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Maschera e volto della politica italiana

di Fabio Falchi - 01/05/2013


MASCHERA E VOLTO DELLA POLITICA ITALIANA

Il ciclo politico iniziatosi con l’”operazione colorata” Mani Pulite si sta per compiere con un colpo di scena più apparente che reale, ovvero con il Governo del Presidente, garante degli interessi dei “mercati” e vera manina d’oltreoceano in versione tricolore, che ha benedetto l’alleanza tra Berlusconi – il “nano malefico” che voleva distruggere l’Europa, secondo l’”Economist” (il settimanale preferito dai “centro-sinistri” che considerano “populista” chiunque non riesca a guadagnare almeno 10000 euro al mese), e che “rappresenta”, in particolare, i propri interessi e quelli dei suoi compagni (e “compagne”) di merende – e Bersani, un politico di seconda categoria, “rappresentante” degli interessi del ceto medio “semicolto”, ma soprattutto di quelli della grande industria (decotta) e della finanza (fellona) tricolori, anche se probabilmente non li “rappresenta” bene come il suo rivale, il “giovane” sindaco di Firenze, quel Renzi che come Nanni Moretti pare sia sempre sul punto di affogare in un barattolo di nutella. Eppure si tratta solo del finale di una commedia dell’assurdo per il “popolo bue”, che evidentemente, dopo oltre vent’anni di teatrino politico di infimo ordine, lo si ritiene talmente rincitrullito da poter fargli ingoiare qualsiasi rospo. Infatti, quel che in realtà sta accadendo (perché in politica, se non sempre, quasi sempre l’apparenza inganna) è non opposto a quel che appare, ma un po’ più complesso di che quel che appare, giacché è l’intero che conta, se si vuol comprendere il senso delle singole parti).

 

Non vogliamo certo sostenere che l’analisi della situazione in cui si trova il nostro Paese non debba tener conto della suddetta “operazione colorata” che diede origine ad uno nuovo corso politico, “simbolo” del quale si può considerare il noto incontro tra “gentiluomini” (o se si preferisce, il gentlemen’s agreement) a bordo del panfilo Britannia, il 2 giugno 1992. Nondimeno, si deve tener presente che se i mezzi di cui si sono avvalsi e si avvalgano gli strateghi dei centri egemonici euroatlantisti (notare il plurale) sono stati e sono gli “agenti” che rappresentano i diversi gruppi d’interesse “indigeni”, tali “attori politici” (da Berlusconi a D’Alema, da Amato a Prodi e così via), anche se ben remunerati per i loro “servigi”, sono solo “strumenti”(spesso perfino inconsapevoli, esattamente come i gazzettieri al soldo dei diversi gruppi d’interesse in lotta tra di loro) di strategie geopolitiche il cui scopo non lo si deve certo confondere con i mezzi che si usano per raggiungerlo. Non ci vuole molto allora per capire qual è il “fine reale” che tali centri egemonici perseguono con tenacia e coerenza almeno dagli anni Settanta, ma che solo le “mani pulite” della magistratura italiana hanno reso assai meno difficile conseguire. Vediamo brevemente perché.

 

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L’Italia, nel secondo dopoguerra – vuoi per il ruolo di una solida e dinamica impresa pubblica, soprattutto nei settori strategici (Eni, Iri etc.), vuoi per una miriade di intraprendenti piccole e medie imprese, diffuse a macchia di leopardo in buona parte del territorio nazionale, vuoi per la presenza della Chiesa cattolica e di un forte partito comunista, assai ben organizzato e ben radicato nella struttura sociale- era uno Stato a sovranità limitata, ma con caratteristiche tali da renderlo “anomalo” rispetto agli altri Stati occidentali (ossia non conforme alla regola generale, alla norma, alla struttura tipica dell’Occidente), e da permettere alla classe dirigente italiana, o meglio ad alcuni membri di essa, di avere un certa libertà di manovra, anche a livello internazionale. Il tutto reso in qualche modo ancora più significativo dal fatto che la società italiana, pur conoscendo un massiccio fenomeno di migrazione interna negli anni Cinquanta e Sessanta (specialmente dal Sud al Nord, verso il triangolo industriale i cui vertici erano Torino Milano e Genova), era ancora contraddistinta da principi e valori di una cultura plurisecolare (e ancora legata al mondo contadino), e dal fatto che la grande industria a gestione pubblica coesisteva con un capitalismo di tipo sostanzialmente familiare e borghese, ossia con poche grande aziende private (benché assai diverse per quanto concerne il modo di intendere la funzione sociale del capitale, sì che non è un caso che oggi sia ancora presente la Fiat, ma non l’Olivetti). Un capitalismo pertanto differente da quello basato sui funzionari del capitale (e che era presente già da tempo in Occidente), dato che la particolare formazione sociale italiana comportava appunto che la maggior parte dei manager fossero al servizio non tanto del capitale quanto dello Stato, inteso come insieme di apparati coercitivi e ideologici (non necessariamente in senso negativo), in grado di svolgere una funzione pubblica e strategica nettamente distinta da (benché, lo si deve riconoscere, non necessariamente contrapposta a) quella di interessi privati, nazionali o stranieri. Una differenza non da poco sia sul piano politico che su quello economico (Enrico Mattei docet).

 

D’altronde, a partire dagli anni Settanta, con la fine del Gold Standard, il capitalismo occidentale dovendo far fronte alla crisi geopolitica del centro regolatore mondiale del capitalismo, cioè gli Stati Uniti, seppe reagire con una innovazione strategica (che traeva profitto dalla “rivoluzione tecnologica” nel campo dell’elettronica e in quello dell’informatica), incentrata sulla ridefinizione della potenza statunitense in chiave non solo politico-militare, ma anche in chiave finanziaria, e che doveva obbligare, nel giro di pochi anni, i singoli Stati a dipendere dalle decisioni del “mercato”, sfruttando in primo luogo le “disfunzioni” del Welfare State (clientelismo, assistenzialismo, inefficienza etc.), non allo scopo di “curarlo” ma di liquidarlo definitivamente. Un mutamento quindi che non avrebbe potuto non avere “pesanti” conseguenze per la struttura sociale ed economica italiana, qualora l’Italia non si fosse dotata rapidamente di una nuova “corazza” politico-economica, sfruttando quei margini di manovra di cui ancor godeva. Tuttavia, il sistema politico italiano già reso inefficiente dal diffondersi della corruzione e scosso dalla strategia della tensione, nonché dal terrorismo, rosso e nero, aveva enormi difficoltà a rinnovarsi. Tanto che fu il referendum sul divorzio a mostrare al Pci (che, convinto della necessità di un’alleanza con le masse popolari democristiane, temeva che tale referendum fosse un grave errore) che i tempi stavano cambiando anche in Italia e che il vento dell’Ovest avrebbe soffiato molto più forte, considerando pure le evidenti e non contingenti patologie che affliggevano il sistema sovietico. Cominciò così il lungo cammino del più grande e forte partito comunista occidentale verso Washington. Un percorso non “lineare”, né privo di difficoltà o di incertezze – sia per il caso Moro, sia per contrastare la politica del CAF (Craxi, Andreotti, Forlani), sia per non allarmare troppo la propria “base” – ma che venne a configurasi sempre più chiaramente come un passaggio  – accelerato ma non causato dal crollo dell’Unione Sovietica – dall’eurocomunismo all’euroatlantismo.

 

Ragion per cui, negli anni Ottanta, da un lato, venne completamente a mancare quella spinta ideale che negli anni precedenti, nonostante tutto, era ancora presente anche in certi ambienti politici, non solo di sinistra o cattolici, e a consolidarsi un regime partitocratico imperniato sul (già menzionato) CAF, ma pure sulla partecipazione alla gestione della “cosa pubblica” del Pci mentre continuava la sua ”lunga marcia” verso Ovest. Dall’altro, con la rinuncia al controllo politico del settore strategico nazionale e l’abbandono di un’idea di bene comune (e di giustizia sociale) condivisa da tutti gli strati della popolazione, in particolare dai ceti medio-bassi e popolari, si sancì il definitivo distacco di gran parte della intellighenzia italiana da ogni concezione socialista.  Un mutamento di “paradigma” politico-culturale favorito non poco dall’onda lunga del Sessantotto che spazzò via nel medesimo tempo la “vecchia” morale borghese e le strutture sociali e culturali ancora legate al mondo contadino – maunicamente al fine di “glorificare” una sorta di “fondamentalismo laico e liberista” (assai ben rappresentato dal quotidiano “La Repubblica”) che, in quanto “espressione” di un egualitarismo astratto e formale, “maschera” le reali e sostanziali diseguaglianze sociali ed economiche, promuovendo quella forma di individualismo, secondo cui lo Stato deve essere neutrale rispetto ai valori, mentre si deve lasciare che sia il “mercato” a decidere quali siano i valori fondanti di una società.

 

Si badi però che ciò non significa che non fosse necessario modernizzare il sistema sociale italiano; anzi è vero l’opposto, giacché la modernizzazione del sistema italiano era ormai inevitabile. Il problema era come modernizzare. Un problema che la classe politica di allora non si pose nemmeno, tranne qualche lodevole eccezione, essendo interessata a chi doveva modernizzare – allorché fu palese, soprattutto dopo il risultato del referendum sul divorzio, che si doveva modernizzare – ma non a come si doveva modernizzare. Epperò, non è assurdo ipotizzare che la necessità di modernizzare il sistema sociale italiano, avrebbe potuto anche dare origine ad un corso politico diverso da quello neoliberista, evitando di svellere quelle “radici culturali” che di fatto erano a fondamento del “particolare sviluppo” del nostro Paese – una questione tutt’altro che irrilevante come dimostra il “fallimento” politico, e non solo politico, di una Unione Europea che, privilegiando una “demenziale” ottica economicistica, non tiene neanche conto delle differenze tra l’area mediterranea e quella baltica). Comunque sia, è innegabile che – allorquando si attuava una ristrutturazione della megamacchina capitalistica occidentale tramite le politiche di deregolamentazione e di liberalizzazione del movimento dei capitali, che rendevano possibile ciò che si suole denominare – assai genericamente – mondializzazione o globalizzazione – “ignorando” il “soggetto (geo)politico che mondializza o globalizza) – la cultura politica italiana, anziché concentrarsi sulla funzione della politica della potenza capitalistica predominante e del conflitto (geo)politico, preferì rivolgere la propria attenzione alla “soggettività”, alla microfisica del potere, all’economia libidinale e così via (una “svolta” le cui coneguenze cominciano a vedersi solo oggi che la finanziarizzazione dell’economia mondiale sta rivelando il suo volto (geo)politico).

 

Non sorprende quindi che, proprio quando era necessario avere un “classe politica” capace di “giocare la carta” della ”peculiarità” del sistema italiano in un contesto geopolitico del tutto diverso da quello che aveva contrassegnato fino ad allora il secondo dopoguerra, con la vicenda di Mani Pulite si siano venute a creare le condizioni per poter smantellare la nostra unica macchina da guerra che – sebbene non fosse del tutto “gioiosa” e fosse pure da ammodernare – sarebbe stata indubbiamente in grado di difendere l’interesse generale se comandata da abili condottieri. Sicché, si può ritenere che, in un certo senso, la stessa “operazione colorata” Mani Pulite sia stata generata, per così dire, dalla “marcia delle cose” più che dalla volontà dei singoli attori (geo)politici (e con ciò si elimina pure, in radice, qualsiasi “complottismo” da bar dello sport), consentendo ai diversi gruppi politici “locali” (invero bande di mercenari al servizio di potentati stranieri tutti filo-atlantisti) di lottare tra di loro per aggiudicarsi l’“osso migliore”, mentre venivano gettate le fondamenta della nuova Nato e della nuova Unione Europea, (una ”ristrutturazione” assolutamente necessaria dopo il crollo del Muro e la riunificazione della Germania).

 

Facile dunque comprendere il “fine reale” dei centri egemonici atlantisti adesso che il loro disegno si è quasi completamente realizzato: se la Nato è il braccio violento della legge del “mercato occidentale” e l’Unione Europea, dopo l’introduzione dell’euro (anche allo scopo di saldare la Germania all’Atlantico), è uno zombie geopolitico alla mercé dei “mercati”, lo Stato italiano si è definitivamente (o quasi) trasformato (senza che nessuno dei diversi schieramenti in lotta tra di loro vi si sia mai opposto, al di là di alcuni giri di valzer con Putin e Gheddafi da parte del “nano” – in senso politico, s’intende – di Arcore) in un funzionario del capitale euroatlantista che deve svolgere bene i compiti (assai importanti, al contrario di quanto pensano parecchi italiani “ingenui”) assegnatigli dai “mercati”. D’altra parte, dovrebbe essere manifesto a chiunque che se negli anni Novanta il debito pubblico (cresciuto a dismisura dopo il divorzio tra Bankitalia e Tesoro) fu usato per (s)vendere il nostro settore strategico ai potentati stranieri, ancora una volta i “mercati” possono far leva sul debito pubblico per trarre il massimo profitto dalla situazione originatasi dopo lo tsunami finanziario del 2008 (e costato all’Italia, secondo lo stesso Draghi, il 5% del Pil). Il che per i centri egemonici euroatlantisti e i loro zelanti servitori (politici, gazzettieri e intellettuali) è “cosa buona e giusta”, ma non per quei “molti” ormai quasi del tutto privi di diritti sociali ed economici. Ma anche il teatrino della politica italiana, del resto, non può più nascondere il fatto che il berlusconismo e l’antiberlusconismo sono, in realtà, due “effetti di superficie” della medesima “struttura profonda”.

 

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Naturalmente vi sono molte altre questioni di cui si dovrebbe tener conto per spiegare il rapporto tra siffatta “struttura profonda” ed suoi “effetti di superficie”, passati e presenti. Lo scopo di questa breve nota, tuttavia, è solo quello di mostrare, sia pure a grande linee, alcune delle ragioni (geo)politiche, onde capire meglio la tendenza fondamentale della politica italiana adesso che il nostro Paese si trova nella morsa di una gravissima crisi economica (e la “pressione” dei “mercati” e dei loro “agenti” sui ceti medio-bassi e popolari ha raggiunto livelli intollerabili). Anche noi ci rendiamo però perfettamente conto che un’analisi approfondita non deve limitarsi ad alcune considerazioni a volo d’uccello su una fase storica così difficile e densa di eventi, alcuni dei quali perfino di portata epocale. Sotto questo punto di vista, di “lavoro” ve n’è certo ancora molto da fare, e a maggior ragione lo si deve fare per interpretare bene i “singoli particolari”. Ma non è tanto l’aspetto meramente storico che rileva e nemmeno (anche se può sembrare blasfemo considerando la crisi che colpisce milioni di italiani) quello meramente economico, quanto piuttosto evidenziare i lineamenti fondamentali della strategia di quei “centri di potenza” che hanno messo in ginocchio lo Stato italiano trasformandolo in un funzionario del capitale euroatlantista. Sarebbe dunque necessario liberarsi al più presto di schemi concettuali obsoleti e/o “politicamente corretti”, nonché di ogni forma di economicismo, marxista o liberista che sia, e ciò proprio per interpretare correttamente il rapporto tra il Politico – inteso come funzione strategica per “regolare” i conflitti tra (sub)dominanti o tra (sub)dominanti e “dominati” – e l’Economico (secondo la “lezione” di Gianfranco La Grassa, i cui scritti sono di gran lunga i migliori su questo delicato argomento). Vale a dire che è essenziale comprendere la funzione dello Stato alla luce della supremazia del Politico, giacché oggi più che mai la vera “posta in gioco” è la (ri)conquista dello Stato, se si vuole delineare una prospettiva opposta a quella dell’euroatlantismo, sia sotto il profilo (geo)politico che sotto quello culturale e socio-economico.