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Guarigione ed effetto placebo

di Claudio Risé - 20/07/2012

Dove nasce il processo che porta alla guarigione, sia fisica che psichica?
Dagli studi e ricerche svolte lungo tutta la storia della medicina, oggi rafforzate dalle scoperte delle neuroscienze, appare molto più chiaramente il ruolo svolto dagli aspetti psicologici e sociali della cura: il sentirsi seguiti da una figura terapeutica, la fiducia in essa, la considerazione di cui il metodo di cura gode presso il gruppo sociale. È questo che la scienza moderna chiama oggi l’“effetto placebo”.
Il placebo è un insieme di fattori psicologici e sociali che può rendere efficace anche un “rimedio finto”.
Così lo chiama il neuroscienziato Fabrizio Benedetti nel suo «L’effetto placebo» recentemente premiato in Inghilterra); ma aiuta anche la medicina scientifica, oltre alle terapie alternative, nel portare i pazienti alla guarigione. Che, dopotutto, è un processo naturale.
La gran parte della malattie, fisiche e psichiche (ricordava Carl Gustav Jung, psichiatra e fondatore della psicologia analitica), tende di per sé alla guarigione; il terapeuta deve saper diagnosticare il male e aiutare il malato a superare la malattia coi rimedi appropriati.
Fin dal 1700 l’ultimo Re di Francia, Luigi XVI, istituì una commissione per verificare la ragione di guarigioni che secondo le conoscenze della medicina dell’epoca apparivano completamente infondate; e ne affidò la guida a Benjamin Franklin: cominciarono così gli studi sui “placebo”. Ma non poterono che confermare sia le guarigioni che la loro inconsistenza “scientifica”.
Anche negli studi successivi si vide che in qualche caso si trattava di malattie già in via di remissione; e comunque in tutti appariva come l’insieme (variabile) di fiducia nel medico e nel metodo usato, di gratitudine e sollievo per venire curati, e le aspettative positive sul buon esito della cura, portassero appunto alla guarigione.
Determinante era, come notò la commissione Franklin, l’attività dell’immaginazione del paziente, che voleva fortemente guarire, ed utilizzava la figura del terapeuta per farlo. Scattava così quello che oggi si chiama l’”effetto placebo”, ampiamente utilizzato oggi anche dalla medicina classica, magari per calmare un’ansia infondata con una compressa che non è altro che zucchero, o con una flebo di acqua fresca.
Ricerche condotte negli Stati Uniti, dimostrano, come ricorda Benedetti, che il 60% dei medici utilizza placebo nella pratica medica (in particolare per dolori ritenuti “immaginari”); percentuali elevate sono state rivelate da studi condotti in Danimarca, e in Israele.
L’efficacia di questi metodi, adottati perché producono dei risultati attraverso il significato simbolico che il paziente attribuisce alle cure, dimostra, per quanto possibile constatare dall’attività psicoterapeutica, che le risorse che il paziente può mobilitare ai fini della propria guarigione sono probabilmente assai maggiori di quelle riconosciute dalla medicina classica, molto focalizzata sull’efficacia dei rimedi scientificamente testati e riconosciuti. Da questo punto di vista mi sembra di grande interesse la scoperta fatta dalle neuroscienze secondo cui il placebo smette di essere efficace e non ha più alcun risultato quando la parte anteriore del cervello (lobi prefrontali), quella più evoluta, fortemente implicata nell’attività di simbolizzazione, viene compromessa, come avviene in certe forme di demenza.
La psicoterapia infatti ha due aspetti fondamentali: la relazione terapeutica, e l’attività di simbolizzazione in essa svolta dal paziente e presentata al terapeuta per interpretarla.
Un placebo? Forse. Ma efficace.