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Che fatica decrescere!

di Stefania Di Gangi - 10/04/2013


 

 

In questo articolo vorrei riflettere su quali possano essere le basi per creare una società basata sulla decrescita. Aldilà delle utopie, vorrei proporre alcune misure che penso sia necessario adottare affinché la decrescita venga percepita come una normale integrazione dell’individuo  al cambiamento sociale, piuttosto che come un’imposizione forzata legata alla crisi economica e/o a cambiamenti politici.

Partirei dagli effetti benefici, ampiamente condivisi, che la decrescita apporta alla società: cooperazione e solidarietà, convivialità, valorizzazione del tempo libero e dello sviluppo personale, miglior benessere, nonché  medicina che prediliga, dove possibile, terapie basate sul cambiamento degli stili di vita piuttosto che sull’uso dei farmaci e aggiungerei, medicina che guardi al paziente come persona e non come malato.

Rifletto però che tali effetti benefici siano di fatto dei presupposti per la decrescita. Infatti  relazioni di equilibrio ecologico fra l’uomo e la natura, nonché di equità fra gli esseri umani stessi richiedano un cambiamento culturale basato appunto sulla cooperazione, sulla convivialità…

A pensarci bene, diversi elementi ostano la decrescita. Infatti, mi chiedo:

-        Come è possibile cooperare ed essere solidali in un sistema competitivo e capitalista?

-        Come è possibile essere conviviali se spesso negli ambienti di lavoro mancano degli spazi comuni dove ritrovarsi, durante le pause per consumare e/o condividere cibi preparati in casa?

-        Come è possibile trovare un buon bilanciamento tra lavoro e tempo libero se il precariato e la paura di perdere il posto di lavoro ci costringono a subordinare il nostro tempo e la nostra vita privata alle esigenze dell’azienda?

-        Come possiamo pensare al benessere e non al ben-avere se la nostra cultura e il nostro sistema sono imperniati sul possesso e sulla proprietà privata?

-        Come possiamo prediligere il cambiamento di uno stile di vita ai farmaci in mancanza di informazione trasparente sugli effetti dannosi dei farmaci? Come può un medico proporre al paziente un cambiamento dello stile di vita invece che la somministrazione di un farmaco, in presenza di pressioni da parte dei pazienti stessi o da parte delle case farmaceutiche?

-        Come può un medico curare la persona e non la malattia quando le diagnosi si basano su dati numerici, esiti di esami clinici e non sull’ascolto del paziente e della sua storia di malessere?

Pertanto affinché la decrescita non sia pura utopia, occorre un cambiamento radicale. Molte persone, ragionevolmente, alla luce degli interrogativi precedenti potrebbero dichiararsi scettiche alla decrescita. Altre potrebbero dimostrare apparente interesse, che poi svanisce con l’autoconvinzione e la rinuncia “vorrei, ma non posso”. La situazione è analoga alla posizione sul volontariato: nessuno è contrario, ma solo alcuni lo sostengono.

Aldilà delle chiacchiere e dei buoni propositi, vorrei dare alcuni suggerimenti riguardo ad alcune proposte che potrebbero porre le basi per una società della decrescita.

Riguardo al primo interrogativo, penso che una cultura solidale e cooperativa debba essere insegnata sin dall’infanzia. L’insegnamento cattolico e la pura esaltazione alla fratellanza, all’uguaglianza e alla solidarietà sono ipocrisia se non accompagnate da usi e consuetudini. Come si può favorire una società collaborativa e partecipativa se fin da piccoli i bambini crescono in un ambiente competitivo che li valuta solo per mezzo delle votazioni scolastiche conseguite e non per le loro capacità di apprendimento, per la loro creatività e per il loro potenziale?

Pertanto un passo avanti verso la decrescita potrebbe essere quello di eliminare i voti scolastici,

Il voto scolastico infatti induce all’accumulo dei punti anziché all’acquisizione e alla condivisione di conoscenze: i bambini (o i ragazzi alla scuola dell’obbligo) studiano per i voti e non per imparare qualcosa. Di fatto è come un capitalismo che porta all’ossessione del risultato “monetario” piuttosto che al percorso di accrescimento, valorizzazione e, se vogliamo, benessere individuale. Così come PIL elevato non vuol dire elevato benessere, allora neanche voto elevato significa necessariamente intelligenza, creatività. Pertanto, se lo studente non venisse fin da bambino stressato a portare a casa dei risultati, anziché a padroneggiare e condividere le conoscenze, potrebbe mirare a “far meglio” anziché a“far di più”.

Riguardo al secondo interrogativo, proporrei alle aziende private e pubbliche, di istituire ciò che all’estero chiamano “common rooms”, ossia degli spazi, dotati di salotto, cucina, frigorifero, TV, libri dove persone dello stesso ufficio o di uffici diversi possono ritrovarsi, nelle pause, per consumare e condividere il cibo preparato in casa. In tal modo non si obbligano i lavoratori a dover uscire dall’ufficio e consumare giornalmente cibi preparati in locali pubblici, spesso di fretta, per paura di non riuscire a rientrare in tempo in ufficio. Certo, si potrebbe obiettare che i locali non ne trarrebbero beneficio, ma il lavoratore potrebbe beneficiarne in salute, grazie ad uno stile  di vita migliore e in relazioni sociali. In alternativa i locali limitrofi all’azienda, potrebbero direttamente proporsi di offrire tale servizio.

La soluzione al terzo quesito è quella che più dipende dalla regolamentazione pubblica. Infatti il lavoratore, per quanto possa dare importanza ai propri hobbies, è indotto a rinunciarvi se esigenze di lavoro lo richiedono, poiché ha faticato molto a trovare tale impiego e difficilmente potrebbe trovarne un altro se lo perdesse. Pertanto, affinché si possa bilanciare tempo libero e lavoro, occorre una certa stabilità lavorativa o altrimenti una flessibilità lavorativa che giovi al lavoratore, senza però svantaggiare il datore di lavoro (ad esempio consentire, quando possibile, il telelavoro). Anche in questo caso, ci sarebbero miglioramenti sulla qualità di vita, sul benessere e la salute del lavoratore (meno stress legato ai trasporti …) ma anche sulla qualità del lavoro, grazie alla miglior produttività del lavoratore.

Molti sono gli esempi che ci fanno capire quanto la società sia basata sul possesso delle cose anziché sull’esperienza umana e, di conseguenza, sul ben-avere anziché benessere. I genitori si preoccupano di più se il figlio non ha buone votazioni piuttosto che se non è ben integrato e non sta bene in classe. Ci si preoccupa di avere un buon curriculum, piuttosto che di essere dei professionisti. Per un posto di lavoro si viene selezionati per l’immagine che si ha piuttosto che per come si è. Durante il colloquio di lavoro spesso non vengono poste domande tecniche del tipo: “se lei avesse questo problema, come lo risolverebbe?”, ma piuttosto si chiede “perché ha cambiato città o lavoro?”. E, infine, l’atteggiamento di possedere il proprio corpo anziché essere il proprio corpo, in maniera tale da spingersi ad affidarlo completamente nelle mani di chi può ripararlo, quando sta male. E da qui si spiega il business delle case farmaceutiche. Quindi il quarto e il quinto interrogativo richiedono un complesso cambiamento culturale e in più, per il quinto quesito, anche una regolamentazione pubblica che vieti l’abuso dei farmaci e la mancanza di informazione trasparente sui loro effetti collaterali.

L’ultimo punto richiede un diverso approccio di cura, basato sull’ascolto o sulla narrazione della storia del paziente, che implica la valutazione dell’individuo per la persona che è nel complesso e non per i sintomi e la patologia che ha. La soluzione può essere data dalla cosiddetta Medicina Narrativa (http://www.iss.it/medi/chis/cont.php?id=79&lang=1&tipo=10) che, come studi dimostrano, migliora il rapporto tra medico e paziente e forse potrebbe indirizzare sia il medico che il paziente verso la soluzione che spesso è la migliore per risolvere un problema di salute: cambiare stile di vita piuttosto che assumere farmaci.

E se la malattia fosse dovuta proprio alla crescita?