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La Turchia è confusa quanto lo siamo noi per la Siria

di Eric Margolis - 01/12/2011


È una giornata cupa e uggiosa lungo le coste del Bosforo, il grande stretto che divide l'Europa dall'Asia. Torbido e pericoloso come la Siria, che a due passi da qui è sul punto di esplodere.

La strategia turca del "non pestare i piedi" forgiata dal Ministro degli Esteri Ahmet Davatoglu ha funzionato benissimo in passato per seppellire ogni divergenza con Siria, Iran e Libano e aprire nuovi mercati miliardari agli esportatori turchi più smaniosi. La focosa economia della Turchia è cresciuta del 7% l'anno scorso, quasi alla stessa velocità di quella cinese.

Questo prima che la situazione politica in Libia, Siria e Egitto esplodesse, costringendo il popolarissimo primo ministro Recep Tayyip Erdogan a prendere posizione. La Turchia invitò dapprima l'ormai moribondo faraone Ozni Mubarak a cedere il passo, poi confermò il supporto alle onnipotenti gerarchie dell'esercito egiziano. Ironia del destino, Erdogan aveva appena concluso un decennio di battaglie contro le invadenze dell'esercito turco nella scena politica interna.

Di contro, la Turchia abbandonò con riluttanza, come causa persa, il dittatore libico Gheddafi, un vecchio amico con cui Ankara aveva in piedi affari per 23 miliardi di dollari. L'atteggiamento di Erdogan nei confronti della Siria è stato simile: è convinto che la famiglia Assad debba levare le tende e lasciare il posto a una democrazia in stile turco, ossia intrisa dei valori islamici di welfare e giustizia sociale.

Fatto interessante, Davatoglu ha appena annunciato un nuovo "asse turco-egiziano" fra le due nazioni più potenti e popolose della regione. Citando una vecchia massima ottomana, ha dichiarato che "la Turchia tornerà a essere al centro di tutto".

Intanto gli Stati Uniti continuano in tutta tranquillità a foraggiare le cospicue forze armate egiziane, mentre l'Arabia Saudita ha di recente passato "sottobanco" quattro miliardi di dollari al governo militare. I sauditi, con la benedizione di Washington, hanno promesso pubblicamente all'Egitto altre decine di miliardi – potrebbero essere addirittura 60 – per tenere alla larga dal potere democratici, nazionalisti, i vecchi sostenitori di Nasser e i Fratelli Musulmani.

I cinici qui a Istanbul si chiedono se la Turchia stia prendendo in considerazione l’idea di trasformare la travagliata Siria in un nuovo protettorato turco. La Siria è a un passo dal precipitare nella guerra civile. Potrebbe esserci bisogno di un intervento stabilizzatore per tirare il Paese fuori dai guai e rimetterlo insieme. Anche l'Iraq si sta facendo avanti.

Il conflitto siriano è un rompicapo. È iniziato un anno fa con l'ingresso nel Paese di gruppi d'insurrezione dal vicino Libano. Erano stati armati, riforniti e addestrati dalla CIA, dall'MI6 inglese e dal Mossad (i servizi segreti israeliani) e finanziati con i soldi della monarchia saudita e del Congresso degli Stati Uniti, che negli anni '80 decise di stanziare fondi per il sovvertimento del regime di Assad a causa dell'ostilità di questi verso Israele, e del suo supporto ai Palestinesi.

Negli anni '20 uno dei fondatori del pensiero sionista, Vladimir Jabotinsky, descriveva il mondo arabo come un fragile mosaico di tribù e clan. Un paio di colpi decisi, secondo le sue previsioni, sarebbero bastati a mandare in frantumi quell'insieme delicato e caotico, lasciando il nuovo Stato ebraico padrone incontrastato del Medio Oriente e del suo petrolio. Jabotinsky si riferiva in particolare a Siria, Libano e Iraq.

Le frange armate in Siria erano composte di mercenari, fascisti libanesi e esuli educati dalla CIA all'odio verso il dittatore: furono loro ad accendere la miccia della polveriera siriana. Le incursioni, concentrate soprattutto lungo il confine con il Libano, innescarono la reazione a lungo repressa dei conservatori sunniti, acerrimi nemici del regime dominato dall'etnia alawita. Gli alawiti – una ramificazione dello Shah e degli Alevi turchi – sono tendenzialmente poveri, chiusi e invisi agli ortodossi sunniti, che li considerano degli eretici.

Molte città della Siria sono già insorte, anche se non le principali: a Damasco, Latakia e Aleppo la rivolta non è arrivata, ma l'economia cittadina è sull'orlo del collasso.

La Siria è frammentata anche da un punto di vista etnico-religioso. Parte della maggioranza sunnita , soprattutto l'alta borghesia, sostiene ancora Assad. Lo stesso vale per la minoranza cristiana, che ammonta al 10% della popolazione. Come il regime di Saddam Hussein, anche quello di Assad ha protetto le sette cristiane presenti sul territorio nazionale dagli attacchi dei fanatici che ritengono i cristiani dei traditori filo-occidentali e degli idolatri.

Si aggiunga una piccola quantità di pacifici curdi siriani, non scollegati dai più rivoltosi curdi della Turchia sud-occidentale, dove la ribellione ha covato per decenni e, all'epoca in cui chi scrive era inviato sul luogo del conflitto, sfociò nella strage di circa 40 mila persone.

La Siria è un alleato di vecchia data dell'Iran. Le potenze occidentali e Israele smaniano di mandare in pezzi il Paese in modo da inferire un duro colpo non solo all'Iran, ma anche agli altri alleati della Siria, Hezbollah in Libano e Hamas in Palestina.

Cosa altrettanto importante, se la Siria dovesse collassare, le Alture del Golan, territorio di importanza strategica annesso da Israele nel 1967, resterebbero tranquillamente in mano israeliana. Assieme alle principali risorse di acqua sorgiva della zona.

Una Siria frammentata sarebbe una catastrofe per il Medio Oriente. Ma Stati Uniti, Francia, Israele e Gran Bretagna sono così accecati dalle loro smanie anti-iraniane che sono pronti a passare sopra alla Siria per arrivare al Grande Nemico persiano. Il che equivarrebbe a dar fuoco alla casa per sbarazzarsi dei topi.

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Fonte: Turkey as Confused as We Are by Syria


Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di DAVIDE ILLARIETTI