Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Barbero, tu quoque?

Barbero, tu quoque?

di Alessio Mannino - 04/12/2025

Barbero, tu quoque?

Fonte: La Fionda

Avendo il vantaggio di non essere liberale, chi scrive non la menerà qui con la dottrina della libertà d’espressione che uno stuolo di firmaioli voleva negare alla casa editrice di destra radicale Passaggio al Bosco, ricevendo un pacato ma fermo no dalla fiera “Più libri più liberi”. Da questo punto di vista, la questione è liquidabile in poche righe: se un editore è legalmente in attività, significa che i libri del suo catalogo non violano nessuna legge e perciò non incorrono nel reato di apologia di fascismo, basato su una norma transitoria della Costituzione che vieta non il pensiero, ma il pericolo concreto di un partito fascista (divieto, sia detto di passata, disatteso per cinquant’anni, nella folie à deux di Democrazia Cristiana e Partito Comunista, dall’esistenza del Movimento Sociale Italiano). Se invece il problema è politico, come infatti è, bisognerebbe evitare di cadere nel vicolo cieco del paradosso di Popper, sopravvalutatissimo beniamino del pensiero unico che invitava a essere intolleranti con gli intolleranti. Esattamente come il giacobino Saint-Just, fanatico della ghigliottina (“nessuna libertà per i nemici della libertà”). Con il risultato che, alla fine, dal boia ci finì anche lui.

Purtroppo, colonizzati dall’ideologia e forma mentis anglosassone come siamo, la vulgata corrente confonde liberalismo e democrazia. Quest’ultima, storicamente e concettualmente, non solo pre-esiste alla concezione più o meno a fisarmonica dei diritti liberali ma, se intesa nella sua forma moderna più coerente e vitale, implica una visione della società, e forse anche uno stile di vita, che vedono nel conflitto regolato ma aperto, nell’agone, il presupposto stesso della dimensione politica. Anzi del Politico in quanto tale. Una democrazia esige il contrasto più aspro fra le tesi più opposte. Con un solo limite: il ricorso alla coercizione violenta (altrimenti, va da sé, si finisce in guerra civile, a scannarsi per le strade).

Ora, che la conoscenza storica e l’esattezza di ragionamento non siano proprio il forte di un Antonio Scurati o di uno Zerocalcare, piuttosto che di un Ascanio Celestini o un Christian Raimo, per tacere di un Caparezza o un Massimo Giannini, è cosa che non stupisce. Già più fatica si fa ad accettare che le metta fra parentesi un’Anna Foa. Il meno comprensibile di tutti è però Alessandro Barbero. Lo storiografo più in voga del momento, è noto, è uomo di sinistra vecchio stampo. Ma nel suo immenso archivio di conferenze e interviste reperibili online si era distinto più volte per lo sforzo, in realtà il minimo per chi fa il suo mestiere, di storicizzare, vale a dire di contestualizzare il fenomeno “fascismo”. Sostenendo, ad esempio, che il brodo antropologico da cui germinò va situata in una temperie culturale precisa (l’alba dei partiti di massa, l’adesione trasversale a un’idea, di origine marxiana, della violenza come “levatrice della storia”, l’affermarsi di imperialismi e colonialismi) e in una mentalità violenta, quella dei reduci e dei familiari dei caduti, esplosa all’indomani della Grande Guerra, avvenimento epocale senza precedenti (che non a caso si chiama primo conflitto mondiale). Ma lasciando perdere questa diatriba che in Italia non ha mai fine, Barbero pare, o almeno pareva, essere consapevole che espellere soggetti sgraditi dai luoghi di circolazione d’idee non ottiene altro effetto che rafforzare l’odio reciproco, alimentando fra l’altro l’aura di perseguitati che, come il passato insegna, regala pubblicità gratis alle vittime di censura. Tanto più di questi tempi, che sono tempi di un vittimismo imperante e dilagante, cifra psicologica di una società di rammolliti che svicolano in tutti i modi da quel misterioso attributo che va sotto il nome di responsabilità.

Detto questo, è sempre comodo firmare appelli. Il punto è un altro, sempre che si voglia parlare di editoria, cultura e libertà intellettuale. L’orrore non sta in letture “pericolose”, perché nel pericolo, almeno, c’è tensione, c’è vita, ci si schiera, ci si scontra, si controbatte, magari scegliendo pure di non discutere nemmeno, ma lasciando che le differenze, incluse le più radicali e le più feroci, si misurino sul terreno pubblico dell’analisi, dell’opinione e della critica. Il vero orrore si manifesta da fungo velenoso nei libercoli di autori che godono di campagne promozionali e strombazzamenti a reti unificate non avendo assolutamente alcun contenuto autentico. Il degrado del libro, in un’Italia che di suo ne ha già un’atavica allergia, è nelle intere paginate dedicate da certi quotidiani al primo, imperdibile romanzo di Alfonso Signorini, là dove il giorno prima, per dire, c’era una dissertazione di Luciano Canfora. È nell’ubiquità sugli scaffali dell’ultimo parto dei ghost writer di Oscar Farinetti.

È nella condanna che, all’approssimarsi del Natale, ci viene inflitta con l’uscita di rito, cascasse il cielo, dell’annuale fatica libraria di quell’azienda di marketing ambulante che di nome fa Bruno Vespa. È nella produzione in serie di opere che rimasticano cose già masticate e digerite, attività in cui eccelle quel rivenditore di bignami con annessa video-grancassa di Aldo Cazzullo. È anche, sissignori, nel traino dei volumi dello stesso Barbero, divulgatore superlativo quando parla, ma molto, molto meno efficace quando scrive (caratteristica che vale anche all’inverso: in genere, e salvo eccezioni, chi ha una bella penna non brilla nell’eloquio). Insomma: è nella soffocante occupazione dello spazio mainstream – che poi è quello che dà le coordinate all’intero mercato – da parte di un’instancabile industria del vuoto o, quando va bene, della volgarizzazione spicciola (che se ben fatta non è da buttare, ma che ha il difetto di esaurire quel poco ed episodico interesse dell’italiano statisticamente medio per leggere qualcos’altro, rispetto ai titoli raccomandati o alla manciata di lettere stampicchiate sui video che scorrono sul feed social).

Immagino la difesa identitaria dei piccoli editori: noi coltiviamo un segmento minoritario ma arabile, i lettori cosiddetti “forti”. Quelli, per intenderci, che acquistano un libro al mese. Arabile fino a un certo punto, visto che la nicchia è satura e senza un’adeguata promozione le copie restano, come si dice, in casa. Invendute. La maggior parte delle uscite non valica la soglia del migliaio di esemplari, e un buon terzo non intercetta neppure un acquirente. Per carità, in un Paese di santi, navigatori e poeti, soprattutto poeti ovvero, in senso lato, scrittori, molti di questi non hanno un pubblico per il banale motivo che meritano di non averlo, data l’improvvisazione con cui certuni, in combutta con editori in realtà poco più che tipografi, sfornano e lanciano pappette immangiabili, elucubrazioni inutili, escrescenze di ego ipertrofici. Ma in tutta questa fanghiglia, qualche pepita d’oro indubbiamente c’è. E si dà il caso che l’oro non abbia a priori la possibilità di essere setacciato e messo in luce, perché a coprire l’orizzonte c’è quell’himalaya di fuffa che schiaccia sotto il peso di una tragicomica iniquità ciò che spinge dal basso.

Prego notare che non si sta trattando il tema puramente commerciale, che grazie alle praterie algoritmiche della Rete può essere in parte affrontato, posto che si abbia un minimo di abilità nell’uso del mezzo. È l’impatto culturale in senso stretto, il nodo da districare. La capacità di incidere, per quanto fattibile, sul dibattito di idee. Un ambito minoritarissimo, ma non ininfluente se pensiamo che la politica, le grandi aziende e soprattutto, oggi, la tecnocrazia digitale ai suoi massimi livelli si premurano di addobbare i loro propositi di potere con discorsi sull’egemonia, affiancandoli da dispositivi di manipolazione del consenso e dell’immaginario. Ecco perché è importante preoccuparsi non dell’eventuale rifrittura di testi risalenti agli anni ’20 e ’30, ma del fatto che, se la visuale comune è sovraccaricata da un fluire infinito di prodotti superflui (a rigore: di rifiuti buoni per il letame, meno gentilmente detto merda), l’occhio non potrà individuare i proverbiali fiori che nascono, come da canzone di De Andrè, in mezzo alla suddetta materia. Cento, mille volte meglio ripubblicare un proibitissimo “Bagatelle per un massacro” di Céline (e sarebbe ora, in italiano girano versioni tradotte coi piedi), piuttosto che sorbirsi le passerelle moleste degli autori da vetrina. Oscuriamo le vetrine, piuttosto. Non le case editrici. Tu quoque, Barbero?