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No justice no peace: questa è la risposta al potere

di Marco Bascetta - 15/11/2012

Fonte: glialtrionline


Il 29 aprile 1992, giusto vent’anni fa, il tribunale di Simi Valley (30 chilometri a Nordovest di Los Angeles) assolveva quattro poliziotti accusati dell’arbitrario pestaggio di un automobilista nero: Rodney King. E’ l’inizio di una rivolta che sconvolgerà per 4 giorni la metropoli californiana coinvolgendo decine di migliaia di persone, prevalentemente neri: incendi, saccheggi, assalti ai commissariati di polizia, migliaia di arresti. La colonna sonora fu il rap, il testo recitava no justice, no peace. Sono anniversari, questi, che i media non celebrano volentieri. E tuttavia, quei fatti e quelle parole meritano di essere ricordati con attenzione. Quella ruvida sequenza di causa ed effetto non riguardava la rivendicazione di generali diritti civili, ma reagiva a una violenza che si pretendeva legittima e ingiudicabile, a un rapporto di forze che non lasciava dubbi su chi comandasse e chi dovesse piegare la testa, per rivolgersi poi immediatamente contro l’ordine della proprietà (pubblica o privata poco importa) e l’altrettanto chiaro discrimine tra chi può possedere e chi no.

Non per sovvertirlo, certamente, ma per sospenderne almeno momentaneamente la vigenza e dimostrarne implicitamente la fragilità. L’arbitrio di polizia e la sua legittimazione giudiziaria mettono insomma in scena non tanto una legge ingiusta quanto una intera condizione di vita che comprende discriminazione economica e discriminazione sociale. E non è un caso che le ritroveremo, la violenza poliziesca e la compiacenza giudiziaria, all’origine di innumerevoli rivolte metropolitane nel corso degli ultimi decenni dalle banlieus francesi ad Atene (l’uccisione di Alexandros Grigoropulos, anarchico appena quindicenne nel dicembre 2008). Con la sorprendente eccezione dell’Italia dove pure l’arbitrio di polizia, spesso con tragiche conseguenze, non è certo un’evenienza rara. A gridare no justice, no peace nei quartieri di Los Angeles vent’anni fa non erano certo i lettori di John Rawls, né i banlieusards appassionati seguaci di Rousseau. Non era, insomma, una idea di giustizia a muoverli, ma l’esperienza dell’ingiustizia. E l’esperienza dell’ingiustizia altro non è che una intera condizione di vita, risultante di poteri e rapporti sociali sui quali non esercitiamo sostanzialmente alcun controllo. E’ la compressione discriminatoria di desideri e libertà sedimentata nel vissuto quotidiano. Alla quale nessuna teoria astratta della giustizia e nessun dettato costituzionale sanno dare risposta e neanche semplicemente ascolto.

No peace è dunque la misura adottata, individualmente e collettivamente, perché l’esperienza dell’ingiustizia non si cristallizzi in una normalità indiscussa o peggio in una seconda natura. E’un limite posto a ogni esercizio di potere e a ogni prescrizione normativa. Un limite, non un programma. Non si tratta di una dichiarazione di guerra (che implicherebbe organizzazione e obiettivi strategici) ma piuttosto di una sospensione della pace che ne rivela la velenosa ipocrisia e la intrinseca precarietà. Tutto questo non dovrebbe essere dimenticato oggi quando si discetta, con superficialità senza pari, su violenza e non violenza, dimenticando quanto vi è di più ovvio e cioè che la violenza è una relazione e non una attività onanistica o una inclinazione lombrosiana, almeno nella grande maggioranza dei casi. Non sta nei programmi di questo o quell’improbabile partito armato (motivato del resto, anche il più truce, da una qualche idea di giustizia), ma nelle cose o nei rapporti sociali e personali che ci si presentano come cose, come impossibilità e come negazione. Non è una novità, ma purtroppo a questo proposito il mondo si è rinnovato assai poco. I poteri consolidati e vincenti, i creditori della vita di intere popolazioni continuano a non cedere un briciolo di terreno se nulla li minaccia. E allora, se l’esperienza ci ha convinto sufficientemente che non sarà l’argomentazione razionale o il disegno della provvidenza a piegarli, la domanda non sta nell’alternativa tra violenza e non violenza (insensata, del resto, fuori dal contesto sociale o dalla disputa metafisica), ma riguarda quale minaccia si rivelerà più efficace nel costringerli ad arretrare.

No peace può avere molti significati diversi, non tutti digeribili. Dal tumulto, alla microcriminalità metropolitana, all’astensione elettorale, al gesto disperato del singolo, autolesionista o aggressivo che sia. Ma se non vogliamo precipitare verso le sue declinazioni peggiori toccherà a una qualche politica indicare come rompere nel modo più produttivo una pace vissuta come esperienza dell’ingiustizia e modificare i rapporti di forze che la sorreggono. Altrimenti non resterà che l’applauso liberatorio che inevitabilmente conclude le tre ore di angoscia inflitteci dal Dogville di Lars von Trier, quando finalmente il gangster sterminerà senza pietà l’immonda comunità puritana presso la quale sua figlia aveva cercato rifugio trovandovi violenza e schiavitù e scoprendo che un altro incubo è possibile. Con la soddisfatta partecipazione di lei.