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La riabilitazione della sussistenza

di Fabio Parascandolo - 17/07/2013

Fonte: Ecologiapolitica

Per il senso comune propagandato dai mass-media la crisi economica che colpisce vari paesi europei e più in generale il periodo di affanno vissuto dall’economia globale sono passeggeri. Le classi dirigenti  già vedono “la luce in fondo al tunnel”, dove naturalmente ci attenderebbero le abituali promesse di crescita. Faremmo bene invece a prendere sul serio l’eventualità di trovarci di fronte a una vera e propria crisi sistemica, irrisolvibile nel quadro delle coordinate tecniche convenzionali. Segnali della fine di un ciclo di civilizzazione ci giungono da più direzioni. E’ ormai chiaro che le partite non si giocano più solo tra esseri umani, con una doviziosa natura posta a mo’ di scenario di cartapesta sullo sfondo delle “gesta” dei gruppi sociali. Il clima planetario cambia e si assottigliano le scorte di risorse fossili su cui la civiltà moderna si è storicamente fondata, mentre i prezzi delle materie prime si impennano. Le basi ambientali, energetiche e sociali del sistema di vita urbano-industriale stanno dando segni di cedimento, e quando avremo finito di segare i rami su cui siamo seduti  non potremo più fingere di trovarci ancora ai beati tempi in cui il mito dello sviluppo economico e tecnologico conosceva il suo apogeo.

Il punto è che via via che la civiltà delle macchine e i poteri economici che la sostengono si consolidano e si espandono, la crisi sociale va sempre più rispecchiandosi in quella ecologica. Sempre meno giovani di molti paesi tra cui il nostro riescono a trovare lavori salariati e redditi monetari che consentano loro di elaborare autonomi progetti di vita, e in tutta evidenza ciò accade perché il tipo di organizzazione sociale imposta dalla globalizzazione economica non considera prioritario assicurare decenti condizioni di vita ai cittadini. Le doti affabulatorie e gli strumenti di convinzione dei poteri dominanti sono ancora notevoli ma i fatti ci stanno raccontando altro rispetto alle loro rappresentazioni. Ci dicono che i limiti fisici della biosfera impediscono il raggiungimento del benessere merceologico-industriale per il genere umano nel suo insieme. Solo minoranze benestanti –se necessario circondate di guardie armate a protezione dei loro ghetti dorati– possono compiutamente appropriarsi degli esiti materiali dello sviluppo. In un mondo siffatto la costruzione di un futuro vivibile per tutti e non solo per le ristrette élite globalizzatrici potrà essere affrontata solo con l’affermazione di una cultura della convivenza e della coevoluzione del vivente planetario, la quale ha ben poco a che vedere con le raffigurazioni sviluppiste del mondo ancora insegnate nelle scuole.

Per dare spazio a una cultura di vita dovremmo in primo luogo saper cogliere le interdipendenze e le connessioni sistemiche che caratterizzano il vigente regime socio-ecologico. Un regime che per quanto si estenda oggi su scala globale (Cina, India e Brasile compresi) resta profondamente occidentale nei suoi miti fondatori, a partire dalla cieca fiducia nel dominio razionalistico e nella governance centralizzata delle risorse naturali e “umane”. E’ invece sempre più urgente decolonizzare i rapporti tra società umane e natura. Ricordare il futuro vuol dire costruire le basi di un futuro sostenibile recuperando e riattualizzando modalità “organiche” e microregionali di uso delle risorse, come quelle praticate  dall’economia contadina e artigianale. Nei contesti così organizzati le attività economiche delle popolazioni non producono merci e servizi in funzione della crescita dei mercati ma mirano al sostegno e alla riproduzione della vita, sia pure all’interno di orizzonti materiali e culturali limitati. E queste economie decentrate non comportano ingenti distruzioni ecologiche nella misura in cui la responsabilità per il governo degli agroecosistemi è posta in capo a comunità locali che sanno di dipendere per la loro sopravvivenza dal buon uso dei beni comuni naturali: acqua, suolo e biodiversità territoriale.

Siamo tutti chiamati a riesaminare criticamente le caratteristiche dell’attuale organizzazione socio-economica per incamminarci verso nuovi modelli di convivenza umana in cui i mercati siano regolati dalla politica (e non accada più l’inverso, come oggi). Nuovi sistemi sociali in cui governi, legislatori e cittadini si attivino per salvaguardare i beni comuni con un’attenzione almeno pari a quella con cui gli imprenditori e le classi agiate difendono i loro beni privati. Ma non saranno certo le armi spuntate delle ideologie partitiche dell’Occidente a farci vincere questa sfida. Il pensiero “progressista” risulta particolarmente insidioso in questo senso, poiché esso tende a sopravvalutare il ruolo positivo assunto dalle scienze tecnologiche nell’organizzazione sociale e a supportare con slancio ogni forma di standardizzazione e centralizzazione dei modelli gestionari delle risorse. E’ stato proprio in nome del progresso che –specialmente negli ultimi sessant’anni– le istituzioni pubbliche e le agenzie di mercato dell’Europa occidentale si sono accanite a smantellare le economie di sussistenza e tutte le forme di sostentamento a mezzo di autoproduzione, autogestione e autogoverno di beni naturali e manufatti vernacolari con cui singoli, famiglie e comunità locali provvedevano ai loro bisogni materiali e spirituali.

Solo a mezzo di un serio ripensamento culturale su questo decisivo snodo della nostra storia sociale potremmo ritrovare in futuro quella dignità perduta e oggi reclamata a gran voce nel mondo intero dagli indignados europei e statunitensi, dai manifestanti delle primavere arabe e da tutti coloro che si battono per il rispetto dei diritti umani e civili. Non a caso il  circostanziato rapporto su Commercio e agricoltura. Dall’efficienza economica alla sostenibilità sociale e ambientale (Quaderno n. 3 della rivista CNS-Ecologia Politica, a cura di W. Sachs e T. Santarius, EMI, Bologna, 2007, trad. it.) auspica un rallentamento dei commerci alimentari transnazionali e, in parallelo, la rigenerazione dell’agricoltura familiare di piccola scala e quindi la regionalizzazione e democratizzazione delle filiere agroalimentari; solo questi ultimi processi e non certo l’espandersi del commercio mondiale del cibo favorirebbero la piena applicazione di quei principi che le nazioni del mondo avevano solennemente promulgato già all’indomani della seconda guerra mondiale (Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, art. 25: “Ogni individuo ha diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire  la salute e il benessere proprio della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione e alle cure mediche”).

Rivendicare l’esercizio della sovranità alimentare significa perciò tutelare e reinventarsi forme di sostentamento che includano la produzione per l’autoconsumo e il rilancio del valore d’uso di produzioni locali indirizzate in primo luogo al conseguimento dell’autosufficienza comunitaria. E si tratterebbe di vantaggi multipli, di tipo eco-equo. La “società contadina modernizzata” (Y. Friedman, Alternative energetiche. Breviario dell’autosufficienza locale, Bollati Boringhieri, 2012, trad.it.) potrebbe rappresentare un valido modello alternativo a fronte della patente inefficacia sociale, ecologica ed energetica di una civiltà industriale e finanziarizzata che riesce solo a offrire il lusso a pochi a spese dell’essenziale per tutti

In tempi di progressiva corrosione del feticismo merceologico (“io compro, dunque sono”) nel quale noi occidentali (tranne magari i più anziani) siamo stati immersi sin dalla nascita, il processo culturale di riabilitazione della sussistenza andrebbe incoraggiato con determinazione. Ma è chiaro che a questo scopo occorre superare notevoli resistenze inerziali. Questo termine (come quello di “decrescita”, d’altronde) evoca l’assillo della penuria e dello stato di bisogno, ma tant’è… Sempre meglio guardare la realtà in faccia e riconoscere da noi che il come e il quanto consumiamo non dovrebbero compromettere irreversibilmente il capitale naturale, inducendoci a rivedere, in caso anche radicalmente, i nostri modi di intendere e trasformare il mondo. L’alternativa comportamentale è quella di fare gli “struzzi”: nascondere la testa sotto la sabbia ed essere così disposti a pagare qualunque prezzo per non pensare, lasciando che altri lo facciano per noi e agiscano in nostro nome (e con quali esiti rovinosi non è difficile immaginarlo, basta guardarsi attorno nell’Italia attuale…).