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L’Europa e l’Italia verso la reintroduzione della leva militare

di Maurizio Boni - 04/12/2025

L’Europa e l’Italia verso la reintroduzione della leva militare

Fonte: L'Adige

Federico Dal Cortivo per l’Adige di Verona ne ha parlato con il generale Maurizio Boni, che è stato il vicecomandante dell’Allied Rapid Reaction Corps (ARRC) di Innsworth (Regno Unito), capo di stato maggiore del NATO Rapid Reaction Corps Italy (NRDC-ITA) di Solbiate Olona (Varese), nonché capo reparto pianificazione e politica militare dell’Allied Joint Force Command Lisbon (JFCLB) a Oeiras (Portogallo).
Ha comandato la brigata Pozzuolo del Friuli, l’Italian Joint Force Headquarters in Roma, il Centro Simulazione e Validazione dell’Esercito a Civitavecchia e il Regg. Artiglieria a cavallo a Milano ed è stato capo ufficio addestramento dello Stato Maggiore dell’Esercito e vicecapo reparto operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze a Roma. 

Generale, dopo anni di esaltazione della professionalizzazione delle Forze Armate, sta ora riempiendo le pagine dei giornali la questione del ritorno al servizio di leva militare obbligatorio. Il presidente francese Emmanuel Macron ha comunicato che dal 2026 verrà reintrodotto un particolare servizio di leva, (tolta nel 1997) con l’obiettivo di raggiungere un numero di circa 50 mila soldati nel 2035. Lei che ne pensa?

«I progetti francese e tedesco, che costituiscono il riferimento per il nostro Disegno di Legge, si riferiscono a un sistema di leva militare volontaria che genera, già nel termine, molta confusione. Il termine “leva” sottintende la coscrizione obbligatoria, idea concettualmente opposta alla volontarietà di far parte delle Forze armate. Gli scenari operativi odierni, con particolare riferimento a quello della guerra russo ucraina, ma anche quelli passati, ci hanno dimostrato che anche ai minori livelli, quelli appunto dove il soldato è protagonista, sono necessarie capacità che possono essere garantite solo da un esercito professionale.

Non credo, quindi, che le scelte fatte a suo tempo siano messe in discussione, ma si tratta di capire in quale misura e con quale compito i ranghi delle forze armate possano essere integrate con personale non professionista a ferma prefissata di fatto già presente nell’attuale sistema nazionale».

Sarà che la Francia sta sparendo dall’Africa Occidentale e vuole ricollocarsi geopoliticamente (recentissimo il permesso che dà  il  via libera alle Compagnie Militari Private sul modello anglosassone), sarà che  negli ultimi decenni l’Occidente ha combattuto guerre a bassa intensità  dall’Iraq all’Afghanistan  per le quali bastavano in prevalenza reparti scelti, sarà che come nell’esercito professionale per tradizione secolare, quello britannico, si riscontra oggi un esodo non più ripianabile con gli attuali arruolamenti, esodi aumentati guarda caso dopo lo scoppio del conflitto ad alta intensità in Ucraina.  Quale è la situazione oggi nelle varie Forze Armate europee della Nato?

«Al riguardo, bisogna operare dei distinguo. Nei Paesi scandinavi e baltici, che applicano il concetto di “difesa totale” dove tutte le istituzioni dello stato, e non solo quelle militari, affrontano un possibile conflitto, la situazione non è affatto critica. Ma parliamo di forze armate dalla consistenza esigua, nel contesto del sistema militare generale dell’Alleanza Atlantica, ancorché molto efficienti.

Gli effettivi di Danimarca, Finlandia, Norvegia e Svezia si attestano in una scala che comprende, per ciascun Paese, dai 20.000 ai 24.000 effettivi. La Lituania ha 23.000 effettivi, la Lettonia 17.250 e l’Estonia 7.000 (dati riferiti ad aprile 2024). La situazione è differente negli altri membri europei della NATO dove, mediamente, la propensione concreta dei giovani ad arruolarsi o a combattere è bassa.

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La leva obbligatoria cozza contro il fattore umano

Persino nei Paesi che hanno annunciato di voler costituire gli eserciti più forti dell’Europa, come la Polonia e la Germania. Nel primo caso, un sondaggio condotto dal “Centro di Ricerca sull’Opinione Pubblica” di Varsavia nello scorso mese di maggio, indica che oltre il 70% dei polacchi non vuole partecipare a nessuna forma di addestramento militare (gli effettivi polacchi sono circa 203.000).

In Germania (circa 187.000 effettivi), analogo sondaggio rivela una maggioranza teorica favorevole a reintrodurre la coscrizione (specialmente se il volontariato non bastasse) ma, al tempo stesso, che solo il 16% degli intervistati direbbe “sì, sicuramente” a prendere le armi per difendere la Germania in caso di attacco; un ulteriore 22% risponderebbe “probabilmente”. I giovani under-29 figurano tra le fasce meno disponibili all’impegno armato.

Questo indica che, pur esistendo un supporto teorico politico-sociale alla reintroduzione della leva, la propensione concreta dei giovani ad arruolarsi o a combattere è molto bassa. Tuttavia, il governo tedesco ha dichiarato di voler raggiungere, entro il 2030, i 260.000 effettivi, numero che, con i riservisti, raggiungerebbe la cifra di 460.000. La vedo molto dura».

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In Italia, dove la leva obbligatoria è stata abolita nel 2005, il ministro della Difesa Crosetto annuncia che proporrà un” disegno di legge” in Consiglio dei ministri e poi in Parlamento, secondo lei è fattibile un ritorno anche parziale al servizio militare obbligatorio e in che modo? Oppure è sola propaganda bellicista antirussa?

«Il servizio militare obbligatorio, che difficilmente potrebbe essere “parziale”, richiederebbe ingenti risorse di tempo e denaro per ricostituire il sistema di reclutamento e di addestramento che avevamo durante la Guerra fredda, incluso l’aspetto infrastrutturale delle caserme da ristrutturare o da costruire ex novo. E credo altresì che non sarebbe socialmente sostenibile. Da un recente sondaggio realizzato per YouTrend / Sky TG24 emerge che tra i giovani di età compresa tra i 18 e i 34 anni, la maggioranza (55%) è contraria alla reintroduzione della leva obbligatoria, e solo il 36% favorevole.

Ma non è questa, a mio avviso, la questione fondamentale. Rifacendomi alla prima domanda, bisogna discutere l’esigenza operativa (vale a dire incrementare gli effettivi per fare cosa?) e poi definire i nuovi organici.

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Se la prospettiva è quella di un conflitto perenne con Mosca le risorse non basteranno mai. Si ha l’impressione che con l’attuale proposta si voglia far passare il concetto del popolo in armi perché la Russia ci può attaccare, ipotesi questa che personalmente reputo infondata.

D’altronde, se fosse vero che l’attacco russo è davvero imminente, allora dovremmo subito chiamare alle armi tutti gli uomini e le donne abili, avviando la mobilitazione generale. Nell’impossibilità di poterlo fare, si cercano soluzioni che non affrontano invece un altro aspetto fondamentale che è quello dell’invecchiamento del personale dello strumento militare, come già più volte ribadito dai Capi di Stato Maggiore dell’Esercito che si sono avvicendati, in occasione delle audizioni nelle Commissioni difesa di Camera e Senato. Parlo di Esercito perché è la forza armata dove il fattore manpower è più rilevante.

Si è sempre rimandato il problema nel corso degli anni, anche quando la Russia ha annesso la Crimea e tutti gli eserciti della NATO cominciavano il lungo processo di adattamento ai requisiti operativi dei conflitti ad alta intensità. Svecchiare l’esercito significa assicurare la fuoriuscita regolare del personale più anziano, facendolo accedere agli altri comparti della pubblica amministrazione, o facilitandone la reintegrazione nella società civile, progetto pensato a suo tempo ma mai sostenuto dalla politica. Contemporaneamente, bisognerebbe provvedere al reclutamento e all’addestramento di nuovo personale da inviare ai reggimenti, tenendo sempre presente il fatto che occorrono, mediamente, almeno diciotto mesi per specializzare un soldato nel proprio incarico».  

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Infine generale si sente parlare solo di Pil, prestiti, acquisizioni di armamenti sofisticati, del fantomatico “esercito europeo”, ma nessuno in Europa, dai burocrati non eletti di Bruxelles ai vari ministri della Difesa, menziona mai il fattore più importante, il “soldato”, potremmo dire questo sconosciuto per moltissimi giovani europei, vista la “cultura dominante” individualista lontana dai concetti di Patria e sacrificio? Tutto l’opposto della Russia potremmo dire, che i “volenterosi” vorrebbero attaccare… e dove il consenso all’”Operazione Speciale” è alto in tutti gli strati della popolazione. Lei che ne pensa?

«Lei ha giustamente evidenziato un altro aspetto chiave del tema della difesa europea, vale a dire l’eccessiva focalizzazione sugli aspetti del procurement militare e del ruolo dei comparti industriali della difesa dei Paesi membri della NATO e della UE, a discapito delle valutazioni riguardanti l’elemento umano, cui abbiamo solo accennato nel corso di questa intervista. In tale contesto, la società russa e quelle europee sono profondamente differenti in merito alla percezione degli affari militari ad eccezione, come abbiamo visto, di alcuni casi.

La questione di quali, quanti e se, cittadini europei debbano sapere impiegare i sistemi d’arma che ci si accinge ad acquisire in grande fretta, e in quali scenari, è ancora aperta e meriterebbe un dibattito pubblico molto più partecipato».