Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Quanta cecità da parte degli intellettuali che ignorano l’urgenza del ritorno alla terra

Quanta cecità da parte degli intellettuali che ignorano l’urgenza del ritorno alla terra

di Francesco Lamendola - 20/01/2012


Farmer Instructing 4H Class 

C’è una cosa che gli intellettuali italiani avrebbero potuto fare, se avessero voluto farsi perdonare la vergognosa indifferenza, se non peggio, con cui hanno assistito alla distruzione della civiltà contadina, tutti indaffarati, com’erano, a celebrare «le magnifiche sorti e progressive» del cosiddetto miracolo economico: lanciare la parola d’ordine del ritorno alla terra; proclamare a voce alta che questa e solo questa è la strada per uscire dalla nostra crisi attuale, spirituale non meno che materiale.

Era quella la sola cosa che avrebbero potuto fare per riscattarsi; per mostrare, una volta tanto, quel minimo di lungimiranza intellettuale e di coraggio civile dei quali sono sempre stati carenti, troppo occupati dai loro compiti di scuderia o dalla servile adulazione dei poteri che li foraggiano, procurano loro le direzioni dei giornali e le cattedre universitarie, e fanno pubblicare i loro articoli e i loro libri dalle riviste specializzate e dalle case editrici.

E non l’hanno fatta.

Perfino adesso che i guasti e la tremenda degenerazione del sistema urbano basato sulla fabbrica sono sotto gli occhi di tutti, anche dei più ciechi; perfino ora che gli amministratori delle città, grandi e piccole, si trovano a dover combattere una battaglia disperata contro l’inquinamento atmosferico, contro i disservizi pubblici, contro il collasso annunciato del piccolo commercio e contro la criminalità dilagante: perfino adesso che non occorre essere esperti di tali problemi, ma basta aver un paio d’occhi per vedere e un paio d’orecchi per udire ciò che avviene quotidianamente intorno a noi, i nostri pseudo-intellettuali continuano a tacere sulla terra, sull’agricoltura, sulla necessità di una rivoluzione copernicana della nostra idea di un futuro sostenibile.

Negli anni Cinquanta e Sessanta essi dicevano apertamente, oppure lo lasciavano intendere con i loro silenzi, con i loro ammiccamenti e con i loro sorrisetti beffardi, che il mestiere del contadino era condannato all’estinzione; ed è stato anche per merito loro se due o tre generazioni di bambini di città, cresciuti a televisione e Nutella (poi a Internet e Nutella), hanno davvero creduto che l’insalata, i pomodori, il formaggio e il prosciutto sono quegli alimenti che vengono prodotti nei supermercati, così come il latte viene prodotto dal Famila o dalla Coop.

Così, con un misto di inconcepibile ignoranza e di colpevole superficialità, tutti quanti ci siamo abituati a considerare il modo di vita urbano come l’unico modo di vita realmente degno di un essere umano evoluto e di una società moderna e progredita; del resto, dall’Illuminismo in poi, non è forse quello che - con poche eccezioni, da T. S. Eliot a Calvino - ci è stato ripetuto, a livello europeo e mondiale, dal Gotha della cultura accademica e ufficiale? Anzi, che ancor prima - a partire dall’Umanesimo, da Boccaccio e Lorenzo de’ Medici in poi - ci è stato detto e ridetto, facendo al tempo stesso la satira del “contadino” e del “villano”, figure sciocche e credulone per definizione?

Beninteso, i ricchi borghesi (borghese: l’abitante del borgo, cioè l’ex contadino benestante inurbato) si sono accorti da un pezzo che nelle città, sempre più caotiche e congestionate, sempre più sporche e invivibili, tira una brutta aria: e quelli che non hanno potuto farsi la villa in collina e nei nuovi quartieri residenziali di lusso, sono emigrati direttamente in campagna, sempre, beninteso, costruendosi o acquistando la villa con giardino, piscina e solarium.

Ma i nostri editorialisti e politologi, i nostri filosofi e tuttologi, tutti debitamente progressisti, radicali e libertari, quotidianamente assorbiti dalla loro personale “battaglia di civiltà” contro lo Stato sanguisuga e la giustizia forcaiola, o a favore della libera evasione fiscale e della libera eutanasia, non hanno trovato il tempo né la voglia di occuparsi di quisquilie come la metastasi dell’urbanizzazione selvaggia o come le malattie respiratorie, le depressioni e gli esaurimenti che affliggono gli abitanti delle città, sempre più simili ai dannati dell’Inferno dantesco; e meno ancora si sono preoccupati di cercare delle soluzioni, di fare delle proposte alternative.

In questi ultimi anni e decenni si è parlato veramente di tutto, sulle colonne dei quotidiani di opinione e nelle tavole rotonde televisive: dalla liberalizzazione delle droghe leggere all’operazione per il cambiamento di sesso, dai premi di maggioranza nei sistemi elettorali democratici agli harem privati dei potenti della politica e degli affari; di tutto, tranne che del necessario e ormai improrogabile riequilibrio del rapporto città-campagna, tranne che della rivoluzione culturale che esso sottende e che, al tempo stesso, sollecita.

Per anni, per decenni, i giovani di campagna (e di montagna) hanno visto la città come la Terra Promessa da raggiungere ad ogni costo, come la quintessenza di tutto ciò che rende la vita realmente degna di essere vissuta; per anni e per decenni sono stati spinti a disamorarsi delle loro radici, della loro storia, del loro paese. E così l’emorragia è proseguita, continua, implacabile: la campagna è stata sempre più abbandonata, la città si è gonfiata oltre ogni misura.

È triste, oggi, osservare le colline e le parti superiori delle valli abbandonate a se stesse, invase da una boscaglia disordinata, dove prima c’erano vigneti amorosamente coltivati, e sia pure con tanta fatica; è triste vedere come sono proliferati gli animali dannosi, dopo che le sostanze chimiche irrorate indiscriminatamente nei campi hanno fatto sparire molte di quelle utili; ed è ancora più triste vedere tutti quei casolari in rovina, quei villaggi semi-abbandonati, quelle stalle e quei fienili crollati su se stessi e invasi dall’edera selvatica e dalle ortiche, dove prima si udiva il muggito delle mucche e si respirava il buon profumo del fieno.

Non si tratta di idealizzare la civiltà contadina, che aveva certamente i suoi lati difficili, né di demonizzare quella urbana, che aveva ed ha, certamente, i suoi lati postivi: si tratta di trovare un equilibrio, di ristabilire un senso della misura, di ritrovare la capacità di una valutazione serena, da cui possa scaturire una sintesi saggia, che tenga conto di tutte le autentiche necessità dell’uomo e della società, e non solo di quelle più immediate e appariscenti.

Infatti, gira e rigira, tutte le questioni e tutti i problemi riconducono sempre alla domanda di senso: chi sono io veramente e cosa rende autentica la mia vita? Se, come si è fatto sino ad ora, si risponde che a definire la nostra identità e a riempire di significato la nostra vita sono sufficienti l’ultimo modello di automobile nel garage, il vestito e le scarpe firmate da indossare, lo yacht o la vacanza ai Carabi, allora continuiamo pure così, lungo la strada che abbiamo intrapresa, e buona fortuna per quando gli ultimi nodi verranno al pettine e dovremo fare i conti con la bancarotta totale e irreparabile, sia materiale che morale, della nostra civiltà.

Se, invece, riteniamo che le cose materiali e i beni di consumo non esauriscano affatto la domanda essenziale della natura umana; se riteniamo che tale domanda sia innanzitutto una domanda di senso e, quindi, una domanda metafisica, ecco allora che la rinuncia alla parte più ingombrante ed ecologicamente dannosa del nostro stile di vita cesserà di apparirci come un sacrificio insopportabile, per rivelarsi sotto le spoglie di una ritrovata leggerezza e di una rinnovata libertà, tali da rimetterci in sintonia con le regioni più profonde e vitali del nostro essere..

Ha scritto Franco Piccinelli nel su ormai “storico” libro di quasi tre decenni or sono, «Fino all’ultimo filare» (Rusconi, Milano, 1984, pp. 9-11):

 

«Se non fosse profondamente sentita la sfida con se stesso del mondo contadino; se l’istruzione non consigliasse di tenere per valida l’esperienza senza  impigrirci dentro ma costruendo nuovi sentieri esplorativi; se non esistesse la ragionevole certezza che il fabbisogno alimentare  è rapportato all’abitudine degli stomaci di soddisfarsi con cibo tradizionale in attesa che il nostro fisico si adegui alla struttura nutritiva delle pillole, a lavorare la terra ormai non ci sarebbe più nessuno.

Per anni si è ripetuto al contadino che il suo mestiere, oltre che superato, è inutile. Glielo si è detto con tutti i significati delle parole e dei silenzi, senza il suffragio di qualche dimostrazione ritenuta superflua o troppo tecnicistica per essere compresa da quegli zotici, con la trascuratezza, l’abbandono, l’indifferenza, con la satira che relega l’uomo dei campi, oggi, nell’immagine del suo antenato infastidito dalla doppia pressione  della zappa in spalla e degli zoccoli ai piedi.

Chiunque avrebbe finito per rassegnarsi, per andarsene.  Il contadino, che accelera i ritmi produttivi ma non insidia quelli naturali, ha semplicemente pensato: “E se, alla lunga, avessi ragione io e il torto fosse degli altri?E se la civiltà del Duemila toccasse invece proprio a noi connotarla, noi che rappresentiamo la saldatura fra passato e futuro?”.

È ricorso al presidio della propria forza d’animo e di un’intima filosofia che lo dissuade dalle sole apparenze per scendere meglio nel segreto dei fenomeni.

Avete mai visto n contadino quando pota una pianta da frutto? Le si pone davanti, le gira intorno e la studia secondo ogni prospettiva, soppesando i rami più esposti al sole e quelli cui toccherà il conforto ozioso e improduttivo di un’ombra d’albero adesso brullo. Verifica le cortecce e accarezza i germogli. Dialoga con questi, consapevole che una parte li dovrà sacrificare: perché gli altri crescano meglio e l’intero tronco non abbia a soffrire, un po’ come avviene con i micini della prolifica gatta di cascina. Infine si determina alla troncatura, lasciando in vita i bracci non secondo lunghezza, ma in base alla valutata buona salute.

Nel caso si ravvedessero improvvisamente i ladri, i fabbricanti di porte blindate fallirebbero. Riapparsi i ladri, di fronte all’ovvia e intensa rifioritura della domanda, occorrerebbe del tempo per attrezzarsi in qualche modo a soddisfarla, e intanto sarebbe giocoforza rifornirsi altrove.

In campagna è avvenuto l’opposto; scomparve, negli anni Cinquanta e Sessanta, ‘agricoltura, e i contadini c’erano tuttavia, persino numerosi, eppure a giudizio di alcuni esperti condannati all’estinzione.

Secondo i calcoli progressivi di un signore belga che a quell’epoca era oto ossequiato, di nome Mansholt, oggi in campagna dovrebbero trovarsi ancora trenta giovani sotto i quarant’anni e centomila vecchi ultraottantenni. I giovani superano invece il milione di unità, attorno ai sei milioni è la popolazione agricola.

Sempre in quel periodo, spalla contro l’ulivo o riversa sul palo di capezzagna delle viti della propria esausta cascina: “Ma se vanno via tutti, se nessuno coltiverà più la terra, cosa mangerete, benedetta gente, le ruote della Fiat o i tasti per scrivere dell’Olivetti?”, era deriso, persino schernito, o nella migliore ipotesi gli si perdonava l’incapacità a una mente industriale: “È rimasto alle minestre di riso e fagioli, il poverino, non sa che in fabbrica si magia in piedi perché i pasti sono soltanto un fastidio, e a mezzogiorno l gente di città , anche gli impiegati, si sfamano con i tramezzini dei bar”.

E fu da simili considerazioni, poi frettolosamente rimeditate, che i loro figli se ne uscirono con il convincimento che a produrre il latte fossero le Centrali bianche…»

 

Non si tratta, lo ripetiamo, di operare una ingenua idealizzazione della campagna o di riproporre l’ultima versione, riveduta e aggiornata, dell’utopia ruralista, tanto cara alla cultura di fine Ottocento e del primo Novecento e scaturita, più o meno direttamente, dal “disagio della civiltà” che era poi, in ultima analisi, disagio di fronte a quella particolare forma di civiltà, o di degenerazione della civiltà, rappresentata dalla modernità.

Né si tratta di un recupero in chiave contemporanea dell’ideologia georgica virgiliana e augustea, di una improbabile ripresa dei temi legati alla “sanità morale” della campagna contro la decadenza della città; temi che, da Parini a Pavese, sono già stati rivisitati cento e cento volte, ma che raramente sono andati oltre il piano delle buone intenzioni, delle nostalgie velate di malinconia, dello scacco davanti al duro e inflessibile principio di realtà.

Sappiamo benissimo che l’uomo, ovunque vada a vivere, vicino o lontano, in città o in campagna, altro non fa che portarsi dietro il proprio bagaglio morale e materiale e, dunque, sia la sua parte migliore, che la peggiore; siamo però convinti che esistano condizioni ambientali che tendono a favorire l’emergere dell’una o dell’altra di queste ultime e, quindi, a rendere oggettivamente più degna e serena la sua esistenza, oppure a renderla più disordinata e penosa.

Un ritorno alla terra, dunque: ma come ritorno ai grandi valori, e alla felice riscoperta di se stessi…