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Arendt fra tradizione e totalitarismo

di Marcello Veneziani - 04/12/2025

Arendt fra tradizione e totalitarismo

Fonte: Marcello Veneziani

Il 4 dicembre del 1975 era giovedì sera e Hannah Arendt stava ricevendo a casa amici e colleghi quando si spense d’improvviso. Aveva 69 anni. Nella sua macchina da scrivere trovarono un foglio bianco con un titolo, Giudicare. Era il titolo della terza e ultima parte della sua corposa opera finale, la Vita della Mente, rimasta incompiuta, di cui aveva scritto le parti relative a Pensare e Volere. Arendt era una filosofa riluttante: non volle mai definirsi filosofa, forse per soggezione dei suoi maestri, Martin Heidegger e Karl Jaspers, ma anche per suo marito Gunther Stern (più noto come Anders). Preferì definirsi pensatrice politica; e la sua maggior fama, del resto, è legata al suo capolavoro di filosofia politica, Le Origini del totalitarismo e a La Banalità del male, a proposito del nazismo. Ma il pensiero della Arendt è metapolitico, esistenziale, coglie aspetti profondi della condizione umana, della mente e della visione del mondo a cui ha dedicato alcune sue opere fondamentali. Nell’epoca del pensiero risolto nell’azione, la pensatrice riproponeva l’esigenza di un primato del conoscere sull’agire, della vita contemplativa sulla vita pratica. Distingueva la solitudine dall’isolamento, riteneva che l’evento più significativo dell’umano fosse l’inizio: l’uomo non è un essere per la morte, come diceva invece Heidegger, ma è un essere per la nascita.
L’Arendt sottolineò l’importanza della tradizione e di quel “filo spezzato”, la perdita del passato come “male incalcolabile”. La tradizione ci guidava sicuri nel vasto dominio del passato e concatenava le generazioni. Per Arendt “Tradizione, religione e autorità sono i tre pilastri del mondo occidentale, tutti e tre forgiati da Roma”. Della trinità, notava in Passato e Futuro, l’autorità è la più stabile; ma l’autorità per Arendt esclude sia la coercizione che la persuasione. Se usa la forza o ha bisogno di convincere l’autorità è fallita. La sua superiorità emana dal suo ruolo e dal suo rango, riconosciuto come evidente, necessario e benefico. Lo sradicamento significa per Arendt vivere in superficie: ”La dimensione della profondità si crea piantando radici”. A chi vive senza passato manca la dimensione della grandezza. A proposito di radici, quando lo studioso di mistica ebraica Gershom Scholem dopo aver letto la Banalità del male accusò la Arendt (si veda il carteggio in Ebraismo e modernità) di avversare il sionismo e non amare gli ebrei, lei rispose: “Io non amo gli ebrei, sono semplicemente una di loro”.
Arendt si confrontò non solo coi regimi totalitari del novecento ma risalì alle fonti e si soffermò sul pensiero di Marx. A suo dire, il marxismo regge su tre punti basilari: il lavoro, creatore dell’uomo; la violenza, levatrice della storia; il primato dell’azione, ovvero il mondo non va più interpretato ma trasformato: e gli arnesi per farlo (oltre l’ideologia) sono il lavoro, la lotta e la violenza. Arendt riteneva che fosse stato Stalin a trasformare il marxismo in totalitarismo. Marx, a suo parere, è dentro la tradizione del pensiero occidentale: “Chiunque tocchi Marx tocca la tradizione occidentale” (Marx e la tradizione del pensiero politico occidentale, edito da Raffaello Cortina). In realtà, Marx aveva definito il comunismo come l’abolizione dello stato di cose presenti, e questo poneva già l’alternativa radicale tra il mondo reale, storico, imperfetto e il mondo nuovo, perfetto e giusto dell’avvenire. L’idea di abolire la realtà presente, unita alla considerazione di matrice hegeliana della violenza come levatrice della storia, avevano creato le condizioni per la rivoluzione di Lenin e poi per lo Stato sovietico e totalitario staliniano; lo Stato non si estingue, come pensava Marx ma si potenzia e si dilata fino a opprimere tutti i gangli vitali della società.
Se si ritiene che il terrore e il dispotismo totalitario nascano fuori dalla ragione occidentale, nell’irrazionalismo, non si spiega poi il terrore giacobino che pure era d’ispirazione illuminista né il totalitarismo di Lenin, di Stalin e di Mao, d’ispirazione marxista. Quando la ragione si separa dalla realtà e pretende di correggere e trasformare radicalmente l’umanità, sorge la follia totalitaria, che attecchisce al dispotismo asiatico; o cambia direzione e in Europa si fa regime totalitario nazional-socialista. A ciò si aggiunge in Marx la matrice mai rimossa del profetismo ebraico che s’incontra con la gnosi rivoluzionaria (penetrante in questa chiave sarà la lettura di Eric Voegelin).
Nei suoi ultimi scritti Hannah Arendt colse con preoccupazione il dominio della tecnica con l’avvento dei computer, di cui avvertì la portata enorme e i riflessi che avrebbe sul pensiero. Nella Vita della mente prefigurò l’avvento del “cervello gigante” o elettronico con i suoi effetti.
Arendt si dedicò anche all’analisi dei sentimenti e delle forze profonde che muovono il mondo. L’amore per Arendt, è una potenza dell’universo, non un sentimento; non ha un’origine propriamente umana. A proposito d’amore, non si può dimenticare la storia dell’allieva Hannah Arendt col suo maestro, Martin Heidegger. Sono ormai note le lettere appassionate del filosofo a lei: “A partire dal giorno che mi ha portato tutto – tu – …mentre avevi tra i capelli un sogno fiorito – lo slancio e il profilo delle montagne sulla fronte, e il tremito del freddo della sera nella tua cara mano. E il tuo grande momento in cui diventi una santa, in cui diventi visibile…Nei tuoi grandi sguardi, tra la felicità e l’addio serale, nel tuo volto ultraterreno”. Poi venne l’amore intenso e proibito tra incontri e pensieri, corpi e letture. La lontananza forzata degli amanti accrescerà poi la loro passione; la prova iniziatica del distacco, sotto il profilo creativo è “l’esperienza più grandiosa che io conosca tra tutte quelle umanamente possibili”, ma dal punto di vista umano, nota Heidegger, “è come se ti strappassero via il cuore dal petto mentre sei perfettamente cosciente”. Col tempo il legame si allenta fino a spezzarsi, “la fanciulla che viene da lontano”, “straniera della lontananza”, “maliziosa ninfa dei boschi”, torna invisibile agli occhi del filosofo. S’incontrano una volta in stazione, ma Martin, in compagnia del futuro sposo di Hannah, Gunther Stern, non la vede nemmeno o forse finge di non vederla. Eppure, protesta in una lettera disperata la Arendt, ero lì davanti a te, avresti potuto vedermi, mi hai guardato di sfuggita, senza riconoscermi. “Quando ero piccola – gli scrive Hannah – mia madre una volta mi ha spaventata follemente con un gioco di questo genere…Ricordo ancora la paura cieca che provavo mentre continuavo a gridare: ma io sono la tua bambina, sono davvero Hannah. Oggi mi sono sentita così. Poi il treno si è allontanato rapidamente. E allora è successo esattamente quel che avevo immaginato e voluto, voi due in alto sopra di me e io da sola completamente inerme. Come sempre, non c’era nulla che potessi fare se non lasciare che ciò accadesse, e aspettare aspettare aspettare”. Arendt descriverà poi Heidegger come una volpe che si crede astuta ma poi resta intrappolata nella sua stessa furbizia; non esce bene sul piano umano Heidegger nel rapporto con l’Arendt.
Venticinque anni dopo si riapre “l’abisso della nostalgia”, come scrive in una lettera l’anziano professor Heidegger alla sua collega Arendt, dopo la tragedia della guerra: “Tutto doveva riposare per un quarto di secolo come un chicco di grano nel solco profondo di un campo, riposare in una maturazione dell’assoluto; perché tutto il dolore e le molteplici esperienze si sono raccolte nel tuo sguardo, la cui luce si riflette sul tuo volto e fa apparire la donna. Nell’immagine della dea greca c’è questo di misterioso: nella fanciulla è nascosta la donna, nella donna, la fanciulla. E il peculiare è: questo occultarsi nel diradarsi”. Il chicco di grano restò promessa inespressa nel solco profondo del campo. La vita che poteva essere e non era stata. Poi, passano altri venticinque anni e alla fine del 1975 muore Hannah Arendt; pochi mesi dopo, nel maggio seguente, morì Heidegger. Restarono, oltre la loro vita, i solchi profondi del pensiero di quel grande maestro e della sua grande allieva.