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La religione della crescita che incatena il pianeta

di Paolo Cacciari - 30/08/2012


Gli effetti distruttivi di uno sviluppo infinito dei consumi e della produzione a spese della natura

Quante volte abbiamo sentito dire in questi ultimi cinque anni che la crisi è sistemica, strutturale, un intreccio di crisi sovrapposte: finanziaria, occupazionale, produttiva, energetica, climatica, alimentare, idrica, demografica, ecologica e sociale, inestricabilmente materiale e spirituale? Quante volte, di converso, abbiamo dovuto prendere atto che le scienze economiche (in tutte le loro varie versioni teoriche, scuole e tendenze) non sono state in grado né di prevedere, né di prevenire, né tantomeno di curare le crisi in atto? Che sia quindi giunto il momento di sancire anche la crisi dell'economia, il superamento dei suoi «principi normativi»?
Se lo chiede Gilbert Rist con il suo ultimo libro, I fantasmi dell'economia (Jaca Book, pp 214, euro 22), che si ricollega e approfondisce la ricerca iniziata con Lo sviluppo. Storia di una credenza occidentale (Bollati e Boringhieri). Una ricostruzione impietosa del pensiero economico, una demolizione della «regina» delle scienze sociali, il fulcro attorno cui ruota la politica contemporanea e la condanna delle nostre vite quotidiane.

Il dubbio che Rist intende insinuare nelle nostre menti è che i presupposti stessi della «scienza» (sempre scritta tra virgolette nel testo) economica dominante (altrimenti denominata formale, standard, classica, del mercato) siano fallaci e menzogneri. Essi infatti si basano sull'accettazione di alcune ipotesi (vere e proprie visioni antropologiche e mitologiche) ritenute universali: la scarsità delle risorse naturali a disposizione dell'umanità (la natura concepita sempre come matrigna, avara e ostile), la propensione degli individui (sempre, immancabilmente egoisti, della specie: homo homini lupus) ad accumulare beni, quindi, la conseguente necessità di una crescita permanente delle produzioni e dei consumi come condizione indispensabile per soddisfare i nostri infiniti bisogni e desideri.

Esisterebbe, insomma, alla base del pensiero economico, «una natura umana che si comporta in modo uniforme e invariabile in tutte le epoche e in tutte le società (per cui) è possibile immaginare modelli che permettano al maggior numero di individui, se non proprio a tutti, di massimizzare la propria soddisfazione, contribuendo così alla felicità o al benessere collettivo».

La guerra delle cose

Stando così le cose, è naturale che la promessa dell'opulenza sia riuscita ad attrarre le speranze di molti abitanti del pianeta, ad esercitare «un ascendente irresistibile». Meno comprensibile (addirittura «un mistero che bisogna tentare di delucidare», secondo Rist) il fatto che questa fiducia rimanga inalterata dopo le innumerevoli disastrose prove che la «scienza» economica sta fornendo: diseguaglianze scandalose, depauperamento irreversibile delle risorse naturali, concorrenze distruttive tra aree geografiche, sfibramento del tessuto sociale e via elencando.
La ragione della sua forza mobilitante sta nel fatto che l'economia non è una scienza, ma una credenza. Non fornisce una rappresentazione realistica del mondo, ma ideologica, immaginifica, mitica. E, per nostra somma sfortuna, «la teoria economica deriva dal paradigma della guerra. Guerra contro la natura, guerra degli uomini tra di loro. Ponendo come presupposto la scarsità originaria, bisogna dichiarare guerra alla natura sfruttandone tutte le risorse, rinnovabili o meno: affermando che ciascuno, in qualsiasi circostanza, ricerca sempre il proprio interesse, si legittimano la concorrenza e le disuguaglianze sociali».

La teoria falsamente oggettiva della «soddisfazione delle preferenze» individuali, oltre a generare profonde inequità, taglia fuori dalla considerazione generale tutto ciò che va oltre l'interesse immediato del singolo individuo e della singola impresa e tutto ciò che ha un valore in sé, a prescindere dall'uso economico che se ne può fare ed è quindi incommensurabile in termini monetari. Quanto vale e con quale «moneta» si contabilizza una specie vivente estinta? Quanto valgono i «beni relazionali», il dono, la mutualità, gli scambi non mercantili, le economie informali, il lavoro domestico, che sicuramente costituiscono la parte maggiore delle attività umane «sostanziali» (avrebbe detto Polanij), ma che la «scienza economica» non vede? «Nessuna moneta può servire da denominatore comune o equivalente generale tra le diverse categorie di beni (...) non tutto ha lo stesso valore non tutto si scambia con tutto».

Viene da pensare che il processo di scientifizzazione dell'economia non sia null'altro che un tentativo di creare una zona ethics-free, indifferente alle domande di senso sullo scopo del fare, del produrre e del consumare. Insomma, sacralizzare il dogma della crescita su cui si fondano tutte - ma proprio tutte - le teorie economiche classiche e neoclassiche, marxiste e keynesiane, civili e sociali-cristiane. Torna alla mente uno degli ultimi interventi di Claudio Napoleoni (Capitalismo, tre questioni centrali, «il manifesto», 19/20 marzo 1989) quando chiedeva ai vertici del Pci «un mutamento culturale profondo in cui si esca dall'etica del lavoro, dall'etica della produzione, dall'etica dello sviluppo materiale ed in cui ci si renda conto che in realtà i problemi che sono emersi nelle società moderne sono emersi in forza e in conseguenza di uno sviluppo industriale che ormai ha raggiunto i suoi limiti umani e naturali». Per cui: «la frase "nuovo modello di sviluppo" è priva di senso: se si tratta di un nuovo modello, questo non è più un modello di sviluppo».

Un sapere ricomposto

La decrescita, dunque, (pur con le sue ambiguità e varietà di interpretazioni e di pratiche) come movimento di «obiezione alla ossessione della crescita» volto a «scoprire le nuove possibilità che si aprirebbero a una società liberata dall'obbligo di sacrificare tutto alla crescita e al profitto» con l'intento di «proporre un altro modello di società, ossia di cambiare il nostro modo di produzione e di consumo», indica per Rist la direzione giusta.

Rist propone di «emanciparsi» dall'economia della crescita e auspica che anche per l'economia avvenga una «rivoluzione scientifica» pari a quelle che hanno fatto evolvere altri campi del sapere negli ultimi due secoli. E, soprattutto, che l'economia perda quella presa egemonica sulla società che le ha permesso di imporre le sue «leggi» all'insieme degli individui. Servono approcci più complessi, meno mutuati dalla meccanica razionale, più interdisciplinari. Si chiede Rist: «In opposizione alla generale tendenza alla specializzazione e alla parcellizzazione del sapere, non serve forse inventare una disciplina allargata che integri l'insieme dei fenomeni sociali, biologici, fisici, energetici ed ecologici in costante interazione?» Insomma, vi sarebbe la necessità di «fondare una nuova teoria economica».

Il mito della penuria

«Per far sì che un altro mondo diventi possibile, bisogna iniziare a immaginare la possibilità di un'altra economia. Anzi, di una pluralità di economie». Non esiste solo lo scambio mercantile e la finitudine degli stock e dei flussi naturali non significa necessariamente scarsità-penuria. Solo all'interno di un modello dove la domanda (vale a dire chi detiene più moneta e titoli di proprietà) può stabilire le sue convenienze, «la penuria non fa che segnalare il divario tra il ricavo che il produttore si aspetta e i mezzi che il consumatore è disposto a mettere per ottenere il bene desiderato». In altri contesti sociali più lontani dal mercato possono cambiare valori e gerarchie. Il problema è che l'introiezione dei limiti nei comportamenti umani e quindi il riconoscimento della sufficienza, del bastevole, può avvenire solo in una società che condivide i beni comuni e coopera affinché i benefici che se ne possono trarre dalla loro utilizzazione siano equamente distribuiti. Insomma, una società con dei principi etici opposti a quelli su cui si fonda la teoria economica dominante.