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Quei cattolici “di sinistra” che straparlano di accoglienza, diritti e Dio sa cos’altro

di Francesco Lamendola - 12/09/2013


 

Per un non cattolico, «Famiglia cristiana» è, semplicemente, il settimanale dei cattolici; vale a dire, che, se è un seguace della cultura laicista dominante, egli lo considera con un misto di indifferenza e di disprezzo, come un rimasuglio di mentalità clericale che finirà per scomparire.

Un non cattolico non coglie le sfumature, non percepisce le differenze che vi sono all’interno del mondo cattolico; o, se le percepisce, ciò avviene all’interno dei suoi parametri culturali, dei suoi riflessi condizionati, dei suoi pregiudizi laici e progressisti. Per esempio, sa che ci sono i cattolici “buoni” e quelli “cattivi”: di sinistra i primi, di destra i secondi. Che le categorie della destra e della sinistra non siano applicabili al di fuori della sfera politica, e che meno ancora possano essere adoperate come discriminanti per catalogare in buoni e cattivi i seguaci di una fede religiosa, non gli passa neanche per l’anticamera del cervello. Dunque, per lui sono “buoni” quei cattolici, quei preti, quei vescovi che frequentano, per esempio, i salotti televisivi di Rai Tre, ospiti fissi di conduttori faziosi e intellettualmente disonesti, i quali vogliono sentirsi dire solo quel che piace al loro pubblico abituale e non possiedono nemmeno la forma mentis necessaria a porsi in un atteggiamento di autentico ascolto verso una cultura diversa dalla loro. Gli altri, i “cattivi”, o non vengono invitati, e dunque non godono di alcuna visibilità nell’ambito della cultura laica, oppure vengono esibiti, di tanto in tanto, come delle teste di turco sulle quali scaricare, senza nemmeno ascoltarli e senza minimamente prendere in considerazione i loro argomenti, tutto l’astio e il livore che il laicismo militante nutre nei confronti del fatto religioso in generale, e del cattolicesimo in maniera particolare.

Le opinioni e i punti di vista sostenuti, ormai da parecchi anni, dal settimanale «Famiglia cristiana», corrispondono in pieno al cliché laicista del cattolico “buono”, in quanto perfettamente compatibile, appunto, con quel cliché medesimo: aperto e dialogante con tutti gli “ismi” della cultura di sinistra, dal progressismo al multiculturalismo, dal femminismo al buonismo a senso unico; non però altrettanto tollerante, né altrettanto caritatevole, con un’unica categoria di persone: i suoi confratelli che non condividono tali posizioni e che intendono il fatto religioso in maniera più fedele alla tradizione. Solo verso costoro, “rei” di avere mal digerito il Concilio Vaticano II – che, a suo dire, ha riscosso beneficamente la Chiesa, dopo secoli d’immobilismo e di bieco conservatorismo – non è disponibili al dialogo, ma ostenta un malcelato disprezzo.

Il cattolico “buono”, insomma, quello che piace a Corrado Augias e magari a Paolo Flores d’Arcais, stravede per il relativismo religioso camuffato da ecumenismo; è pronto ad abbracciare anche i fondamentalisti musulmani, in nome dell’”amore” senza  confini, ma a volgere la testa dall’altra parte per non vedere le persecuzioni di cui sono vittime i copti e altre minoranze cristiane in molte parti del mondo; non la finisce più di chiedere scusa ai giudei e di sentirsi indegno a causa delle nefandezze compiute ai loro danni dai cristiani, magari otto o dieci secoli fa; ma non ha alcuna comprensione, alcun rispetto, alcuna carità, verso quei cristiani che egli definisce, sprezzantemente, “conservatori”, i quali, a suo giudizio, frappongono mille ostacoli al cammino trionfale del post-concilio e cercano in ogni modo di frenare il processo di modernizzazione e liberalizzazione della Chiesa. Basta vedere – un esempio fra mille – il putiferio che quel “buon” cattolico ha sollevato allorché Benedetto XVI volle riammettere in seno alla Chiesa alcuni vescovi lefebvriani: ma come, “perdonare” a dei simili mostri! Per quelli no, nessuna pietà, nessuna umana considerazione; per tutti gli altri, sì: anche per quelli che insultano il cristianesimo, che vorrebbero ridicolizzarlo, che vorrebbero distruggerlo, che vorrebbero farne sparire ogni traccia.

Stiamo esagerando? Vediamo; e prendiamo un numero qualsiasi di «Famiglia cristiana», un numero ormai vecchio, che ci è capitato fra le mani del tutto a caso (quello del 13 gennaio 2013).

Si comincia con la posta del direttore, don Antonio Sciortino; la prima lettera, firmata da una suora, offre anche lo spunto per il titolo: «Iniziativa grave e triste che offende la dignità delle donne». È una severa rampogna, o piuttosto una dura requisitoria, categorica e inappellabile, nei confronti di quel prete di Lerici che, davanti al fenomeno del cosiddetto “femminicidio”, aveva invitato le donne a fare una sana autocritica e a provocare sessualmente un po’ meno i maschi. Sfruttando la rozzezza della comunicazione di quel prete, e tralasciando la sostanza dell’idea da lui espressa, tutt’altro che irragionevole o campata per aria, l’autrice della lettera fa polpette del malcapitato prete “reazionario” e brucia l’incenso di rito sull’altare del femminismo trionfante, evidentemente scambiando la difesa della dignità della donna per la difesa d’ufficio, atto dovuto e irrinunciabile, di qualsiasi suo comportamento, fosse anche il più discutibile e sbagliato. Un buon esempio di monoculismo intellettuale: il vedere le cose con un occhio solo, il giudicarle da un unico punto di vista, senza sfumature e senza mai un’ombra di autocritica: l’autoreferenzialità più sfrenata e narcisista, il cantare da se stessi le proprie lodi. E anche un buon esempio di mancanza di carità, di dialogo, di ascolto: complimenti a quella suora.

Seguono altre lettere, anche di segno diverso, ma relegate da quel titolone in una posizione di marginalità, tanto per far capire da che parte sta il buon direttore: dà spazio a tutti, ma non nasconde certo le sue preferenze. Alcune sono francamente incomprensibili, come quella in cui una lettrice afferma che «dovremmo chiedere scusa» alla defunta Rita Levi Montalcini, ma non si capisce bene per che cosa: sembra, di non aver sottolineato abbastanza la sua bellezza interiore, mostrandone invece le rughe e il corpo non più giovane. Come se una tale capacità di “vedere oltre” spettasse ai fotografi o ai giornalisti e non fosse cosa intima di ciascuno. Si parla anche dei «grandi messaggi» della scienziata, senza specificare quali sarebbero: dandoli semplicemente per scontati, come la cultura dominante vuole.

Viene poi la rubrica delle opinioni, a cura di Antonio Sanfrancesco, che spezza una lancia a favore dell’abolizione del “signorina”, sulla scia di quanto deciso in Francia per impulso del governo Hollande, in quanto si tratterebbe di un termine sessista e discriminatorio, un ostacolo da rimuovere sulla via per realizzare le pari opportunità. Il tutto con l’avallo e l’autorevole parere “tecnico” della solita psichiatra e psicoterapeuta femminista di turno, e con la conferma di una giornalista e scrittrice che non manca di agganciare la questione con quella della violenza sulle donne. Si vede che chiamare “signorina” una donna giovane contribuisce a creare le condizioni sociologiche favorevoli per lo stupro e, forse, l’uccisione di altre donne innocenti. I maschi non lo sanno e non se ne rendono conto, ma dovrebbero sentirsi in colpa: il loro modo di parlare non esprime cavalleria, ma sessismo travestito, e apre la strada nientemeno che al femminicidio.

Subito dopo c’è la pagina dei «Sentimenti» (di Rosario Carello), occupata per due terzi dalla foto di un gommone d’immigrati clandestini, in mezzo ai quali un giovane marocchino esulta, allargando le braccia e aprendo il volto a un sorriso d’infinta soddisfazione: la precaria imbarcazione è stata soccorsa al largo di Gibilterra, ormai è fatta, tra poco ci sarà lo sbarco sul suolo europeo. Il curatore della rubrica fa una sviolinata in piena regola, scomodando alte immagini poetiche, per celebrare il fatto che, agli occhi di Dio, non esistono clandestini. Un concetto che anticipa quello del ministro per l’Integrazione, Kyenge, allora non divenuto ancora tale: che la terra è di tutti e, dunque, non ci sono più clandestini, ma solo migranti che hanno ogni diritto di sbarcare dove vogliono, in quanti vogliono e come vogliono. Alle nazioni in cui approdano resta, a loro volta, un solo dovere: quello di accoglierli illimitatamente e di soccorrerli, in caso di difficoltà, a costo della vita (cosa che avviene ogni giorno, silenziosamente e lontano dai clamori mediatici), perché, se non ci riescono, e una carretta del mare affonda con il suo carico di disperati, le nazioni d’Europa, e l’Italia in prima fila, devono sentirsi in colpa, in quanto nazioni egoiste o poco generose.

Questo concetto è ribadito da un articolo, poche pagine più avanti, del direttore della Fondazione Migrantes, Giacomo Perego, il quale sostiene (parole testuali del titolo) che «La “risorsa” migrante è un valore aggiunto»; articolo che incomincia, doverosamente, con un riferimento al Concilio Vaticano II, nel quale (ancora testualmente) «la chiesa si è riscoperta in cammino». Come dire: siamo tutti in cammino, siamo tutti migranti: dunque, aboliamo le frontiere e lasciamo spostare a loro piacere decine di milioni di persone, senza neanche domandare il parere dei popoli che dovrebbero accoglierle. Se ne deduce inoltre che la Chiesa cattolica, prima del Vaticano II, non era in cammino, o almeno non sapeva di esserlo: ma adesso, per fortuna, tutto è cambiato e tutto va bene, la Chiesa si è messa in marcia verso le magnifiche sorti e progressive.

Seguono alcuni articoli di varia attualità, nel complesso abbastanza interessanti e, comunque, meno faziosi e meno “impostati” delle rubriche che aprono la rivista e le danno il “la” in senso ideologico. Si parla del governo Monti, sembra un secolo fa; e, del resto, tutte le opinioni sono legittime.

Circa a metà giornale, una grande réclame (a due pagine intere) di una collana di libri curata da Enzo Bianchi, presentato, oltre che da una maxi fotografia, dalla solita qualifica: “priore di Bose”. Può darsi che molti cattolici, per non parlare dei non cattolici, non sappiano di che cosa si tratta: allora sarebbe buona cosa specificare, per loro informazione, che Enzo Bianchi, anche se si veste più o meno come un prete cattolico, non è affatto un sacerdote, ma un laico; e che la comunità monastica di Bose è formata da monaci di entrambi i sessi e di diverse confessioni, cattolici, protestanti, ortodossi, in nome di un “ecumenismo” che appiattisce ogni identità e, dunque, ogni distinzione, che è premessa indispensabile all’autentico dialogo interreligioso. Più avanti nel giornale, la rubrica fissa tenuta dallo stesso Enzo Bianchi, dedicata al catechismo (strano, lui che non è prete); in cui ci spiega, questa volta, in che cosa consiste la preghiera di lode.

Scrittore prolifico e pubblicati da numerose case editrici, tra cui la Einaudi, Enzo Bianchi è persona autorevolissima nella galassia dei “buoni” cattolici, ossia quelli di sinistra. Le sue idee sono un misto di razionalismo alla Bultmann, ad esempio per quanto riguarda la necessità di “demitizzare” le Scritture e riportarle dalla dimensione “poetica” a quella realistica, adatta agli uomini dei nostri tempi (cominciando con lo sfrondare i racconti sui miracoli) e di buonismo a senso unico, sostenendo, fra le altre cose, che «un Dio che castiga merita di essere negato». Tradotto: ciascuno è padrone di fabbricarsi il Dio che più gli aggrada, ovviamente sempre disposto a perdonare; il che è un grosso travisamento di quanto afferma il Vangelo, nel quale il perdono infinito di Dio è sempre subordinato alla disponibilità al pentimento da parte dell’uomo (come si vede anche nella celebre parabola del figlio prodigo). Come si potrebbe, infatti, perdonare qualcuno che non vuole essere perdonato; che rifiuta non solo di chiedere, ma anche di ricevere il perdono; che rifiuta, anzi, la persona stessa di colui che lo potrebbe (e lo vorrebbe) perdonare? Un Dio che perdona anche chi rifiuta il suo perdono, è un Dio che compie violenza, nel senso che non rispetta la libertà dell’uomo: ma allora, che senso avrebbe la creazione e che senso avrebbe il dono più prezioso in essa contenuto, appunto la facoltà dell’uomo di scegliere liberamente? Ma queste sono considerazioni e contraddizioni, evidentemente, troppo sottili per i teologi alla Bianchi, ai quali importa solo suonare la grancassa della demagogia più sfrenata.

Nella pagina accanto, la rubrica di monsignor Gianfranco Ravasi, dedicata a «Le pietre d’inciampo del Vangelo». Ognuno ha le sue pietre d’inciampo: per Ravasi, è il famoso frammento del papiro di Qumran denominato “7Q5”, che egli, con una memorabile “gaffe”, definì scritto in lettere ebraiche, anziché greche (si veda il libro di Antonio Socci «La guerra contro Gesù»). Un papiro la cui datazione ha grosse implicazioni per la conferma del valore storico dei Vangeli: padre O’Callaghan lo data non oltre il 50 d.C., il che, se fosse vero, e se realmente si trattasse di un frammento del Vangelo di Marco, implicherebbe che venne scritto non più di vent’anni dopo la morte di Gesù. Ravasi è uno strenuo avversario di tale interpretazione e non si perita di definire «frenetiche e scomposte» certe ricerche sulla figura storica di Gesù. Anche lui, come Bultmann, ama leggere il Vangelo in forma “demitizzante”: si direbbe che il Gesù della storia gli faccia quasi paura. Sono questi gli “esperti” che, dalle colonne del più diffuso giornale cattolico, tengono aggiornati i fedeli sulle questioni della loro fede. A questo punto, ciascuno giudichi con la propria testa…