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La Birmania sta ingannando il mondo sulla finta pace

di Fabio Polese - 17/11/2012

Fonte: fabiopolese


Tra le montagne e la fitta vegetazione nella giungla della Birmania Orientale, al confine con la Thailandia, vive il popolo Karen, che dal 1949 è in guerra per la propria sopravvivenza fisica e culturale. I nemici, quelli che vogliono la loro estinzione, erano e sono i militari del regime di Rangoon, ora governato da Thein Sein, ex generale dell’esercito del Paese con diversi scheletri nell’armadio per quanto riguarda la violazione dei diritti umani. Gran parte dei media internazionali hanno parlato di un “cessate il fuoco” firmato nel gennaio scorso tra l’etnia Karen e il Governo centrale, ma la realtà è ben diversa e la prospettiva di una pacificazione definitiva sembra ancora molto lontana. «È solo una mossa propagandistica ed economica per convincere l’opinione pubblica mondiale che qui c’è la pace ed un cessate il fuoco, ma è tutta una finzione». A parlare è Nerdah Mya, colonnello dell’Esercito di liberazione Karen (Knla), figlio del generale Bo Mya, leggendario leader della lotta armata contro il regime birmano. «Nello Stato Karen ci sono circa 370 postazioni militari birmane; questi avamposti devono essere rimossi, altrimenti noi non potremo mai credergli. I birmani possono pure prendere in giro il mondo dicendo che qui c’è la pace, ma fino a quando loro manterranno i campi militari, noi non ci crederemo. Noi dobbiamo tenerli fuori dalla nostra area». Intanto però, mentre Barack Obama ha annunciato la visita in Birmania entro la fine mese, la prima uscita ufficiale dopo il suo nuovo mandato, decine e decine di multinazionali, chiudendo gli occhi su quello che realmente sta accadendo nel Paese del presunto cambiamento, stanno facendo a gara per appropriarsi commesse milionarie. Alimentando così la reazione di buona parte della leadership Karen, contraria allo sfruttamento selvaggio del territorio su cui il popolo Karen vive da 2700 anni.

Per quale motivo i Karen combattono contro il governo birmano da più di sessanta anni?

Noi combattiamo per ottenere la nostra libertà, per preservare la nostra identità e per ottenere l’autodeterminazione.

L’opinione pubblica internazionale dice che c’è un cessate il fuoco nella regione Karen. Perchè i suoi uomini sono ancora armati e pattugliano la zona in assetto da combattimento?

Il cessate il fuoco è solo apparente, non è un vero cessate il fuoco, è una finzione. Noi all’interno della nostra regione dobbiamo essere ancora armati e dobbiamo proteggere la nostra gente dai possibili attacchi dell’esercito. Gli abitanti dei villaggi sono spaventati nel vedere che ci sono in giro i soldati birmani.

Lei quindi non crede ai birmani quando parlano di pace?

Noi non crediamo ai birmani quando loro dicono che non vogliono far del male al popolo Karen perchè la nostra esperienza è sempre stata diversa. Noi non crediamo a loro perchè non possiamo credere alla gente quando ci dice che le tigri sono vegetariane. Sappiamo bene che le tigri non sono vegetariane.

Cosa accadrebbe nel caso in cui l’esercito birmano dovesse entrare nei territori che lei controlla?

Dovremmo combattere e cacciarli fuori dalla nostra area. Vogliono controllare più territorio possibile, mentre quello che vogliamo noi è che la nostra terra ci venga restituita. Loro sono gli intrusi e noi siamo i difensori.

Quindi gli abitanti di questi villaggi dipendono dall’Esercito di Liberazione Karen?

In un certo senso si. Loro sono qui grazie alla nostra presenza. Se noi non fossimo qui le famiglie dei villaggi non potrebbero vivere in questo territorio. Noi siamo i loro protettori.

Cosa state facendo per sviluppare questa regione?

I nostri villaggi, grazie all’aiuto degli amici italiani della Onlus Popoli, hanno scuole e cliniche mediche. In questo distretto (Dooplaya, ndr) abbiamo recentemente ricostruito tre villaggi che erano stati distrutti dai birmani. Guardate ad esempio la piantagione di caffè che sta alle mie spalle: nel 2010 siamo arrivati qui con un team di Popoli e abbiamo trovato soltanto i resti di un villaggio e campi abbandonati. Ora queste piante di caffè, come i campi di riso tutti intorno, dimostrano che il progetto, che punta all’autosufficienza alimentare per la nostra gente, sta funzionando.