detto in modo più ampio e articolato, «gli Stoici sostengono che il vuoto (κενόν) è ciò che può essere occupato da un essere, ma che attualmente non lo è; oppure dicono che è uno spazio privo di corpo o lasciato libero da un corpo. Il luogo (τόπον), invece, è ciò che è occupato da un corpo e che occupa lo stesso spazio di quello che lo occupa. Ora, per loro ‘un essere’ equivale ad ‘un corpo’, come risulta con certezza dal fatto che un termine sostituisce l’altro. Definiscono la spazialità (χώραν) come uno spazio che in parte è occupato da un corpo, in parte no» ([B.f]505[1], p. 603).
Questa struttura materica è intessuta di tempo, il quale genera, fa esistere e dissolve ogni ente ma che nella sua struttura è eterno, «è αιῶνα, che secondo Crisippo vale come άεί ὄν», vale a dire come ‘l’ente che è sempre’ ([B.l]163, p. 371). La potenza della materiatempo pulsa della sistole e diastole la quale fa sì che dopo un certo intervallo di eoni tutto conflagri e si distrugga, per poi tornare esattamente nelle stesse strutture, in un vero e proprio eterno ritorno di tutte le cose: «Torneranno ancora Socrate e Platone e ognuno degli uomini: avranno gli stessi amici e concittadini, le stesse convinzioni, le stesse vicende e impegni. Ogni città, villaggio e campo assumerà la medesima configurazione di prima» (Zenone, [A]109[2], p. 61).
La dinamica infinita della materiatempo descrive la perfezione del cosmo, il quale «<gode di una eterna gioia senza traccia di tristezza> perché è vivo, è razionale, è insomma un vivente dotato di virtù e filosofo per natura, per questo non conosce paura e tristezza ed è pieno di gioia» ([B.f]635, p.661).
Se vuole cogliere qualche frammento di tale gioia e perfezione, l’umano deve cercare di implementare quanto più possibile le caratteristiche di oggettività, distanza e impassibilità della materia tutta. Deve dunque comprendere e dominare le passioni. La miriade di sentimenti e impulsi umani viene ricondotta dagli Stoici a quattro tipologie: dolore, paura, desiderio e piacere. «Desiderio e paura sono forme di anticipazioni: l’uno in relazione a qualcosa che sembra un bene e l’altra in relazione a qualcosa che sembra un male. Ci sono poi piacere e dolore: l’uno si ha quando realizziamo un nostro desiderio o sfuggiamo a qualcosa che temevamo, l’altro quando non riusciamo ad attuare un desiderio o incappiamo in qualcosa che temevamo» (Crisippo, [C.e]378, p. 1153).
Colui che ignora la disposizione e le leggi del cosmo e dell’uomo è infelice ed è perduto. Colui invece che le comprende e le accoglie – e per questo è saggio – potrà aspirare a una vita simile a quella degli dèi. Si tratta dello stesso dispositivo e auspicio con il quale Epicuro chiude la Lettera a Meneceo ‘sulla felicità’: il saggio è «come un dio fra gli uomini: perché in nulla è simile a un mortale un uomo che viva fra beni immortali; ζήσεις δε ως θεός εν άνθρώποις. ούθέν γαρ ἕοικε θνητω ζώω ζων άνθρωπος εν άθανάτοις ἀγαθοῖς »7.
Questa dinamica si esplica negli Stoici in un modo in parte diverso rispetto a quello degli Epicurei ma non contrario. L’άταραξία epicurea coincide in gran parte con la άπάθεια/impassibilità, con il dominio su passioni e sentimenti distruttivi quali il lutto, la compassione, la depressione e l’angoscia. Soprattutto questi ultimi due sentimenti e stati d’animo non possono né devono sfiorare il saggio, il quale, ricorda Cicerone, «non cadet ergo in aegritudo» (Tusculanae III, 14; [C.e]570, p. 1268), non soffrirà appunto mai di angoscia.
In un modo certo pressoché incomprensibile alla civiltà cristiano-moderna, Zenone ritiene che «non c’è indulgenza che muova il saggio, né perdono per alcun delitto; perché solo l’insipiente e lo sciocco possono provare misericordia: non è virile il farsi pregare e placare» ([A]214, p. 101).
Libero da sentimenti negativi e da debolezze prima di tutto nei confronti di se stesso, il saggio stoico è un umano felice, «non è costretto da nessuno e nessuno costringe; nessuno gli è di impedimento, né lui è di impedimento a qualcuno, non domina né si lascia dominare, non fa del male ad altri, e neppure subisce del male, non incappa nei malvagi <né mette gli altri in queste condizioni>. Non trae in inganno nessuno, e neppure si fa ingannare, non incorre in delusioni, non partecipa di ignoranza e quindi nulla gli sfugge, ed è assolutamente esente da menzogna. Soprattutto egli è felice, beato e lieto» ([A]216 [Stobeo, Ecl II, 7, 11g p. 99,3 W], pp.101-103).
In una sintesi efficace e assai chiara, «per i saggi la vita è una festa» ([C.e]610, p. 1283).
Una festa che, anche perché vissuta in questo modo, potrà essere lasciata senza eccessivi rimpianti quando le sue condizioni non fossero più adeguate alla serenità. Tre frammenti sul suicidio esprimono in maniera assai chiara tale principio:
[C.e]763 E spesso è dovere del saggio lasciare questa vita pur nel pieno della sua felicità, se può farlo in maniera dovuta. Questo loro pensano: che l’opportunità consista nel vivere felicemente e cioè nel vivere in consonanza con la natura; e pertanto la saggezza può persino intimare al saggio di lasciarla, se questo è utile.
[C.e]765 Anche i filosofi sono d’accordo nel ritenere che per il saggio è ragionevole suicidarsi, qualora sia a tal punto impedito nell’azione da non avere più neppure la speranza di poter agire.
[C.e]767 L’uomo virtuoso potrebbe in certe circostanze lasciare volontariamente la sua vita, che pure è improntata a virtù, scegliendo una morte ragionevole (pp. 1348-1349).
La filosofia della Stoà esprime dunque e sintetizza un approccio all’esistenza e al mondo assai lontanο dal nostro contemporaneo sentimento della vita, assai lontano dalla sua debolezza, dalla sua sostanziale ipocrisia, dalla sua dismisura. Comprendendo l’umano dentro la materia e come sua parte, lo Stoicismo greco – almeno per quello che possiamo intendere depurandolo dalla polemica dei suoi avversari – può costituire ancor oggi un dispositivo di vita serena.
3. Epicureismo
La materia è tutto, la materia è al centro di tutto, la materia è la fonte di ogni altra espressione del mondo. E dunque l’ambito che studia la materia – la Fisica – è il sapere fondamentale, dal quale gli altri ricevono chiarimento e senso. Anche per questo delle tre lettere nelle quali Epicuro riassunse il proprio pensare, il testo chiave è la Lettera a Erodoto nella quale il filosofo fornisce anche alcune indicazioni di metodo che sono preziose per affrontare qualsiasi tema.
La prima indicazione va la di là della contrapposizione tra induzione e deduzione, in quanto «si dedurrà una puntuale conoscenza dei dettagli, se lo schema generale della teoria è stato ben compreso e fatto proprio dalla memoria»8, se dunque ogni osservazione fisica è resa sensata e feconda da una prospettiva metafisica generale che non si limiti a osservare ma che osservi comprendendo, cercando di articolare il più ampio quadro epistemologico e materico nel quale qualunque osservazione empirica prende avvio, accade, perviene a dei risultati di natura generale.
L’osservazione metafisico-fisica del mondo ci dà le informazioni essenziali su di esso, la prima delle quali è la sua infinità nello spazio e nel tempo: «Non c’è dubbio che il tutto è infinito [το πάν άπειρον εστί]» (§ 41; p. 73).
L’intero si compone di mondi infiniti che mai hanno avuto nascita e mai avranno fine poiché «nulla ha origine da ciò che non è […] E se ciò che perisce si annientasse in ciò che non è, tutto sarebbe ormai distrutto, perché ciò in cui si è dissolto sarebbe non esistente» (§§ 38-39, p. 71).
La materia, il tutto – τό πᾶν – si compone di corpi/enti e di spazi locali nei quali tali corpi si muovono: σῶματα καί κενόν (§ 39; p. 73).
Il risultato è che termini come ‘vuoto’ e ‘nulla’ sono delle semplici parole di confine, le quali indicano la pura astrazione negativa del concetto rispetto alla pienezza eternovunque che il mondo è.
Esigenza logica e ontologica è dunque che nella divisibilità dei corpi non si possa arrivare alla loro dissoluzione nel niente e per questo è necessario postulare un confine ultimo della differenza che sono gli ἄτομα, le componenti prime e indivisibili della materia. Gli aggregati di atomi si compongono e si dissolvono ma le loro parti costitutive prime e indivisibili rimangono eterne. Le tre caratteristiche intrinseche alla struttura atomica sono σχήματος, la forma; βάρους, il peso assoluto, non relativo ad altri corpi, vale a dire ciò che oggi chiamiamo ‘massa’; μεγέθους, la grandezza.
Il corpomente umano è composto anch’esso di tali elementi. La ψυχή è l’energia della materia diffusa in tutto l’organismo e capace di vivere sino a che l’organismo rimane unitario e composto. Quando si dissolve, con esso si separa ogni altra struttura che dà identità al corpomente, tornando σῶμα e ψυχή al tutto indistinto dal quale si formeranno altri aggregati, «non è infatti possibile pensare che l’anima sia senziente fuori da questo complesso di anima e corpo» (§ 66, p. 97).
L’impersonalità della materia – sostenuta contro il Timeo e gli Stoici – costituisce uno degli elementi centrali di continuità tra la fisica e ciò che chiamiamo etica. La materia e gli dèi, che sono la stessa cosa, sono infatti del tutto impersonali, privi di passioni, impossibilitati ad agire per favorire o per danneggiare i loro composti: «In una natura incorruttibile e beata non può esistere nulla che possa provocare conflitto o turbamento; μη είναι εν άφθάρτω και μακαριά φύσει των διάκριση/ ύποβαλλόντων ή τάραχον μηθέ» (§ 78, p. 107). Proprio questa indifferenza è parte fondamentale dell’essere ‘immortale e beato’ αφθαρτον και μακάριον, che è la vera natura del divino (§ 123; p. 143).
La consapevolezza che tale è la struttura del mondo ci libera dalle paure più grandi, da quei terrori che avvelenano l’esistenza, come il terrore della volontà divina e della morte. Anche lo studio dei cieli, l’astronomia, serve a conseguire tale e tanta serenità. Infatti «nella conoscenza dei fenomeni celesti, connessa ad altre dottrine o fine a se stessa, non vi [è] altro scopo che il conseguimento di imperturbabilità [άταραξίαν] e solide convinzioni, proprio come nelle altre ricerche» (§ 85; p.113).
La serenità è uno dei frutti di tali indagini. Una serenità che conduce a gustare quanto la vita offre di bello, a godere dei piaceri ma – condizione fondamentale – senza essere subordinati ai desideri. La felicità umana coincide piuttosto anche con la libertà dai desideri, oltre che con la libertà dai timori. Epicuro afferma anzi che «l’indipendenza dai desideri sia il bene più grande; Και την αύτάρκειαν δε αγαθόν μέγα νομίζομεν» (§ 130; p. 149). Evidentemente errate, per non dire insensate, sono dunque le interpretazioni dell’etica epicurea come un atteggiamento di abbandono a ogni e qualsiasi forma del piacere, quando invece è la φρόνησις – la saggezza, la prudenza, la misura – a caratterizzarla, è il «non aver dolore nel corpo né turbamento nell’anima; αλλά το μήτε άλγεΐν κατά σώμα μήτε ταράττεσθαι κατά ψυχή» (§ 131; p. 151).
La felicità della persona/filosofo è pari alla beatitudine degli dèi, è pari alla forza della materia stessa. Come abbiamo già visto, sarà dunque possibile vivere «come un dio fra gli uomini: perché in nulla è simile a un mortale un uomo che viva fra beni immortali; ζήσεις δε ως θεός εν άνθρώποις. ούθέν γαρ ἕοικε θνητῷ ζώω ζων άνθρωπος εν άθανάτοις ἀγαθοῖς» (§ 135; p. 155).
Così si chiude la lettera di argomento etico a Meneceo, fondata su quelle dedicate alla fisica e all’astronomia. Poiché la materia è tutto, la materia è al centro di tutto, la materia è la fonte di ogni altra espressione del mondo.
4. Saggezza teoretica, una gaia scienza
Ludwig Wittgenstein sintetizza la grandezza di questo cammino, la grandezza di Platone, dello Stoicismo, dell’Epicureismo quando osserva che «la vita di conoscenza è la vita che è felice nonostante la miseria del mondo»9. È qui, in questa razionalità ora melanconica ora da eroico furore del pensiero, che Friedrich Nietzsche inserisce la ricchezza della sua benedizione. Al di là del dualismo fra razionalità e irrazionalismi, egli delinea per intero il senso più profondo del suo enigma: Nietzsche condivide con Aristotele e Platone, con gli Stoici e con gli Epicurei, con Bruno e Spinoza, con Husserl e Wittgenstein l’esperienza disincantata e gaia della vita teoretica come unico senso dell’esistere:
In media vita. No. La vita non mi ha disilluso. Di anno in anno la trovo invece più ricca, più desiderabile e più misteriosa – da quel giorno in cui venne a me il grande liberatore, quel pensiero cioè che la vita potrebbe essere un esperimento di chi è vòlto alla conoscenza – e non un dovere, non una fatalità, non una frode. E la conoscenza stessa: può anche essere per altri qualcosa di diverso, per esempio un giaciglio di riposo o la via ad un giaciglio di riposo, oppure uno svago o un ozio; ma per me essa è un mondo di pericoli e di vittorie, in cui anche i sentimenti eroici hanno le loro arene per la danza e per la lotta. «La vita come mezzo della conoscenza» – con questo principio nel cuore si può non soltanto valorosamente, ma perfino gioiosamente vivere e gioiosamente ridere. E chi saprebbe ridere e vivere bene, senza intendersi prima di guerra e di vittoria?10
La saggezza teoretica è questa guerra, è questa vittoria. Ed è per questo che la vita può diventare una festa.
Note:
P. Hadot, Che cos’è la filosofia antica? (Qu’est-ce que la philosophie antique?, 1995), trad. di E. Giovannelli, Einaudi, Torino 2010, p. 269.
Ivi, p. 22.
G. De Santillana – H. Von Dechend, Sirio. Tre seminari sulla cosmologia arcaica, a cura di S. D’Onofrio e M. Sellitto, trad. di E. Agazzi, M. Sellitto e D. Tippet Andalò, Adelphi, Milano 2020, p. 48.
C. Nixey, Nel nome della croce. La distruzione cristiana del mondo classico (The Darkening Age. The Christian Destruction of the Classical World, 2017), trad. di L. Ambasciano, Bollati Boringhieri, Torino 2018, p. 20.
G. Rinaldi, Pagani e cristiani. La storia di un conflitto (secoli I-IV), Carocci, Roma 2020; C. Nixey, Nel nome della croce, cit.; M. Zambon, «Nessun dio è mai sceso quaggiù». La polemica anticristiana dei filosofi antichi, Carocci, Roma 2019.
Stoici antichi, secondo la raccolta di Hans von Arnim (Stoicorum Veterum Fragmenta, 1905), a cura di R. Radice, Nuova edizione riveduta, Bompiani, Milano 2018, [B.l]185, p. 397. I riferimenti delle ulteriori citazioni da questo volume saranno indicati nel testo, con la partizione e il numero (in grassetto) dell’edizione von Arnim e il numero di pagina della traduzione italiana.
Epicuro, Lettere sulla felicità, sul cielo e sulla fisica, prefazione di F. Adorno, introduzione, traduzione e note di N. Russello, Rizzoli, Milano 2021, § 135, p. 155.
Ivi, § 36, p. 69. I riferimenti delle ulteriori citazioni dalle Lettere di Epicuro saranno indicati nel testo, tenendo conto della seguente numerazione: Lettera a Erodoto (sulla fisica): §§ 35-83; Lettera a Pitocle (sull’astronomia/cielo): §§ 84-116; Lettera a Meneceo (sull’etica/felicità): §§ 122-135
L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, trad. di A.G. Conte, Einaudi, Torino 1980, nota del 13.8.1916, p. 182.
F. Nietzsche, La gaia scienza, trad. di F. Masini, in «Opere», Adelphi, Milano 1965, vol. V/2, af. 324, p. 186.