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Heidegger e il nazismo

di Francesco Lamendola - 25/10/2012




 

Il pensiero di Martin Heidegger è stato funzionale o collaterale all’ideologia nazista?

E gli scritti postumi di «Beitrage zur Philosophie», apparsi nel 1989, possono gettare una luce ulteriore in proposito, aprendo nuove prospettive e immettendo nuova linfa all’interno di un dibattito sempre più stanco e ripetitivo?

Così Giuseppina Strummiello ricapitola la “vexata quaestio” in «L’altro inizio del pensiero. I “Beiträge zur Philosophie” di Martin Heidegger», Bari, Levante Editori, 1995, pp. 92-99):

 

«.. le contestazioni rivolte alle implicazioni politiche del pensiero heideggeriano potrebbero essere racchiuse in tre punti:

1) innanzi tutto, Heidegger non respinge il nazismo in quanto ideologia in sé ripugnante e non pronuncia […] nei confronti  della sua tirannide una esplicita e diretta condanna storica. Inserita nello sfondo della “Seinsgeschichte”la fenomenologia heideggeriana della decadenza accomuna il nazismo alle altre tendenze dominanti dell’epoca presente per l’incapacità di corrispondere al sentimento abissale  della necessità (“Not”), di preparare il salto nel futuro, di portarsi cioè nella decisione estrema.

Ma, considerata in una simile prospettiva epocale, la condanna del nazismo sembra perdere gran parte della sua immediatezza: il nazismo, in altri termini, non viene condannato o rifiutato perché PEGGIORE rispetto agli altri movimenti storici del proprio tempo, ma semplicemente perché non si distingue sostanzialmente da essi; perché, in fondo, non costituisce qualcosa di effettivamente DIVERSO.

2) Proprio a questo livello sembra emergere qualcosa di ancora più profondo che ha a che fare con la tentazione di un’interpretazione strettamente “destinale” o “istoriale” del pensiero heideggeriano. L’epoca presente, dominata dalla “Machenschaft”, di cui anche il nazismo è parte, non è, secondo quanto già visto, che un modo necessario del darsi storico dell’essere. […] L’esperienza dell’espropriazione che caratterizza l’età contemporanea rientra, in altri termini, nella storia stessa dell’essere. La “Machenschaft” è cioè un modo determinato - niente affatto casuale - della “Wesung” dell’essere.

Ci si troverebbe così di fronte, almeno in apparenza, ad una strategia di rassicuramento di secondo grado. Non solo il nazismo non è peggiore rispetto alle altre componenti della “Machenschaft”, ma l’intrigo stesso nel suo complesso si trova ad essere in qualche modo legittimato in quanto necessità epocale: la storia dell’essere in questo caso finirebbe per giustificare implicitamente l’esistente  anche dal punto di vista politico.

3) Anche là dove sembra prendere in qualche modo congedo dal nazismo, Heidegger non sembra mai veramente distaccarsi da quel “milieu” ideologico e culturale che va sotto il nome di “modernismo reazionario” e di “rivoluzione conservatrice”: una critica generalizzata allo sradicamento e smarrimento della storicità determinati dall’avvento del liberalismo e tecnicismo, che tuttavia non sembra eccedere i limiti di un richiamo quasi nostalgico ai valori della terra, del suolo e della tradizione (il romanticismo agrario denunciato da Adorno). Allo stesso modo, l’appello alla rivoluzione, che sorprendentemente compare nei “Gundfrage der Philosphie” parallelamente alla stesura  dei “Beträge”, sembra quasi configurarsi come un tentativo di ribellarsi al mondo della sicurezza borghese, al livellamento imperante nell’epoca presente,  senza tuttavia che il cambiamento risulti tale da compromettere le prerogative e i privilegi già posseduti.

Almeno in apparenza, negli stessi “Beiträge” Heidegger sembra voler rinunciare a qualsiasi volontà di trasformazione e ad ogni forma di prassi […]

Tutte e tre queste riserve si reggono in definitiva su un’interpretazione di tipo fortemente “storicistico”, se non “fatalistico”, che si spinge con ogni probabilità più in là delle stesse intenzioni heideggeriane.

È senz’altro vero che il tratto essenziale del pensiero riguardante la storia dell’essere (rispetto, per esempio, a quanto sostenuto da Heidegger in “Essere e tempo”) consiste nel riconoscimento del ritrarsi dell’essere come carattere strutturale della sua verità e del suo essenziarsi. Il fatto che l’essere si occulti a vantaggio del tempo e venga conseguentemente obliato da parte dell’uomo, non è in altri termini un errore imputabile alla metafisica  occidentale. Ma ciò non significa, dalla parte opposta, che la metafisica non abbia un suo limite specifico da tentare di superare in direzione dell’altro inizio: in caso contrario, la stessa esigenza di un diverso cominciamento, così spesso rivendicata da Heidegger a partire proprio dai “Beiträge”, non avrebbe alcun senso. L’errore, per così dire, della metafisica consiste allora per Heidegger - come già detto - nell’oblio dell’oblio, nell’incapacità di scorgere nella totalità dell’essere l’essere nel suo ritrarsi, nel suo obliarsi; di riconoscere […] la necessità della mancanza di necessità, che segue al tempo stesso l’emancipazione dell’ente (il suo pervenire alla manifestatività e affermarsi come unico essente) e l’occultamento dell’essere (il suo darsi nel modo del rifiuto, che lascia venire l’ente alla presenza). Solo nel riconoscimento della necessità dell’oblio dell’essere (ciò che per l’appunto si oppone all’oblio dell’oblio, tipico della metafisica e del’età della tecnica) si apre lo spazio per la decisione per un pensiero adeguato alla “Wesung” dell’essere come oscillazione di “Ereignis” ed “Enteignis”.  […] L’errore storico di liberalismo e nazismo è per Heidegger essenzialmente quello […] di chiudere gli occhi di fronte al carattere essenziale della propria epoca: il possibile superamento del nichilismo, come già visto, consiste principalmente nella presa di consapevolezza della sua necessità.

Il riconoscimento delle specifiche modalità storiche del darsi dell’essere non sembra dunque in definitiva, per Heidegger, esaurirsi nell’accettazione dell’esistente, ma fonda anzi le condizioni del superamento. Non a caso, così come nella “Grundfrage der Philosophie” Heidegger richiama la necessità della rivoluzione, anche i “Beiträge” dedicano ampio spazio al ruolo dei “venturi” (Zukünftigen), di coloro cioè che già nell’epoca presente, sulla base della loro decisione per la verità dell’essere, preparano l’altro inizio del pensiero e l’avvento dell’ultimo Dio.

Come occorre forse precisare, i “venturi” non sono qui, a differenza di quanto l’Heidegger del ’33 lasciava intendere, né condottieri né uomini di stato, ma essenzialmente pensatori e poeti. E questo rimane forse il limite ultimo della dimensione politica del pensare heideggeriano nei “Beiträge”. La risposta alle delusioni del Rettorato è il ripiego sempre più marcato in una forma di elitarismo spirituale, in quella aristocrazia dello spirito a cui Heidegger faceva riferimento già nel corso su Aristotele del 1931 e che si ritrova nelle pagine iniziali  del corso del 1936 su Schelling: non alla politica appartiene il destino, ma unicamente allo spirito (“Der Geist ist das Schicksal und Schicksal ist der Geist”).»

 

La Strummiello, dunque, se “assolve”, almeno parzialmente, Heidegger dalle accuse tradizionali sul terreno politico quale fiancheggiatore o, quanto meno, quale connivente spettatore del nazismo, gli rimprovera però un elitarismo spirituale e un aristocratico ripiegamento dalla sfera della prassi a quella del pensiero: giudizio che se non misconosce l’ansia di cambiamento e di rinnovamento del filosofo tedesco, che non si adagia affatto nella passiva accettazione dell’esistente, gli rimprovera  però di delegare a pensatori e poeti il compito di realizzare quel cambiamento e quel rinnovamento; cosa, evidentemente, secondo lei sbagliata e velleitaria.

Che poi un tale giudizio finisca per ricalcare proprio la critica tradizionale che ella ha bene esposto al terzo punto della sua riflessione, ossia non differenziarsi il pensiero di Heidegger da quello degli altri esponenti della “rivoluzione conservatrice”, pare non se ne accorga; così come pare non accorgersi della vacuità di un tale giudizio, che presuppone una condanna in blocco, universalmente approvata e ratificata, della “rivoluzione conservatrice” e una sua riduzione a fenomeno collaterale e secondario rispetto al nazismo: mentre questo non è che il giudizio di una parte ideologica, quella marxista, tanto frettoloso quanto discutibile e tutto da verificare sul terreno speculativo. Certo non è sufficiente che Adorno o altri esponenti della Scuola di Francoforte abbiano bollato quel complesso e interessante movimento come “romanticismo agrario”, per autorizzarci a tirare un rigo irrevocabile su di esso.

Così pure, non è sufficiente che Marx abbia proclamato che è finito il tempo in cui la filosofia interpreta il mondo e deve iniziare quello in cui la filosofia lo cambia, per bollare di ripiegamento aristocratico e di elitarismo spirituale l’ultima parola di Heidegger sul nesso tra pensiero e società (la quale comprende l’agire politico, ma non si riduce ad esso); può darsi, infatti, che qui il filosofo tedesco, pur mostrando meno fiducia nella praxis, sia stato più acuto e lungimirante di quando, da giovane, pensava ancora che il compito di cambiare il mondo spettasse ai condottieri e agli uomini di stato.

Ma veniamo al nocciolo della questione, che la Strummiello ha il merito di aver ben messo a fuoco: è legittima, è storicamente sostenibile l’accusa rivolta a Heidegger di aver fiancheggiato il nazismo, sia pure per un breve periodo; e ciò non tanto nella esperienza del Rettorato universitario di Friburgo, quanto nella sostanza del suo pensiero filosofico? Infatti, non ci interessa più di tanto sapere fino a che punto Heidegger, come uomo, si sia compromesso col nazismo: perché moltissimi Tedeschi si compromisero, al punto di mandarlo legalmente al potere; e perché, almeno fino alla “notte dei lunghi coltelli”, i Tedeschi non erano tenuti a riconoscere il carattere criminale di quel regime; mentre i Russi, per esempio, dovevano aver perfettamente compreso il carattere criminale dello stalinismo ben prima delle “purghe”, almeno fin dall’epoca della collettivizzazione forzata delle campagne e dello sterminio dei kulaki. Siamo onesti: sarebbe ragionevole inquisire fino a che punto si compromisero col fascismo tutti quegli impiegati pubblici e quei professori italiani che, per non rovinarsi la carriera, giurarono fedeltà al regime?

Nel caso del nazismo, però - si dice - il carattere criminale e ripugnante di quel regime avrebbe dovuto essere evidente fin dall’inizio, tanto più ad un uomo della cultura e dell’intelligenza di Heidegger. Ma quando si ragiona in questo modo, di solito si ha in mente il genocidio degli Ebrei e degli Zingari: cose che avvennero a partire dal 1941, in piena seconda guerra mondiale e quando il regime si avviava già al tracollo (dopo la sconfitta nella battaglia invernale davanti a Mosca), ma che erano di là da venire nel 1933 e che ben pochi avrebbero immaginato. Eppure, si obietta, Hitler nel “Mein Kampf” era stato esplicito. È vero, almeno fino ad un certo punto (non vi si parla né di sterminare gli Ebrei, né di conquistare l’Europa): ma era proprio così evidente che non si trattava di retorica e di propaganda, ma di un programma destinato ad essere integralmente applicato? Se si dovesse prendere alla lettera quel che dicono tutti i demagoghi della politica, anche ai nostri giorni, prima di andare al potere e, anzi, quando sono a capo di minuscoli movimenti settari, allora bisognerebbe mettere preventivamente in quarantena un sacco di gente e, in pratica, sopprimere la normale dialettica democratica. Un movimento politico democraticamente eletto ha diritto di essere messo alla prova non sulla base di quel che i suoi capi strombazzano nel fuoco della campagna elettorale, ma in base a ciò che essi fanno dopo essere giunti al potere.

Tornando a Heidegger, quel che ci preme è vedere se, nel suo pensiero filosofico, vi siano degli elementi che possano obiettivamente far pensare a una convergenza fra esso e la Weltanschauung nazista. E tutto quel che ci sembra si possa trovare è che il nazismo, per Heidegger, come il liberalismo, cui pure si opponeva, non possedeva la lucidità necessaria per ammettere la necessità del nichilismo e l’impossibilità di superarlo senza accettarne la logica conseguenza, l’oblio dell’essere e della metafisica.

Non è molto per sostenere un’accusa di cripto-nazismo, tanto più che la si dovrebbe estendere a tutte le filosofie storicistiche nei confronti di tutti i regimi, democratici o totalitari, che le hanno cronologicamente accompagnate: in questo senso, Spengler non sarebbe meno “nazista” di quanto Croce dovrebbe essere considerato “fascista”, perché - Hegel docet, e Marx nella sua scia - quel che conta, per lo storicismo, idealista o materialista che sia, è la “necessità” dell’esistente, mediante l’assunzione della sua “razionalità” come categoria fondamentale. (si pensi solo alla “necessità” della rivoluzione comunista mondiale per il marxismo).

E qui non si può non tornare a Nietzsche, al suo guardare nell’abisso, al suo voler trarre tutte le conseguenze dalla morte di Dio, nichilsmo “in primis”; al suo vitalismo integrale, culminante nel mito dell’eterno ritorno («Dunque è questa la vita? Ebbene, allora ancora, e ancora, e ancora!»), nonché al suo “vivere pericolosamente” e al suo romanticismo del “tramonto” (ripreso da Spengler fin nel titolo del suo capolavoro): perché il “tramonto” di Zarathustra è l’assunzione coerente e rigorosa della necessità del nichilismo in un mondo senza più Dio, ma è anche la divagazione letteraria (anzi, filologica) di un romanticismo fuori tempo massimo, che vede la vita non come dialettica di forze operanti in base a un principio di libertà, ma come il fatale inverarsi di un oscuro destino già scritto da qualche parte, e perciò di un tramonto inevitabile, nel cui bagliore corrusco l’uomo può solo “decidere” ciò che la Vita ha deciso; può solo ”decidere” di essere l’uomo del tramonto, oppure un fallito brancolante nel nulla.

Questo vitalismo esasperato, questo romanticismo wagneriano da “Crepuscolo degli dei” è il vero limite, secondo noi, dello storicismo heideggeriano, in cui l’accettazione dell’esistente non è che la versione drammatica e roboante del più pacato e professorale «tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale» di Croce.

Quanto all’aver riposto ogni speranza nei poeti, in piena età della tecnica, ebbene questo a noi pare non già il limite, ma il vero colpo d’ala della filosofia della storia heideggeriana, che la riscatta da molti altri difetti e incongruenze…